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VALUTAZIONE ED EMOTIVITÀ: UN TEMA ANCORA POCO ESPLORATOPROF. VINCENZO BONAZZA

:: UUNNvideo.unipegaso.it/01SCUMA/DocimologiaII/Bonazza/... · 2018. 9. 19. · mio rapporto con il professore di lingua italiana che risultò conflittuale da subito. Ricordo benissimo,

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  • ““VVAALLUUTTAAZZIIOONNEE EEDD EEMMOOTTIIVVIITTÀÀ:: UUNN

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  • Università Telematica Pegaso Valutazione ed emotività: un tema ancora poco esplorato

    Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

    vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

    (L. 22.04.1941/n. 633)

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    Indice

    1 CONTAMINAZIONE DEI GIUDIZI DI VALUTAZIONE ----------------------------------------------------------- 3

    2 STORIE DI VITA SCOLASTICA SULLA VALUTAZIONE -------------------------------------------------------- 6

    3 LE RICERCHE CLASSICHE ---------------------------------------------------------------------------------------------- 18

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    1 Contaminazione dei giudizi di valutazione

    A partire da questo capitolo ci occuperemo della valutazione ed in modo particolare dei suoi

    strumenti dal momento in cui essi sono essenziali per la buona riuscita di un percorso

    individualizzato. È vero infatti che una concezione rinnovata della valutazione si distinge per la sua

    capacità di fornire informazioni sistematiche sui processi di insegnamento/apprendimento: proprio

    la quantità e la qualità delle informazioni ricavate permetterà di pilotare con efficacia una strategia

    di lavoro che intende essere attenta alle necessità dei singoli. Le riflessioni seguenti verteranno,

    principalmente, sul rapporto tra valutazione ed emotività; nel paragrafo seguente, in particolare,

    riporteremo una selezione di interventi “postati” su un forum on-line (tenuto recentemente) che

    abbiamo moderato all’interno di un Insegnamento di Docimologia. Agli studenti, che sono tutti

    insegnanti nella scuola primaria, è stato chiesto di raccontare una loro esperienza scolastica (relativa

    al periodo in cui erano studenti) inerente la valutazione. Dalle loro storie ci si potrà rendere conto

    che un giudizio di valutazione è formato anche da una molteplicità di variabili che trascendono la

    dimensione cognitiva. Emerge con chiarezza come una strumentazione di tipo valutativo

    tradizionale finisca per fornire giudizi valutativi molto difformi, non solo in ragione di una diversa

    abilità posseduta dagli allievi, ma anche in ragione di variabili esterne al giudizio. Come ha

    sottolineato Benedetto Vertecchi “la valutazione coinvolge fortemente [il corsivo è nostro]

    l’affettività degli allievi, determinando in buona misura la qualità dei loro atteggiamenti nei

    confronti della scuola. È questa la ragione che spiega perché la memoria delle esperienze legate a

    momenti di valutazione sia più persistente di quella relativa ad altre esperienze scolastiche; ma è

    anche la ragione di molte delle difficoltà, delle incertezze, dei disagi che caratterizzano la pratica

    corrente della valutazione”1. L’esperienza didattica insegna che nel caso in cui il giudizio risulti

    formato da tale commistione – e le testimonianze lo documentano molto bene –, tra gli allievi

    diminuisce la fiducia nei confronti degli insegnanti e la motivazione ad apprendere. A ciò si deve

    aggiungere che gli strumenti tradizionali di valutazione, il più delle volte, favoriscono atteggiamenti

    competitivi forieri, tra l’altro, di forme più o meno palesi di aggressività: nel caso in cui un allievo

    non sia in grado di fornire una risposta ad un’interrogazione orale può accadere che colui che

    1 Manuale della valutazione. Analisi degli apprendimenti e dei contesti, Franco Angeli, Milano 2003, pag. 19.

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    intervenga successivamente si affermi sui limiti dell’altro; nello specifico ciò si manifesta laddove

    gli esiti della valutazione forniscano chiare indicazioni su chi è stato il migliore e, reciprocamente,

    il peggiore. A seguito del pronunciamento di un giudizio negativo, si manifestano

    atteggiamenti di vario tipo, come:

    • diminuisce la qualità della performance in ragione dello stato di ansia presente

    nell’allievo;

    • subisce alterazioni l’autostima o il senso di autoefficacia in relazione

    al significato che il ragazzo attribuisce al giudizio valutativo;

    • si allenta la motivazione scolastica.

    Nel caso specifico dell’interrogazione è evidente quanto l’emotività degli allievi sia messa

    in gioco: se per il docente ciò che è essenziale, ai fini della valutazione, è la performance, per

    l’allievo, invece, si mettono in moto meccanismi diversificati che finiscono, talvolta, per

    appesantire la prestazione fornita come:

    • la capacità emotiva di far fronte ad un colloquio;

    • la ricerca del consenso affettivo nei confronti del docente;

    • il timore di far brutta figura nei confronti dei compagni.

    A ciò si aggiunga che lo stato ansiogeno è ritenuto – esclusivamente – un problema

    dell’allievo, essendo pochi i docenti capaci di decodificare il fenomeno e di permettere a

    quest’ultimo di gestirlo al meglio.

    Modificare direzione di marcia significa, ad esempio, laddove si manifestino gli

    atteggiamenti competitivi sopra richiamati, stabilire chi si avvicina o meno ad un criterio obiettivo

    predefinito e opportunamente socializzato; al migliore/peggiore – come dicevamo in precedenza –

    si sostituisce il corretto/non corretto. In questo modo si smussano, e non di poco, le spigolature che

    la valutazione condotta in forma tradizionale possiede.

    Si tratta, in ultima analisi, di abbracciare l’ottica propria della valutazione formativa; prima

    di attribuire l’insuccesso all’allievo è necessario comprendere sino a che punto le procedure di

    insegnamento siano realmente efficaci.

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    Certo si dovrà prestare attenzione a visioni manichee nocive per la quotidianià didattico-

    docimologica: la soggettività nella valutazione, sebbene in molti casi sia impossibile eliminarla,

    dovrà essere accolta e gestita; non si dovrà certo fuggire da essa per rifugiarsi in una dimensione

    che abbraccia unicamente l’oggettività.

    L’oggettività – correttamente intesa –, sebbene in molti casi sia necessaria, non sempre è

    auspicabile in ambito valutativo, anzi talvolta rischia di tramutarsi in una vera e propria illusione.

    Come più volte abbiamo sottolineato nei nostri lavori, è necessario conoscere la peculiarità

    dei diversi strumenti valutativi al fine di utilizzarli nei modi più produttivi dal punto di vista

    docimologico didattico.

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    2 Storie di vita scolastica sulla valutazione

    Abbiamo ritenuto interessante per il lettore riportare questi interventi (che abbiamo ripreso

    in originale togliendo solamente i riferimenti personali e aggiustando leggermente la forma) perché

    fotografano bene, da vicino, le distorsioni di tipo valutativo che ancora oggi riguardano la prassi

    educativa. Riteniamo che essi aiutino l’operatore scolastico a maturare maggior consapevolezza nei

    confronti della poliedricità del fare valutativo, consentendogli di comprendere quanto sia necessaria

    una preparazione docimologica tout court, la quale non può prescindere anche dalle competenze

    relazionali che sono di grande importanza per gestire le emozioni proprie e degli allievi4. In effetti,

    all’interno di un recente programma di ricerca sulle competenze dell’insegnante, riporta Maria

    Teresa Moscato, è emerso con forza il bisogno di maturare competenze docimologiche: gli

    insegnanti, infatti, nella loro quotidianità sembrano “prestare maggior attenzione alle proprie abilità

    esplicativo-espositive e meno alle capacità valutative, e rispetto alla valutazione denunciano

    maggiori sensi di inadeguatezza e difficoltà”2.

    Ogni storia di vita scolastica sarà seguita da una o più keywords, miranti a riassumerne il

    significato docimologico. Come dicevamo inizialmente si percepisce dalle storie riportate, in modo

    particolare laddove si siano rese manifeste forme di ingiustizia, o perlomeno percepite come tali,

    come le valutazioni spesso risultino contaminate da variabili esterne: sicché l’esito buono di un

    allievo può essere visto come eccellente se in precedenza egli aveva conseguito risultati appena

    sufficienti, oppure può essere vero il contrario. Più grave per l’allievo, tuttavia, appare la situazione

    in cui il giudizio risulta inquinato dall’opinione che il docente s’è fatta di lui: in questo caso, infatti,

    si consolida nel docente uno stereotipo sul rendimento dell’allievo che difficilemente potrà essere

    modificato la cui conseguenza, in caso sfavorevole, si ripercuote negativamente sull’allievo stesso.

    Non aggiungiamo altro alle argomentazioni appena sostenute: riteniamo che le storie siano in sé

    molto eloquenti e aiutino il lettore a comprendere il carattere arbitrario della valutazione

    tradizionale.

    2 Diventare insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento, La Scuola, Brescia 2008, pag. 127.

  • Università Telematica Pegaso Valutazione ed emotività: un tema ancora poco esplorato

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    Buongiorno a tutti, l’esperienza che intendo raccontare riguarda la mia frequenza del

    primo anno superiore presso l’Istituto Magistrale. Mi riferisco, in particolar modo, al

    mio rapporto con il professore di lingua italiana che risultò conflittuale da subito.

    Ricordo benissimo, come se fosse ieri, una delle prime interrogazioni. Quel giorno non

    ero molto preparata per cui sapevo benissimo che in caso di interrogazione non avrei

    avuto di certo un bel voto. Infatti, quella mattina il professore mi interrogò. Si accorse

    subito della mia impreparazione, e dopo qualche minutodi silenzio, mi guardò in faccia

    con aria di sfida e iniziò ad umiliarmi in malo modo davanti a tutti i miei compagni.

    Rimasi sbalordita di fronte a quella reazione; non mi era mai capitato che dei professori

    si rivolgessero a me con quel tono. Trattenni il respiro per qualche minuto e alla fine

    manifestai il mio disappunto, dicendogli che accettavo le sue critiche riguardo il mio

    impegno, ma che non trovavo assolutamente corretto il suo atteggiamento provocatorio

    e umiliante. Questo episodio purtroppo condizionò il successivo impegno in questa

    materia. Infatti, da allora, i miei tentativi di applicazione allo studio con profitto si

    rivelarono del tutto inutili. Ogni interrogazione ed ogni compito in classe successivi a

    quella prima vicenda, erano ben lungi dal rappresentare la verifica oggettiva di un reale

    percorso di apprendimento. Avvertivo, piuttosto, in essi la manifestazione di una

    valutazione pregiudiziale nei miei confronti. Tale esperienza incise negativamente

    soprattutto sul livello della mia autostima e sulla capacità di intraprendere con sicurezza

    il mio cammino scolastico. A metà anno, ormai fortemente demotivata, dissi ai miei

    genitori che non intendevo più frequentare la scuola e l’abbandonai.

    Grazie all’aiuto e all’amore dei miei genitori ritornai sui miei passi solo all’apertura del

    successivo anno scolastico, iscrivendomi, tuttavia, in un altro istituto magistrale dove

    arrivai al diploma con piena sufficienza in tutte le materie e, dunque, anche in italiano.

    Keywords: relazione

    Ricordo che durante la terza superiore cambiai insegnante di educazione artistica. La

    media prima era 7. Questa nuova insegnante ci fece disegnare, come primo approccio e

    conoscenza delle capacità grafico-pittoriche degli alunni, una natura morta. Credo che

    dal primo giorno non apprezzò quanto avevo disegnato: lo valutò con uno “striminzito”,

    così lo definì per incoraggiarmi. Nonostante disegnassi paesaggi sia a china che con

    colori a matita o con colori a olio niente male, a detta anche dai miei compagni,

    inesorabilmente, sul foglio da disegno, con un rosso brillante, arrivava il mio compagno

    di sventura: il numero 6.

    • Keywords: effetto di stereotipia

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    Negli ultimi due anni di scuola superiore la matematica ha cominciato ad essere per me

    una materia interessante, ma difficile da capire. Mi era sempre piaciuta e avevo sempre

    preso dei buoni voti, ma in terza superiore, cambiando insegnante, ho cominciato ad

    avere voti bassi, nonostante continuassi a studiare e ad impegnarmi come avevo sempre

    fatto. I voti dei compiti in classe raggiungevano appena la sufficienza e nelle

    interrogazioni alla lavagna, frequentissime, mi sentivo sempre dire dalla professoressa

    “Bene, ma... puoi fare di più”. Ai colloqui con gli insegnanti, mia madre ritornava ogni

    volta dicendomi che andavo bene, ma in matematica potevo fare di più. Nonostante i

    voti scendessero, la matematica continuava a piacermi anche se non sapevo cosa fare

    per far capire alla professoressa che io la studiavo e mi piaceva anche. Facevo i compiti

    senza grosse difficoltà e non mi sembrava di andare peggio dei miei compagni di classe.

    Ad un certo punto cominciai a pensare che forse i miei voti bassi dipendessero dalla mia

    professoressa, ma non ho mai osato dirlo a nessuno. Il voto più alto che ho preso in

    matematica è stato 6 e mezzo, ma l’ho preso ben poche volte. Qualche anno più tardi,

    all’Università ho sostenuto due esami di matematica (con

    tanta fatica perchè mi sembravano troppo difficili) che non sono andati poi tanto male.

    Eppure, quando oggi aiuto i miei figli nei compiti, preferisco sempre che li aiuti il papà

    in matematica, perché mi sento sempre un po’ “insicura” e, se posso scegliere le materie

    da insegnare, preferisco evitare la matematica, che, nonostante tutto, continua a

    piacermi.

    • Keywords: effetto di stereotipia

    Cari amici, gentile professor Bonazza, volevo parlarvi della mia esperienza alla scuola

    superiore. Il latino era divenuto un incubo per me. La docente del terzo anno all’Istituto

    Magistrale mi aveva presa un po’ di punta semplicemente perché diceva che essendomi

    andata molto bene la prima versione, mi ero adagiata nei compiti successivi.

    Quando mi arrivò un 7 ebbe l’ardore di asserire che ero stata brava a copiare senza

    farmi scoprire da lei. Se andava bene diceva che copiavo, se andava male diceva che più

    di così non mi era dato di fare. Davvero mi pesava il momento del compito perché

    sapevo che, comunque andava, per me era un’umiliazione di fronte alla classe. Ai

    colloqui individuali mi presentai anch’io con mia sorella maggiorenne.

    Mi chiese cosa ero andata a fare, io le risposi che mi trovavo in difficoltà con lei per

    l’atteggiamento che aveva nei miei confronti e che avrei voluto sapere una volta per

    tutte casa volesse da me. La sua risposta è scolpita nella mia mente: “Il latino o lo sai o

    non lo sai”. Già, forse lei era nata parlando il latino…

    Ora insegno in un istituto comprensivo e detesto sentire ancora tra i colleghi chi afferma

    giudizi del tipo: “Quel bambino non ce la farà mai!”. Sono fermamente convinta che

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    crescere comporti investire tempo, costanza, impegno ma anche fiducia in se stessi che

    di certo non potrà esserci se, chi educa, è carico di pregiudizi, poca passione per il

    proprio lavoro, verso i propri allievi e mancanza di etica professionale.

    • Keywords: ideologia delle doti

    Io ho frequentato il liceo scientifico ed è stato difficile il primo anno in quanto entravo

    in una realtà diversa dalle medie e soprattutto andavo incontro a materie mai conosciute

    prima (quali il latino, fisica e chimica); non dimenticherò mai la prima versione di

    latino… ho preso 7… e così è stato per tutte le altre versioni dei 5 anni di liceo; non ci

    potevo credere. Non che 7 fosse un brutto voto, ma mi infastidiva, mi sentivo presa in

    giro. Quante volte mi son chiesta: ma sono così brava o sciocca (dipende dai punti di

    vista) da fare ogni volta gli stessi errori? Le versioni erano sempre diverse, a volte più

    complicate, a volte più semplici, ma il voto era sempre 7! Al colloquio con gli

    insegnanti mia mamma le chiese come mai non riuscissi a prendere più di 7 e

    l’insegnante rispose semplicemente che non avevo studiato abbastanza da prendere 8 o

    9. Non ci potevo credere, ma ad un certo punto mi sono rassegnata. Ho iniziato a

    studiare meno e prendevo comunque 7. Allora perché perdere i pomeriggi – mi sono

    detta – quando sapevo già il risultato??? La cosa più sconcertante è che succedeva

    anche ai miei compagni. Preso un voto X all’inizio della prima superiore, il voto X

    risultava pr tutte le versioni fino alla fine della quinta superiore. Incredibile, ma vero

    purtroppo.

    • Keywords: effetto di stereotipia

    Buonasera professor Bonazza e compagni, ricordo quella volta nella classe terza

    dell’Istituto Magistrale il mio professore di matematica del quale tutte avevamo il

    terrore. La matematica non è mai stata il mio forte e per quanto studiassi i miei voti

    arrivavano appena alla sufficienza, nella mia classe c’era invece una ragazza che

    studiava poco o niente, ma era riuscita ad ingraziarsi il professore che a lei dava sempre

    buoni voti. Una volta durante un elaborato di matematica, insieme ad una mia amica, mi

    sono messa vicina a questa ragazza e abbiamo fatto l’elaborato praticamente uguale.

    Morale della favola io ho preso 6 lei 8.

    • Keywords: effetto di stereotipia

    Vi confesso che nello scrivere queste poche righe, ho rivissuto le stesse emozioni che

    provai 25 anni orsono. Classe III, Scuola Magistrale. Sono stata sempre una ragazzina

    studiosa ma nello stesso tempo poco diplomatica. Questo atteggiamento che da alcuni

    insegnanti era valutato in maniera positiva ad altri dava fastidio. Il mio rapporto con

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    l’insegnante d’italiano non fu mai idilliaco. Nei temi d’italiano non prendevo mai più di

    6. La mia protesta arrivò dopo aver visionato il giudizio sul compito che fu:

    “Svolgimento pertinente alla traccia, ortografia corretta, sintassi

    ben articolata. La grafia risulta pressoché illeggibile in più punti”. A mio parere, con

    quel giudizio il 6 non era giustificato. Ho pertanto chiesto chiarimenti all’insegnante.

    L’insegnante disse che impiegò il triplo del tempo a correggere il mio elaborato rispetto

    a quello impiegato per tutti gli altri. La mia grafia era incomprensibile. Aggiunse una

    frase che ancora oggi porto stampata in mente: “Carissima, credo che con questa grafia

    non potrai superare mai un

    concorso. Gli esaminatori alla prima frase illeggibile del tuo tema lo scarteranno”. Ho

    deciso di raccontare questo episodio perché è stato il momento in cui ho compreso la

    motivazione per la quale avevo sempre una valutazione al di sotto delle mie aspettative.

    Tale episodio ha condizionato e condiziona tuttora le verifiche scritte. Ancora oggi

    quando devo affrontare una prova scritta mi chiedo quanto la mia brutta grafia

    influenzerà la valutazione. La previsione nefasta dell’insegnante d’italiano non si

    concretizzò perché di concorsi riuscii a superarne ben tre. Spesso nelle prove scritte

    utilizzo lo stampatello anziché il corsivo per ovviare al mio problema. All’appello di

    febbraio una docente prima di iniziare il compito disse: “ Non sono un’insegnante che

    valuterà la “calligrafia” come accadeva nella scuola dell’800. Vi chiedo, se possibile, di

    scrivere in maniera leggibile”. Questa frase ha condizionato il mio esame. Non riuscivo

    nemmeno a fare le crocette delle domande a risposta multipla, non vi dico con che

    grafia ho risposto a quelle semistrutturate. Ho cancellato e riscritto più volte sia le

    crocette che il testo. Non vi dico il disordine. Sono certa che la valutazione non sia stata

    compromessa da ciò ma l’esecuzione del compito sarebbe stata diversa se non avessi

    avuto l’esperienza descritta.

    • Keywords: effetto alone

    L’esperienza che intendo raccontare è accaduta durante la scuola secondaria di secondo

    grado; le figure coinvolte sono io studente e due prof. di latino. Dopo due anni in cui in

    latino raggiungevo la sufficienza con grande difficoltà (ho preso il voto più basso della

    mia vita), finalmente è cambiato il professore. Con l’arrivo del nuovo prof., simpatico e

    disponibile al dialogo, i miei voti hanno iniziato via via a migliorare e le versioni mi

    sembravano molto più semplici.

    Ho raccontato questo episodio per me particolarmente significativo perché mi ha aiutata

    ad essere più sicura e a migliorare la mia autostima.

    Dapprima provavo profondo disagio, terrore per le verifiche e poi grande soddisfazione.

    Quando incontravo per strada la vecchia prof. cercavo in tutti i modi di evitarla e oggi

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    con i miei alunni cerco sempre di essere accogliente e di apprezzare ogni loro sforzo di

    miglioramento.

    • Keywords: relazione

    Ho scavato nella memoria, per riportare a galla un passato veramente molto pesante. Io

    ho sempre adorato la scuola, imparare, immergermi nei libri, approfondire è proprio una

    caratteristica che mi contraddistingue rispetto agli altri componenti della mia famiglia.

    Noi siamo cinque fratelli, figli di operai molto umili. I miei fratelli non hanno mai

    amato particolarmente la scuola, sebbene riuscissero anche con semplicità. Non hanno

    continuato gli studi perché in famiglia c’era un gran bisogno di soldi. Quando ho

    terminato la terza media, i miei fratelli hanno tifato per me, convincendo i miei genitori

    a darmi la possibilità di proseguire. Uscii, quindi, dal piccolo paesino di campagna per

    addentrarmi nella città. Arrivai all’Istituto Magistrale (che in quegli anni era diventato

    quinquiennale con indirizzo socio-psico-pedagogico), con in mano il mio “ottimo” della

    licenza media, le aspettative della famiglia e gli incoraggiamenti dei miei professori.

    Che amarezza, scoprire che per molti insegnanti io uscivo dalla campagna. Eppure, io

    conoscevo già un po’ di latino, perché la mia insegnante alle medie ci fornì

    un’infarinatura di base; inoltre, conoscevo la Divina Commedia ecc.

    Avevo delle ottime basi ma bastò soltanto che alcuni professori incontrassero i miei

    genitori (che non parlano un italiano erudito, ma con una forte cadenza dialettale), per

    vedere forti cambiamenti. Questo mi procurò una forte insicurezza che si evidenziò

    negli orali, di fronte a certe espressioni compassionevoli : “Hai difficoltà di esprimerti,

    vero?”. La mia fortuna è stata la presenza di un carissimo e giovane professore, un

    supplente di inglese, che, conosciuta la mia mamma ai colloqui generali (avevo 16

    anni), non la liquidò con un “tutto bene”, ma gli parlò molto di me, del fatto che avevo

    delle buone capacità, che dovevo soltanto crederci io; se ero così brava prima, perché

    ora no?

    Ho sempre arrancato, con questo effetto pigmalione, ma ho raggiunto grossi obiettivi

    nella vita, organizzato eventi scolastici e formativi e non mi fermerò più. Anzi, questa

    esperienza mi ha aiutata ad esprimermi sempre e molto bene! Per concludere: se gli

    insegnanti pensano che un alunno sia meno dotato di altri per motivi di tipo sociale e

    familiari, lo tratteranno in maniera diversa dagli altri, lui rischierà di interiorizzare quel

    giudizio errato e si comporterà di conseguenza.

    • Keywords: ideologia delle doti

    Ero in seconda media e quel giorno c’era l’interrogazione di geografia. Il giorno

    precedente l’interrogazione mi ero preparata per tutto il pomeriggio sull’argomento

  • Università Telematica Pegaso Valutazione ed emotività: un tema ancora poco esplorato

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    indicato dal professore. La sera prima di cena mi ricordo che mi aveva interrogato

    anche mia mamma ed era molto felice perché mi disse che avevo studiato bene e che

    ero preparata per l’interrogazione. Il giorno successivo il professore mi interroga e mi

    ricordo che ho risposto a tutte le sue domande sull’argomento. Vado al posto e, mentre

    scrive nel suo registro il voto, mi dice che le mie risposte erano dette a memoria e che

    invece bisogna cercare di esprimersi in modo personale e con parole proprie. Alla fine

    del suo discorso mi conferma che ho preso 6 e mezzo come tutte le altre interrogazioni.

    Io non riuscivo proprio a capire il motivo di quel solito 6 e mezzo che mi era stato

    stampato dall’inizio della classe prima e che non riuscivo a migliorare. Eppure tutti i

    miei compagni hanno affermato che ero stata molto brava nell’interrogazione e che si

    capiva chiaramente

    che avevo studiato. Purtroppo il comportamento del professore è rimasto uguale per

    tutti i tre anni delle scuole medie e mi ha portato a non amare ed apprezzare la materia.

    Ancora oggi quando mia figlia mi chiede qualcosa tendo a risponderle che in geografia

    non sono brava. Allora mi chiedo: perché un insegnante quando fissa un’idea su un

    alunno dopo continua con la stessa idea senza dare la possibilità che questo migliori con

    il suo impegno nel corso degli anni?

    • Keywords: effetto di stereotipia

    La matematica è sempre stata uno scoglio difficile da affrontare, non tanto per difficoltà

    oggettive o per problemi di comprensione, quanto per una sfiducia nelle mie possibilità

    iniziata alla scuola elementare e consolidatasi negli anni. Il mio maestro e

    conseguentemente anche i miei genitori si sono convinti che la materia più “adatta” a

    me fosse italiano e che mai avrei raggiunto voti soddisfacenti in aritmetica. Questa

    valutazione mi ha molto condizionato durante la scuola media e sono arrivata anch’io a

    pensare di avere problemi di apprendimento in matematica: quanta ansia e quanta fatica

    nell’affrontare esercizi, interrogazioni compiti in classe! Poi in terza media ho avuto

    come insegnante un professore ormai alle soglie della pensione, dall’aspetto un po’

    burbero e con la fama di essere piuttosto severo. Per me crisi totale: paura, ansia, senso

    di inadeguatezza, scarsa autostima. Ma per fortuna tutto questo si è risolto quando sono

    riuscita ad esporre tutte le mie difficoltà all’insegnante, gli ho raccontato le mie paure e

    le mie difficoltà e lui ha capito che il mio problema non stava,tanto nella mia testa, ma

    nel mio cuore, era un problema emotivo. Così ha cominciato a coinvolgere me e i

    compagni più timorosi nelle spiegazioni, ci chiamava spesso alla lavagna ad eseguire gli

    esercizi e durante i compiti in classe ci proponeva gli esercizi a piccoli passi perché non

    prendessimo paura vedendo un compito nella sua complessità. Non sono diventata un

  • Università Telematica Pegaso Valutazione ed emotività: un tema ancora poco esplorato

    Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

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    asso della matematica, ma grazie al mio insegnante di matematica ho raggiunto un

    obiettivo più importante: superare un condizionamento negativo.

    • Keywords: effetto di stereotipia e relazione

    Classe III, Istituto Magistrale. Ai tempi in cui frequentavo l’Istituto c’erano due

    caratteristiche che tutti i compagni e i professori concordavano nel riconoscermi: ero

    uno studente difficile, con la tendenza a sfidare i professori, e sapevo scrivere dei bei

    temi. Ma la mia insegnante di italiano del terzo anno non era d’accordo; per lei ero solo

    uno studente trasgressivo. Così i miei voti nei temi scritti crollarono drasticamente dal

    sette e mezzo/otto al cinque, cinque e mezzo. La spiegazione che la professoressa mi

    dava era quasi sempre la stessa: “Sei uscito fuori tema”. Che io e la prof. avessimo

    qualche problema di comunicazione s’era capito subito, ma che interpretassimo in

    maniera tanto differente le tracce dei temi mi risultava davvero poco credibile.

    Nonostante sia io che la professoressa non facessimo nulla per nascondere la reciproca

    antipatia (quando ero interrogato mi interrompeva in continuazione per riprendermi su

    ogni piccola imprecisione e io mi attaccavo ad ogni pretesto per montare una polemica

    contro di lei) la mia autostima cominciava a risentirne. Forse non ero granché a scrivere

    i temi, magari si erano sbagliati i professori che avevo avuto prima, persino quelli delle

    scuole medie e la mia maestra delle elementari… Per fortuna l’anno successivo la

    professoressa di italiano cambiò di nuovo e i miei voti nello scritto schizzarono

    magicamente oltre l’otto. Questo episodio indica chiaramente come tutti gli insegnanti

    concordino nell’attribuire un potere alla valutazione. Ci sono insegnanti che si servono

    di questo “potere” per cercare di motivare i propri alunni, premiandoli per il buon

    lavoro o usando il voto come deterrente per richiedere un maggiore impegno, e ci sono

    insegnanti, pochi per fortuna, che lo usano come arma di ritorsione per gli alunni più

    antipatici. Inoltre questo episodio dimostra che se non si stabiliscono dei criteri

    oggettivi di valutazione ciascuno in un compito può leggerci quello che vuole e

    attribuirgli il valore che più desidera.

    • Keywords: effetto di stereotipia e relazione

    Racconto un episodio di quando frequentavo l’Istituto Magistrale. Eravamo una classe

    piuttosto vivace (strano per essere in ventidue), ma che dava veramente buone

    soddisfazioni sul piano del rendimento scolastico. Tranne per l’insegnante di

    educazione artistica, la quale pretendeva il massimo rigore, silenzio assoluto, perfezione

    assoluta e nessun momento di relazione che andasse oltre la sua materia! Provenivo

    dalle scuole medie dove, seppur non fossi una superdotata in questa materia, avevo

    incontrato un insegnante che mi aveva trasmesso il piacere per il disegno e bene o male

  • Università Telematica Pegaso Valutazione ed emotività: un tema ancora poco esplorato

    Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

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    al 7 arrivavo senza tanti problemi. Giunta alle superiori “apriti cielo!”. La carissima

    professoressa ha iniziato a strappar fogli a più non posso ed a criticare pesantemente

    quelli che erano i nostri elaborati, anche i più meritevoli! Ricordo ore ed ore a cercar

    “l’ispirazione” tra il terrorismo che trasmetteva in classe, potete immaginare come

    tremava la mano sul foglio; inoltre, pomeriggi interi a casa a sfumare il carboncino sul

    foglio per raggiungere uno striminzito 6! Comunque la frase che più mi ha segnato è

    stata: “Non avete nessun futuro come maestre perché non sapete disegnare, tranne che

    l’allieva X” (l’unica sua preferita che di certo non era una Van Gogh e nella sua vita fa

    tutt’altro che l’insegnante). Ho scelto questo episodio perché ancora oggi (da

    insegnante) quando prendo una matita in mano ricordo quelle parole e quel senso di

    frustrazione e di incompetenza, quel senso di angoscia che affiorava in me ogni volta

    che mia mamma doveva andar al ricevimento e tornava a casa dicendo “ah figlia mia

    non te la cavi proprio in disegno” .

    • Keywords: effetto di stereotipia e relazione

    Terza superiore. Mi ricordo che non andavo bene a scuola perché non mi impegnavo

    nello studio. Un giorno verso la fine dell’anno scolastico la professoressa disse: “La

    prossima volta ti interrogo in storia insieme al compagno X”. Io avevo deciso di

    prendere un bel voto e quindi mi sono messo d’impegno. X, invece, era il “secchione”

    della classe che era costante e prendeva sempre bei voti. Siamo stati interrogati e io ho

    risposto bene a 5 domande su 5 ed ho preso 6 e mezzo , invece X ha risposto a 2

    domande su 2 ed ha preso 8. Non sapevo se essere contento per il mio voto (il più alto

    di storia in quel periodo) o essere deluso dalla valutazione non equa avvenuta. Non ho

    detto nulla alla professoressa, ma ne ho parlato con i miei compagni che mi hanno dato

    ragione. Ho raccontato questo fatto perché è stata un’esperienza che mi ricorderò per

    tutta la vita.

    • Keywords: effetto di stereotipia

    Frequentavo la classe quarta elementare, eravamo in dodici bambini ed avevamo la

    maestra unica. Ricordo che era una sabato mattina, l’insegnante mi chiamò alla lavagna

    insieme ad un’altra. Entrambe dovevamo risolvere la medesima moltiplicazione: X alla

    lavagna, davanti alla classe; io dietro alla lavagna. Quando vidi la moltiplicazione

    pensai che era difficilissima, la mia compagna, poi, era bravissima in matematica, ma io

    volevo dimostrare a tutti, me compresa, che malgrado quella materia non fosse il mio

    forte, potevo farcela ugualmente. Mentre eravamo impegnate alla lavagna, l’insegnante

    si assentò per rispondere ad una telefonata. Intanto, io ed X avevamo terminato, il

    risultato era uguale: ce l’avevo fatta! La maestra rientrò, io ero emozionata perché

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    aspettavo con ansia che vedesse il mio risultato; lei guardò prima l’esercizio di X, poi

    guardò il mio. Mi disse: hai copiato? Non avevo copiato e glielo dissi, dentro di me ero

    profondamente offesa per la sua affermazione. Anche la bidella che ci aveva sorvegliati

    durante la sua assenza lo ribadì e l’intera classe confermò. La maestra non mise in

    dubbio le nostre affermazioni, ma dalla sua espressione avvertivo che non ci credeva. Ci

    guardò sorridendo e disse: X tu non avrai mai problemi in matematica.

    A me non disse nulla. Ho deciso di raccontare questa esperienza perché malgrado siano

    trascorsi parecchi anni, il ricordo di quel sabato mattina è ancora nitido.

    • Keywords: effetto di stereotipia e relazione

    Il mio primo quadrimestre non era andato bene poiché avevo parecchie insufficienze;

    probabilmente non mi ero ancora messa sulla linea d’onda giusta per affrontare la

    scuola superiore con la dedizione necessaria. Resta il fatto che alle medie ero rimasta

    soddisfatta del mio giudizio finale (buono) per cui sapevo che potevo fare di più. Mi

    sono messa di buona lena e ho recuperato tutte le materie che avevo giù perché sapevo,

    conoscendomi, che quelli non erano i voti giusti per una come me che aveva sempre

    preso a cuore l’impegno scolastico. L’episodio che voglio raccontare si riferisce ad un

    momento preciso durante la lezione di latino tenuta dalla mia anziana (ma molto

    competente) professoressa. Una compagna era stata chiamata alla lavagna per fare una

    versione della frase italiana (dettata dalla professoressa) in latino. Una volta scritta, si

    notavano parecchi errori per cui l’insegnante chiama una alunna per effettuare la

    correzione.

    Lo stupore mi prende all’improvviso perché pensa di chiamare proprio me! Io mi

    avvicino alla lavagna e con tranquillità effettuo le correzioni di fronte agli occhi

    increduli della professoressa che esclama: “l’avreste mai detto che avrebbe corretto in

    maniera giusta una frase dall’italiano al latino?”, rivolgendosi alla classe.

    Io in quel momento mi sono sentita felice perché, anche se la frase nascondeva un errato

    giudizio che l’insegnante aveva dato nei miei confronti durante l’anno scolastico, ero

    riuscita a dimostrare a me stessa e agli altri che avevo le capacità per raggiungere

    risultati soddisfacenti. Devo ringraziare quell’insegnante per avermi dato una tale

    opportunità di riscatto perché da allora tutti i miei voti sono saliti a tal punto da arrivare

    a fine anno senza neppure un’insufficienza.

    Questo dimostra come la valutazione delle prestazioni non sempre significa valutare le

    capacità e le potenzialità degli studenti. Avere fiducia nelle capacità dei propri alunni,

    specie quelli più in difficoltà, porta a risultati davvero insperati e imprevedibili.

    • Keywords: relazione e motivazione

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    Gli anni della scuola media per me sono stati i peggiori in assoluto, ho mantenuto pochi

    ricordi, ma uno in particolare mi è rimasto bene in mente, sono stati anni turbolenti e

    non sempre proficui, ma giunta alla terza media decisi di mettermi d’impegno e di dare

    il meglio che potevo, infatti uscii dalle medie con buono. Ciò che mi sconvolse e ferì fu

    il consiglio dei professori su quale scuola ero più portata a frequentare dopo le medie, in

    base al profilo, al giudizio, all’idea che loro avevano di me. Io ero quasi decisa a

    scegliere l’istituto per geometri, ma per loro non avevo dimostrato nel corso degli anni

    un impegno costante nello studio (no, effettivamente l’impegno era cresciuto), perciò,

    visto che avevo poca voglia di studiare e inoltre provenivo da una famiglia di umili

    operai, per me era adatta una scuola professionale che mi avrebbe portato ad imparare

    un lavoro questo venne detto ai miei genitori e il verdetto scritto nero su bianco in una

    lettera. In me è scattato un forte senso di rivalsa (“Gliela faccio vedere io!”) e la

    decisione fu definitiva.

    Ho frequentato quella scuola, sinceramente non senza difficoltà, ma non sono mai stata

    bocciata e ho ottenuto il mio diploma, che ho riposto nel cassetto e mai usato; nel

    frattempo avevo capito che la mia passione era lavorare nel sociale, mi sono diplomata

    in un corso regionale triennale, lavorando contemporaneamente, e ora frequento questo

    corso universitario (scusate ma “alla faccia” di “meglio che impari un lavoro e vada a

    lavorare perché non ha voglia di studiare”). Penso che questa esperienza sia rimasta

    dentro di me e segni le scelte che faccio anche nell’ambito professionale, lavoro in un

    asilo nido, cerco spesso di fermarmi a pensare se il pensiero che ho di quel bambino sia

    diventato troppo pregiudizievole e cerco di stare attenta a non dare giudizi, etichette

    assolute e vincolanti.

    • Keywords: ideologia delle doti

    Questa esperienza l’ho vissuta personalmente assieme ai miei compagni di classe

    quando frequentavo la terza media. Avevo un’insegnante di italiano molto metodica e

    severa nei confronti degli alunni. Premiava generalmente i figli di colleghi a discapito

    di altri alunni, questo avveniva puntualmente in presenza di tutti i ragazzi. Un sabato

    mattina, giornata prescelta per la consegna compiti, arrivò con i temi corretti.

    L’espressione del suo volto faceva presagire qualcosa di poco piacevole. Prima si

    sedette, poi dopo una breve premessa disse che i nostri temi erano stati scritti non con la

    testa, ma con i piedi. Usò un’altra espressione che non riporto. Arrivati a casa

    riportammo il fatto ai nostri genitori. Si crearono ben presto due schieramenti di

    pensiero: alcuni sostenevano che l’insegnante aveva usato parole forti per motivarci a

    fare di più per mettere in pratica ciò che lei ci aveva insegnato incessantemente per tre

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    anni. Altri, invece, non trovavano una giustificazione ad un comportamento scorretto

    nei confronti degli alunni e di conseguenza delle famiglie.

    Ricordo che ci fu un’assemblea, alla quale fu presente il dirigente, un uomo che a

    distanza di tempo paragonerei, usando un’espressione manzoniana ad “un vaso di

    coccio fra tanti vasi di ferro”. L’insegnante restò ferma nella sua posizione, mentre

    negli alunni più svantaggiati si affievoliva la motivazione verso lo studio. Lei attribuiva

    le nostre incapacità al contesto culturale delle famiglie, premiava solo i figli di coloro

    che avevano un profilo sociale ed economico molto alto, collocava nella fascia di mezzo

    gli alunni che per capacità personali riuscivano nello studio, relegava all’ultimo posto

    gli alunni in difficoltà. Ribadiva che per scrivere bene occorreva non solo leggere

    molto, ma avere anche in famiglia delle persone colte a tal punto da tramandare ai figli

    il loro sapere. Ci insegnava anche storia e geografia e l’atteggiamento adottato per la

    valutazione era il medesimo. Nel corso degli anni, ho ripensato spesso a questa figura.

    Permane in me la gratitudine per quello che mi ha insegnato, mista al ricordo del suo

    sguardo severo, giudicante, talvolta ironico con il quale ti scrutava quando ti

    interrogava o semplicemente quando, in modo spontaneo apportavi il tuo contributo

    durante un’attività. Ho deciso di raccontare questa esperienza perché nonostante siano

    passati diversi anni, ritrovo lo stesso atteggiamento nei professori delle mie figlie che

    frequentano rispettivamente Scuola Secondaria di 1° grado e Liceo. Dai loro racconti

    emerge spesso la figura del Professore giudicante, costernato da pregiudizi infondati nei

    confronti di alcuni ragazzi, o da atteggiamenti che talvolta gli stessi ragazzi non

    comprendono. Anche nella mia esperienza professionale, più di una volta mi sono

    trovata in contrasto con alcune colleghe al momento della valutazione degli alunni.

    Personalmente, nel valutare, tengo presenti i processi di un alunno anziché il risultato

    delle singole prestazioni. Punto molto sulla motivazione verso l’apprendimento sia

    estrinseca, sia intrinseca. Miro a far emergere le potenzialità di ciascun alunno,

    indipendentemente dal suo background e, a rendere l’apprendimento un’occasione e

    un’esperienza interessante per la crescita di un individuo.

    • Keywords: ideologia delle doti

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    3 Le ricerche classiche

    Al fine di fornire al lettore un quadro più esaustivo delle possibili distorsioni presenti nella

    prassi valutativa proporremo in questo paragrafo, in sintesi, le risultanze di alcune delle ricerche

    storiche che hanno contribuito a far crescere il dibattito sulla valutazione scolastica. Nel 1922, in

    Francia, HENRI PIÉRON – considerato il padre della docimologia – con la collaborazione della

    consorte e di Henri Laugier promosse un’indagine (da lui definita la prima ricerca di docimologia)

    sulle valutazioni espresse durante un esame di licenza elementare: emerse che tra i voti ottenuti

    dagli allievi nelle prove d’esame di tipo tradizionale e quelli ottenuti nelle prove oggettive di

    profitto da loro create e somministrate la correlazione era quasi nulla.

    Nel 1930 HENRI LAUGIER e DAGMAR WEINBERG misero a confronto i voti attribuiti a

    37 elaborati di fisiologia corretti dalla stessa persona, ma a distanza di tempo (tre anni): emerse che

    durante la seconda correzione la stessa persona aveva attribuito agli stessi elaborati voti diversi

    rispetto a quelli della prima correzione. Oltre al disaccordo di un correttore con se stesso, si

    dimostrò il disaccordo tra due correttori diversi: le correzioni di 166 elaborati di storia e di

    geografia effettuate da due commissioni distinte portarono a divergenze flagranti nei risultati. I due

    studiosi misero in evidenza, inoltre, che gli esiti della correzione non erano legati al diverso grado

    di competenza dei correttori: ad una studentessa infatti furono affidate le correzioni dei 37 compiti

    sopra menzionati e ne risultò una correlazione analoga; dunque la competenza non è una

    discriminante sufficiente a garantire attendibilità alle valutazioni laddove non vi siano criteri

    stabiliti a priori. Nel 1931 venne condotta una ricerca dall’Università della Columbia finanziata

    dalla Carnegie Corporation: si formarono diverse commissioni nazionali (tedesca, americana,

    scozzese ecc.), delle quali quella francese era diretta da Piéron. Si costituirono 6 gruppi di lavoro

    ognuno composto da 5 esaminatori; ogni gruppo aveva il compito di correggere campioni formati

    da 100 elaborati scritti (composizione francese, inglese, versione latina, prova di matematica, fisica

    e dissertazione filosofica); ogni esaminatore doveva assegnare un voto su una scala in ventesimi. Lo

    scarto medio tra i correttori risultò molto elevato e questo significa che tra gli esaminatori

    mancavano criteri condivisi di correzione. Gli insegnanti coinvolti, inoltre, attribuirono allo stesso

    punteggio significati diversi; in altre parole il “14” di un correttore corrispondeva al “17” di un

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    altro. Gli esaminatori, infine, utilizzarono, all’interno della medesima scala di punteggi, solo una

    parte di essi (alcuni si limitarono, ad esempio, ad attribuire solo i punteggi che vanno dal “6” al

    “18”, altri quelli dal “4” al “20” ecc.). In altre parole le gamme dei voti utilizzate erano diverse e di

    conseguenza le prove risultarono apprezzate – a seconda del correttore – in maniera diseguale. È

    evidente che la ricerca di Piéron fece discutere parecchio; dimostrò, innanzitutto, la grande diversità

    di criteri di giudizio,utilizzati dai commissari nonostante la conclamata preparazione, dei docenti

    coinvolti.

    GASTON MIALARET nel 1958 condusse una ricerca con 17 insegnanti a ciascuno dei

    quali consegnò 17 compiti da correggere:

    Le valutazioni furono molto discordanti: gli insegnanti oltre ad utilizzare gamme di voti

    diverse (uno solo voti da 2 a 20; un altro solo da 4 a 16 ecc.) attribuirono voti molto distanti tra loro:

    si verificò, ad esempio, che il compito “x” da un insegnante fu considerato quasi sufficiente, mentre

    da un altro molto buono e via seguitando.

    MARIO GATTULLO nel 1970 coordinò una ricerca dalla quale emerse che dei 10 temi

    presi in analisi nessuno ottenne la sufficienza dai 77 docenti coinvolti, sebbene alcuni da almeno un

    docente avessero ottenuto il punteggio massimo.

    JEAN JACQUES BONNIOL nel 1972 pubblicò una ricerca riferita all’analisi di 26 compiti di

    inglese corretti da 18 insegnanti: emerse che relativamente ad uno stesso compito lo iato tra i voti attribuiti

    da un docente e quelli attribuiti da un altro era molto pronunciato.

    LUIGI CALONGHI pubblicò una ricerca nel 1983 su temi svolti da bambini di quinta elementare e

    corretti da 6 insegnanti; ebbene da essa emerse che gli insegnanti coinvolti non solo attribuirono allo stesso

    tema voti diversi, ma che persino la tipologia delle rilevazioni era diseguale: errori segnalati da alcuni

    insegnanti non lo furono da altri. Al riguardo Calonghi – estendendo il discorso a diverse tipologie di

    elaborati scolastici – smascherò l’ovvietà della questione: riportò, infatti, che per ottenere “valutazioni

    concordi occorre, innanzitutto, compiere le stesse rilevazioni o, almeno, rilevazioni non troppo dissimili.

    Questa affermazione è tanto ovvia che non ha bisogno di alcuna dimostrazione: se un insegnante rileva, in un

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    problema, la presenza di una decina di errori di calcolo e un collega, nello stesso poblema, non ne trova

    proprio nessuno, è chiaro che i giudizi saranno poi nettamente discordi”3.

    Molte altre ricerche sono state realizzate anche se quelle che abbiamo scelto ci appaiono molto

    eloquenti e, tra l’altro, non abbisognano di ulteriori commenti. Un discorso analogo lo si potrebbe fare anche

    per le prove orali (principalmente le interrogazioni):

    come ha riportato a suo tempo Ghilbert De Landsheere, se prendiamo in analisi le interrogazioni

    orali si accentuano le discordanze; gli studiosi sono tutti d’accordo “nel dichiarare che vi sono ancora più

    discordanze per le interrogazioni orali che per le prove scritte. Rare sono tuttavia le esperienze rigorosamente

    controllate in materia”4.

    3 Valutare. Risultati docimologici e indicazioni per la scheda, De Agostini, Novara 1983, pag. 109.

    4 Elementi di docimologia. Valutazione continua ed esami, trad. it. di A. Corda, La Nuova Italia, Firenze 19762, pag.

    26.