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Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano V - numero 31 Guimarães Rosa, la terra assoluta

Guimarães Rosa, la terra assoluta - Comunità Italiana · Affonso Romano de Sant’Anna; Marina Colasanti; Giovanni Meo Zilio; Maria Elena Kühner; Alberto Asor Rosa; Franco

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Guimarães Rosa, la terra assoluta

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�Gennaio / 2005

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Varietà

Giugno / 2006

Istituto Italiano di CulturaEditora Comunità

Rio de Janeiro - Brasil

[email protected]

Direttore dell’IICFranco Vicenzotti

EditoreMarco Lucchesi

GraficoAlberto Carvalho

CopertinaFoto Editora Abril

COMITATO DI REDAZIONE

Maria Cappolecchia; Katia d’Errico; Maria Lizete dos Santos; Annita Gullo (UFRJ); Mauro Porru (UFBA); Doris Nàtia Cavallari (USP); Sonia Cristina Reis (UFRJ); Arcangelo Carrera; Fabrizio Fassio; Cristiana Cocco; Paola Micheli; Maria Pace Chiavari; Giuzy D’Alconzo; Hilario Antonio Amaral (UNESP); Andrea Lombardi; Flora De Paoli Faria (UFRJ); Constança Hertz; George Popescu; Wander Melo Miranda; Eugenia Maria Galeffi; Paolo Spedicato; Giuseppe Fusco; Simone Carrano (stagista); Mozilene Neri (stagista); Weverton Pereira (stagista)

COMITATO EDITORIALE

Affonso Romano de Sant’Anna; Marina Colasanti; Giovanni Meo Zilio; Maria Elena Kühner; Alberto Asor Rosa; Franco Vicenzotti; Sergio Micheli; Pietro Petraglia; Luciana Stegagno Picchio; Dacia Maraini; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Victor Mateus; Beatriz Resende; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Elsa Savino

GRuppO DI TRADuZIONI

NUPLITT - Núcleo de pesquisa em literatura e tradução da UFSC (Universidade Federal de Santa Catarina): Andréia Guerini, Cláudia Borges de Faveri, Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan, Walter Carlos Costa e Werner Heidermann.

RICERCA

Università Roma II “Tor Vergata”; Nello Avella; Rino Caputo; Federico Bertolazzi

ESEMpLARI ANTERIORI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione.

SI RINGRAZIANO

Istituto Italiano di Cultura, Universidade Federal do Rio de Janeiro, Universidade Federal Fluminense, Universidade de São Paulo, Universidade Federal da Bahia, Associação Cultural Ítalo-Brasileira, Associação Brasileira de Professores de Italiano, Imprensa Oficial do Estado do Rio de Janeiro.

STAMpATORE

Editora Comunità Ltda.

Quanto si deve leggere nell’ Epistolario

sentimentaleRuy Espinheira Filho

Traduzione di Renato Giunti

Non la cartaa righe blu;

non la scrittatracciata di blu.

La data, labusta: no.

No: la macchiadel timbro, la metafora.

Ma il mododella mano scriba,

svista, ilaghi degli occhi

e il vasto in cui l’imosfavilla, deflacrima

in uno spazio più vastoche il cielo dipinto di blu

Teatro e Creazione con Alessandra Vanucci

Come e da quando è cominciata la tua sco-perta del Brasile?Nel 1993 ho parteci-

pato al VII Festival Internazio-nale di Teatro dell’Oppresso al CBB. Avevo conosciuto Boal a Parigi qualche mese prima, essendo io stagista del suo gruppo francese. Ho rico-nosciuto subito in lui un mae-stro; lo è tuttora. Tornata in Italia, andai a trovare un altro maestro, il prof. Ezio Raimon-di mio relatore di tesi, e chiesi a lui, rincorrendolo in un cor-ridoio dell’Università di Bolo-gna, come potevo tornare in Brasile. Lui lanciò succinto: Ruggero Jacobbi... Così sep-

pi il nome di colui che, uomo di pensiero e azioni, uomo di palcoscenici e biblioteche, mi ha fatto da guida in tutta la mia avventura brasiliana. Nel 2004 ho finalmente pubblica-to la raccolta delle sue recen-sioni in portoghese: Critica da razão teatral. O teatro no Bra-sil visto por Ruggero Jacobbi (São Paulo, Perspectiva) Il teatro come ricerca di veri-tà e di Weltanschauung sem-bra accompagnare da vicino i tuoi passi...Amo il teatro come strumen-to di comunicazione essen-zialmente povero, come frutto geniale dell’economia della fame. Nella tradizione

italiana, i comici sono i più miserabili di tutti gli artisti perchè non hanno bisogno che del proprio corpo e vo-ce per praticare la propra arte; per raggiungere un più vasto pubblico usano la lin-gua volgare, alla portata di tutti. L’energia improvvisata della lingua orale, contra-stando l’omologazione del codice scritto, confluisce in forme tanto più stilizzate ed eccentriche, pertanto teatrali (come il grommelot), quanto più radicate al proprio ter-ritorio e tempo. Per questo mi attrae tanto la dramma-turgia italiana popolare del 500 (Ruzante, Giordano Bru-

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no e lo stesso Dario Fo che continua quella tradizione): perché esprime una volontà di resistenza culturale nelle tendenze che osteggiarono, in quel secolo, la formazione di una unica lingua letteraria italiana ed indica una possi-bile inversione di tendenza anche per il nostro tempo, a partire dal riscatto di lin-gue e culture “minori”. Una drammaturgia sempre attua-le, seppur nella sua evidente inattualità, che mostra come il grande teatro, pur nei suoi episodi di più accesa comici-tà, non smetta mai di propor-si come insostituibile percor-so di conoscenza. La presenza della Ristori in Brasile, dal suo avvincente carteggio con Pedro II. Cosa hai trovato di più avvincente in quelle pagine, da te ripor-tate alla luce?

L’ottimo italiano dell’Impera-tore, elegantemente screziato di francesismi, ed il suo sin-cero interesse per le vicende politiche, letterarie e teatrali del paese – l’Italia – che con-siderava culla e regno dell’ar-te, di cui la Ristori era per lui incontestabile regina.

Mentre dalle lettere del-la Ristori emergono dettagli preziosi nell’avvicente ca-novaccio dell’economia del teatro italiano in tournée: propaganda, manifestazioni di fanatismo pre-organizza-te e gadgets concorrevano a fomentare la macchina del successo in una corsa all’oro che non escludeva colpi bassi tra colleghi. Trasferita oltreo-ceano, la concorrenza tra at-tori italiani si faceva assai più spietata che in patria, giacchè si moltiplicavano rischi e po-tenziali guadagni.

La sempre rischiosa memoria del teatro – un po’ dappertut-to e specie in Brasile... Come vincere il trionfo della morte su quello della storia? Domanda rischiatutto. Pos-so solo dare la ricetta che ha fatto lievitare la mia torta... Il mio percorso accademico in Brasile (master e dottorato, tutto grazie a borse di studio del Ministero Affari Esteri Ita-liano, alla Capes e al Cnpq) mi ha concesso il privilegio di otto anni di ricerca. Ho fruga-to in archivi privati e pubblici sulle due sponde dell’Oceano a caccia di indizi lasciati da-gli attori e registi viaggianti, dal 1860 al 1960. Dai bauli e dagli scaffali sono saltate fuori storie su storie. Grazie all’appoggio degli organi di fomento, della PUC e della Biblioteca Nacional, ho pub-blicato moltissimi articoli in

portoghese e italiano e tre li-bri in portoghese. E ne ho an-cora di storie nel cassetto! La presenza di Pirandello in Brasile così diffusa e costante nel secolo scorso e nei primi anni del �000. Come valuti questa ricezione pirandellia-na in particolar modo a Rio? Pirandello visitò il Brasile con la sua compagnia (il Teatro d’Arte) nel 1927, quando era capocomico (cioé regista) ol-trechè drammaturgo. Fu invi-tato al Teatro Trianon, a Rio, per il debutto in serata di gala di Pois é isso (Così è se vi pa-re): vide in scena Jaime Costa che, coi suoi baffoni e le oc-chiaie di collerico, si vantava di essere l’unico suo interprete in Brasile. All’uscita, Pirandel-lo se ne uscì con una delle sue battute caustiche. Disse che lo spettacolo gli era piaciuto tan-to. Ma come, chiese il giorna-lista, lei capisce il portoghese? Per l’appunto, non capisco nulla, replicò Pirandello. Per-ciò mi è piaciuto tanto.

Certamente l’umorismo pirandelliano ha avuto un suo ruolo nel dibattito moderni-sta ed ha informato la dram-maturgia brasiliana già dagli anni 30 e 40. Il teatro poi, si sa, arriva tardi in tutte le rivo-luzioni culturali e così sarà la renovação paulista, negli an-ni 50, a eleggere Pirandello come sua principale cavallo di battaglia, garante sia del buon livello culturale sia del-le file in biglietteria.

Ultimamente Pirandello è tornato, felicemente cre-do, ad occupare i cartelloni – quello che posso dire è che Questa sera si recita a sog-getto, diretta da João Falcão, nel ciclo che ho organizzato nel 2003 al Teatro Planetario (Brasil Mediterrâneo) ha avuto un successo strepitoso sia tra gli attori che tra il pubblico.

I tuoi rapporti con l’opera di Dario Fo... e quella pièce ma-gnificamente rappresentata a Rio con Júlio Adrião?Da anni gioco con i testi di Dario a caccia dell’attore o attrice che possa masticar-li digerirli e risputarli come meritano. Sono infatti im-provvisi d’attore, apparten-gono alla sfera della cultura orale e vanno quindi tradotti “in bocca”, ovvero in palco-scenico. Nel caso di Julio, con cui ho montato anche Ruzante nel 2003, è dal 2000 che lo corteggio con questo Johan Padan. Certo che questa storia dell’Ame-rica scoperta da un buffone, uno zanni, un arlecchino seduceva molto Julio che ha studiato commedia dell’ar-te in Italia. Julio è un attore viscerale e insieme tecnico. Recita teso come una cor-da di violino, ma allo stes-so tempo è generoso e vi-vo, pronto a cogliere ogni reazione del pubblico. Non studia a memoria, non fissa i movimenti, non recita: sta in scena e gioca a ping-pong col pubblico. S’è inventato un genere di narrazione che neanche Dario farebbe così: comincia a raccontare e ogni fatto che colpisce il pubblico di sorpresa, gli stimola la me-moria di episodi seguenti, di modo che l’urgenza del nar-ratore si preserva. Con Sergio Britto, leggenda assoluta del teatro contem-poraneo, pensate a Shake-speare per l’anno venturo... Sergio, che è cresciuto in palcoscenico con Jacobbi e che quindi ho l’onore ed il piacere di conoscere da anni (siamo anche vicini di casa, a Santa Teresa), l’anno pros-simo compirà 60 anni di pal-coscenico. Si sente vecchio abbastanza per fare Re Lear

– che è un re decrepito con molto potere e poca saggez-za – e ha immaginato uno spettacolo senza scenografie, molto fisico. Mi ha convoca-to. Gli ho detto, Sergio, per me lo spettacolo è un match di pugilato intorno ad un tro-no vuoto. Insomma ci sia-mo capiti. Sarà il mio primo Shakespeare... spero di non andare KO al primo round. I tuoi progetti dopo la Fiera del Libro di Torino?La Biblioteca Nacional mi ha invitato a presentare nel suo stand, a Torino, il libro Uma amizade revelada. Cor-respondencia entre o Impera-dor Dom Pedro II e Adelaide Ristori, a maior atriz de seu tempo (Biblioteca Nacional: 2005). Bello! Intanto sto pre-parando la pubblicazione in italiano, per le edizioni del-l’Università di Genova, del diario di un viaggiante italia-no (Giuseppe Banfi) che nel 1854 da Rio de Janeiro andò fino in Paranà a dorso di mu-lo. Ancora quest’anno deve uscire per la Imprensa Ofi-cial (São Paulo) Entre mun-dos. Biografia di Adolfo Celi. Nel 2007 vorrei pubblicare la mia tesi di Dottorato, sulla generazione dei registi italia-ni impegnati nella renovaçao (A quinta coluna), ma manca ancora il finanziamento.

Intanto scrivo testi per il teatro Cargo, a Genova, come Mercenari SPA che debutta al Teatro Stabile tra venti giorni; e faccio qualche regia. In Bra-sile il mio prossimo spettaco-lo sarà Porcile, di Pier Paolo Pasolini – un salto senza rete perchè Pasolini non è mai sta-to allestito a Rio e non è un nome che attragga gli spon-sor. Chissà che non si interes-si l’Istituto Italiano di Cultura, che in passato mi ha tante volte appoggiato !!

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Michel Deguy e la comunità pensativa

Marcelo Jacques de Moraes

Traduzione di Anna Palma

F ilsofo, professore di letteratura, traduttore e – soprattutto – poe-ta, Michel Deguy è

uno dei più espressivi scrit-tori francesi contemporanei. Indelebilmente marcata, in tutta la sua singolarità, dalla tradizione critico-riflessiva che attraversa la poesia fran-cese moderna, l’opera di De-guy transita, in un’esitazione sistematica, fra il verso e la prosa, fra la prosa e il saggio, fra il filosofico e il poetico, e esplora come poche altre i margini dei generi e delle lingue.

Precisiamo da subito: il debito con la tradizione – non appena francese, non appena moderna –, attestata dalla pratica più o meno manifesta della citazione, è condizione di questa “alchimia del ver-bo”, di questo “testamento rinnovato” in cui si costitui-sce, per Deguy, la “fabbrica-zione” della poesia: “[trarre] libri nel mio libro, re-sus-ci-tando, e distruendo senza tre-gua per salvarle dal disastro le pagine ammirevoli impos-sibilmente condensate nella poesia.” Ma è per la congiun-zione della sua dimensione auto-riflessiva con la tenden-za all’evocazione del quo-tidiano e all’interpellazione del presente che la poesia di Deguy si iscrive di fatto nella tradizione moderna francese.

Con tutta la varietà di dizioni che le sue poesie “re-sus-cita-no”, concepisce la poesia co-me un pensare transitivo (“lei pensa-a, per poter pensare”) a slittare incessantemente tra il pensare in se stessa, nelle sue condizioni proprie di pensie-ro (“la poesia è il pensiero della poesia come pensiero”) e il pensare a qualcosa (alla “cosa prossima/ Che è neces-sario cercare”, che “è qui – e non è questo”), in una varia-zione sottile che deve per-mettere al poeta “di fare tra-sparire per desvio, indiretta-mente, ciò che non si mostra da solo” e, allora, “affrontare la minaccia singolare del suo tempo, l’insensato della sua situazione”.

Nel rivelare, così, che “niente è evidente da solo”, che “tutto si mostra da un al-tro, con i suoi altri”, ciò che la poesia problematizza, al li-mite, per Deguy, è la propria questione dell’espressività poetica: c’è una relazione pa-radossale – anche se a un solo tempo necessaria e arbitraria – fra ciò che si dice e il modo come si dice, stabilendo una specie di prossimità distante, di strana familiarità fra espe-rienza e dire, facendo della poesia luogo del divenire del senso e del suo cortocircuito: luogo di passaggio e di im-pedimento. Se il dire non si può esimere dal perseguire

allo stesso tempo come unico e come uno qualsiasi (“Siamo tutti (come) quelli che non siamo”).

La “figurazione poetica” risponde, perciò, al deside-rio di ampliare l’esperienza di quello che si vive senza vi-vere, una volta che non cede interamente alla parola (“Nel-l’io che parla, c’è qualcosa di totalmemente eterogeneo all’io incarnato che vive”). Ed è a partire dal suo transbordo come forma nel mondo – o, più specificamente, nel no-stro caso, come poesia, nella lingua – che si tesse l’infinita spessura dell’esperienza. Di-cendo in un’altro modo: per intermezzo della forma-poe-sia, trasbordare verso l’inter-no dell’accaduto che deflagra tale esperienza. Per fare um esempio nella poesia di De-guy, citiamo l’inizio di uno degli ultimi testi di À ce qui n’en finit pas thrène [A quel-lo che non termina], testo nel quale il poeta giustamente, alludendo al titolo della col-lettanea, figura quello che è il lavoro della poesia di dilata-zione infinita da questo istan-te emblematico di passaggio – di alterazione assoluta – che la morte rappresenta: “À ce qui n’en finit pas thrène [A quello che non termina] sa-rebbe, perciò, il mio titolo, riunendo le pagine scritte da questa fine (...). È questo mo-mento che immagino, la sua dilatazione, il suo non-termi-nare, e la poesia che rallenta l’interesse pungente per tutta questa esistenza (la nostra) che non termina di essere esposta alla rivelazione del mondo.”

“Quello per cui ci sia-mo preparati scappa”: con “l’orecchio aperto come un occhio”, cerchiamo la figura dell’infinito, ma ciò che tro-

viamo è una forma finita – e, per questo, sempre provviso-ra – di passaggio: il presente volendosi più spesso, “più lui stesso”, ma sempre in diffe-rendo – in difficoltà – con l’infinito senza parola del-l’esperienza, che si mantiene in attesa: “Egli a che niente può succedere, e quando le ore si succedono, non è suc-cesso niente. Egli non osserva niente che succeda; a volte la luce cambia con le nuvole. Il tempo, così, può succeder-si. L’aspettativa non aspetta niente, e così aspetta. È il pre-sente.”

La forma è sempre un tra-vestimento passeggero del-l’infinito, c’è sempre un’altra forma a scrutargli i contorni: “L’oggettività eccede l’obietti-vo”. Motivo per il quale l’arte moderna spiccherà sempre di più per la non rifinitura ap-parente, per mezzo della tra-sgressione delle norme tecni-

l’esperienza, esso giammai si confonde pienamente con essa, e per questo non cessa di riprendersi: “...è precisa-mente perché non c’è nessu-na parola per dire questa cosa incontestabile nell’esperienza (...) che abbiamo bisogno di frasi, lingua, aprossimazione, prosopopea (figure) ecc., fino a che si configura quello che si sottrae.”

Da qui l’uso ricorrente del “come” – una cosa si può so-lo definire così: essa è “un[o]-poco come” un’altra cosa –, in una logica della “compa-razione” che rimette all’in-finita vocazione di tutto ciò che c’è per intensificarsi per mezzo della sua presenta-zione estetica: “infinitizzare, scrive Deguy con Baudelai-re, è raddoppiare di intensi-tà; diventare più lo stesso; per mezzo della corrisponden-za, una relazione ricontratta, riattaccata, con il suo altro, o comparazione.” Il lavoro poe-tico consiste, per questo, nel “ridire alterandolo lo stesso/ Che si disconosce per essere troppo riconosciuto”, e nel “donarlo”, per intermezzo della lingua, al “com(e)-un[e] dei mortali”. Questo passa al-lora a disporre di una lingua rinnovata che gli permette, a sua volta, di “alterarsi” e, co-sì, approssimarsi di più a se stesso, affermandosi, giusta-mente, “com(e)-un[e]”, cioè

co-stilistiche, dei generi imbri-cati, della variazione di mate-riali ecc, mirando con questo non al rifiuto della possibilità di apprendere l’esperien-za del presente, ma la sua (ri)conoscena come finito-in-finito. E esigendo a tal fine che si convochino tutti quegli altri artisti pensatori che tolgono il poeta dalla sua solitudine (“la poesia non è da sola”), e che, nel dire il “com(e)-un[e] dei mortali”, costituiscono, giu-stamente, una com(e)-unità pensativa, oltre le individua-lità, sempre sintomaticamen-te ascritte alle circostanze. Com(e)-unità pensativa che, con Deguy, sarebbe possibi-le definire così: “Non c’erano colloqui segreti né furore in tasca progettando la bomba, ma ariste vane; non c’era dog-ma né pube tragico di gruppo sinistro incendiando la realtà con terrori, ma aprossimazio-ni di vene.”

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Quelle rapide e poi quasi a caso recuperate immagini d’una annotazione che fu attenta negli anni.

Meraviglie d’ItaliaCarlo Emilio Gadda

ImpressioniLe impressioni anno-

tate da João Guimarães Rosa nei quattro diari in

occasione dei suoi due viag-gi in Italia1, testimoniano il tentativo di approccio ad un luogo che rappresenta e ha rappresentato nel corso degli ultimi secoli, per il viaggia-tore del continente america-no, il corrispettivo esotico di quell’idea di viaggio intesa come stimolo conoscitivo e valorizzazione della scoperta dell’altrove.

L’esotismo riscontrato in questi scritti rosiani – come, del resto, anche in altri dia-ri di viaggiatori “americani”

–, è una sorta di risposta spe-culare alle descrizioni delle meraviglie del Nuovo Mon-do realizzate dai viaggiato-ri europei. Un esotismo che scaturisce fondamentalmente dalla visione delle rovine di un passato remoto memora-bile, ma anche dalla contem-plazione di un paesaggio “na-turale” che nella sua diversità provoca lo stesso stupore che provava l’europeo dinanzi al-l’alterità dell’universo ameri-cano: “Il viaggiatore [...] arri-va in un mondo nuovo carico di bagagli concettuali, pre-suntuosamente certo del suo patrimonio culturale e della sua tradizione storica, e su-

bito avverte quanto tutto ciò si riveli inadeguato ed insuffi-ciente una volta che sia mes-so a confronto con una natura e un mondo diversi” 2.

Il viaggio aristocratico e borghese nel Settecento e nell’Ottocento è fortemente connotato di motivazioni cul-turali. “Metafora della curio-sità, della sete di sapere, dello sforzo [...] di essere migliori, della capacità di intessere relazioni e di scoprire nuovi mondi e nuovi popoli”3, es-so è certamente esperienza del nuovo, ma è insieme ve-rifica di un luogo di cui già si possiede una conoscenza mentale, come un ritorno a

João Guimarães Rosa e l’Italia:

Impressioni di viaggio (1949-1950)

Gian Luigi De Rosa

un passato che si è già vissu-to nei libri, nella pittura, etc. Per questo, soprattutto dal Ro-manticismo in poi, il resocon-to di viaggio si permea di ci-tazioni di opere di viaggiatori del passato, “in termini di ... confronto con i modelli che promossero il viaggio o che ne predisposero i suggestivi richiami”4.

Il Diario di viaggio come momento di scrittura “no ficcional”Un diario, o un libro, di viag-gio può essere considerato un’opera a due livelli, poiché presenta “una superficie rea-listica pur essendo nel con-tempo una parabola”5. Una narrazione che fonde due modi, in apparenza diversi, di percezione dell’altrove: “cronaca descrittiva e la favo-

la del viaggio, la registrazio-ne obiettiva di un percorso, o della fisionomia di un luogo, e la narrazione di una para-bola esemplare”6, anche se il turismo moderno ha allonta-nato sempre più queste due percezioni, e sulla divarica-zione tra “favola del viaggio” e “cronaca descrittiva” del-l’attualità

s’innestano ulteriori forme letterarie, e in particolare la gloriosa tradizione del «saggio». Il saggio a sua volta può assumere un andamento topografico, secondo una consolidata tradizione romantica, che da Hazlitt giunge a Pater, a Lear, a Waugh, a Dou-glas e a Sitwell, oppure acquisire pregnanza etica o veemenza di denuncia in un percorso tutto ita-liano che va da Gadda a Ceronetti 7.

Le considerazioni di Bril-li sembrano suffragare l’in-teressante proposta avanza-ta da Aldo Albònico, per un diverso approccio al saggio latino-americano8. Lo studio-so italiano individua nella espressione “prosa ficcional” – da lui espressamente conia-ta – il termine adatto ad una classificazione generale di tutta quella scrittura che vi-ve ai margini della letteratu-ra di invenzione o che ruota attorno a questo universo, in-crociandolo spesso per varie ragioni e fini, senza tuttavia farne parte specificamente: il saggio letterario, la storiogra-fia, la letteratura politica, la letteratura di viaggio, la scrit-tura intima, il giornalismo.

Nel suo innovativo saggio, introdotto da una ricognizio-ne esaustiva degli studi esi-stenti sull’argomento, Albò-nico conduce un’analisi tipo-

logica di taglio ideologico-fi-losofico-politico, un’analisi stilistico-estetica, e presenta un progetto di classificazio-ne della “prosa no ficcional”, definendo anche i diversi sot-togeneri del saggio, da quello artistico agli scritti di critica letteraria, dal giornalismo alla letteratura di viaggio, dal dia-rio alla letteratura politica.

Partendo da questo pre-supposto, il diario di viaggio rientra a pieno titolo in questa definizione: e dunque lo do-vrebbero anche i taccuini ro-siani, sia perché pertengono alla letteratura odeporica, sia perché sono scrittura intima. Ma la genialità creativa dello scrittore mineiro sembra ricu-sarsi all’inserimento in una categoria che gli va stretta: nei diari s’incontrano infat-ti momenti di alta letteratura non riconducibili al mero re-soconto di viaggio e il reper-torio di forte immaginazione li avvicina piuttosto all’inven-tiva del racconto o del roman-zo rosiano.

Ma, un po’ alla volta, le date, le annotazioni e la re-gistrazione degli orari che danno inizio e intervallano il viaggio, ci riportano alla realtà del testo, facendoci ri-flettere sulla difficoltà di po-ter inquadrare queste pagine meravigliose e riconsiderare ancora una volta le parole di Albònico, secondo cui bi-sogna “operare affinché tante «scritture» attualmente consi-derate di confine – i resoconti di viaggio, le opere politiche, i diari, ecc.: tutti i tipi di sag-gistica, insomma – vengano ricondotte pienamente alla letteratura”9.

Per quel che riguarda i libri di viaggio, questa era un’idea, in fondo già sapien-temente espressa in uno scrit-to pubblicato su Critical Re-view nel 1770:

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Un libro di viaggi, i cui materiali rivestano un’im-portanza generale e siano convenientemente tratta-ti, costituiscono uno dei prodotti letterari più at-traenti e istruttivi. In esso si registra una felice com-mistione di utile e di dul-ce; esso diverte e cattura la fantasia senza ricorrere alla finzione romanzesca; ci fornisce un’ampia mes-se di informazioni pra-tiche e morali senza la noiosità della trattazione sistematica 10.

Città e itinerari italianiLeggendo i quattro diari ita-liani di Guimarães Rosa, ci si rende conto che il percorso dei due viaggi è quasi identi-co: e tuttavia, le immagini e le descrizioni dei luoghi visitati, a distanza di un anno, si arric-chiscono di nuove esperienze e di nuove percezioni, sicché al confronto i testi presentano notevoli differenze.Si veda, ad esempio, la de-scrizione di Napoli nell’otto-bre del 1949, e a fine settem-bre del 1950:

Estamos em “Santa Lucia”. Em frente do restaurante Zi’ Teresa. O mar, diante. Tráfego de automóveis, na rua. Uma bahia, ou en-seada, ao norte, com suas luzes. Estrelas no céu. A lua, vermelha de brasa, enorme, está baixa, qua-se afundada no mar, na ponta de Terra [Posillipo?]. Parece uma mulher numa rêde 11.

Um navio entra, do Norte, suspenso de sua fumaça grande, curva, escura. Ele é branco (ou, pelo menos, claro). Sumiu-se, agora,

atrás do Burgo do Ovo. Sua fumaça, sozinha, perdura, se fazendo em cordilheira. [...] Lua no céu, lua no dia. Sobre as nuvens imensas que limi-tam o mar. Lua que é uma simples branca méia-ho-stia, recortada da mesma matéria das nuvens. Os cachos de uva azul, pesa-dos nas parreiras.Posilippo!Que côres de nuvens, que azuis! . [...]. Que delica-dos rôxos! O mar pare-ce um leite. E o rosa… (de outra parte do céu) é projetado nessa lisura trê-mula, leitosa 12.

La stessa città, ma lo sguar-do che nella prima rappresen-tazione indugiava sulla realtà concreta “Una baia, un’inse-natura, a nord, con le sue lu-ci”, nella seconda immagine percorre le profondità della percezione visibile, si lascia avvolgere e coinvolgere dalle atmosfere mediterranee, che vengono rese nei toni di un mirabile lirismo: “Che colori di nuvole, che azzurri! [...] Che delicati violetta! Il mare sembra latte”.

È quanto si ripete, più o meno, in tutti e quattro i diari: il primo viaggio è di “scoper-ta”, nel secondo lo scrittore va oltre la superficie del vi-sibile, scandaglia quel che ha precedentemente conosciuto, ne esplora i misteri, ricavan-done emozioni e sorprese ben più forti e profonde.

Così, ad esempio, la città partenopea gli si trasfigura in una “mulher numa rêde”, icona lontana dal nostro im-maginario. Napoli è stata de-finita in mille modi nei seco-li, ma nessuno ha mai imma-ginato di paragonarla ad una

donna distesa su un’amaca. In questa definizione, come in tante altre presenti nei diari rosiani, l’utilizzo di un vocabolario e di un reper-torio figurativo poco usuale nel contesto culturale euro-peo sottolinea la “percezione dell’altrove” da parte dello straniero d’oltre oceano co-me un universo “meraviglio-so” ed esotico.

Anche nel Viaggio in Ita-lia di Roberto Rossellini si riscontra una connotazione analoga. Il film si apre con i coniugi Joyce, Katherine e Alexander, che in macchina stanno raggiungendo Napo-li. Il loro viaggio è al tempo stesso “reale e simbolico, dispersivo e drammaturgi-camente conciso, quasi un vagabondaggio ma anche e soprattutto un’introspezione esistenziale”13. Ed è soprat-tutto nel vagabondare della turista – tra i monumenti e le rovine di Napoli e Pozzuoli, attraverso il paesaggio vulca-nico della Solfatara –, e nel-lo smarrimento provocatole dalla visione dei teschi nel cimitero delle Fontanelle e dalla processione religiosa delle ultime scene, che si attua la duplice funzione di scoperta di un paesaggio e di viaggio introspettivo. Lo sguardo attonito e l’espres-sione stupita della donna dinanzi al paesaggio geo-grafico e umano che la cir-conda, sono i segni tangibili di un catapultamento in una dimensione “altra”. Anche se i coniugi Joyce sono inglesi, il personaggio interpretato da Ingrid Bergman, svedese, naturalizzata hollywoodia-na, rientra pienamente nei parametri fissati all’inizio di questo nostro “viaggio” di ricerca dell’esotico in Ita-lia, attraverso il punto di vi-

sta dell’altro “americano”. Rossellini, con questo film, continua il viaggio di sco-perta del paesaggio italiano iniziato, in un certo senso, con Paisà (1947): attraverso la sua opera cinematografica egli ci invita a guardare con maggiore attenzione alcuni di quegli elementi che costi-tuiscono la base per una di-scussione su ciò che poteva essere considerato, soprattut-to negli anni Cinquanta, fon-te di esotismo.

I due viaggi di Guimarães Rosa presentano, come si è già accennato, un itinerario quasi identico. Milano come punto di partenza, Napoli e le sue zone limitrofe come pun-to più a sud, passando per la campagna toscana e umbra. Milano, Venezia, Firenze, Ro-ma, Napoli, Pompei, Amalfi, Positano, Capri, Sorrento, As-sisi, Perugia, Pisa costituisco-no le varie tappe del tour. En-trambi i viaggi finiscono con il ritorno a Parigi.

Il paesaggio italiano sul quale si esercita questa sin-golare ricerca di sé è in ef-fetti un contesto composito che, nella successione di scenari che hanno da sem-pre incantato i protagonisti del viaggio in Italia, alterna il romanticismo selvaggio delle Alpi, alla luminosità abbaci-nante della laguna veneta, alla forza tellurica della terra napoletana14.

Basta confrontare la ter-minologia utilizzata da Bril-li nella connotazione dei tre paesaggi italiani – “romanti-cismo selvaggio”, “lumino-sità abbacinante” e “forza tellurica” – e quella usata da Guimarães Rosa nei suoi diari, per comprendere pie-namente il punto di vista dell’”altro” sulla stessa real-tà. Nelle descrizioni dello

scrittore brasiliano affiora prepotentemente la metafo-ra “tropicale”: il Duomo di Milano è “uma igreja que quis ser floresta”15, oppure “espectral e maravilhoso, à luz de uma lua entre nuvens estranhas”16. Il Duomo come una chiesa-foresta che si sta-glia spettrale e meravigliosa alla luce di nuvole strane. Il paesaggio dell’antico con-tinente europeo, nell’ottica del viaggiatore brasiliano, si trasforma in un mondo eso-tico, che prende vita dal pro-cesso stesso di una scrittura nella quale anche il partico-

lare più insignificante ad uno sguardo dell’abitudine divie-ne elemento di stupore ad uno sguardo “innocente”.

Venezia, “o mármore que as marés respeitam”17, è la seconda città che incon-triamo sfogliando le pagine dei diari italiani. Identifica-ta con “as gôndolas, no lu-sco-fusco, como bichos do mar”18 e con i gondolie-ri con “chapéu palha (fita azul). Blusa branca. Calça preta”, o vestiti “de branco, com cinto azul e franja dou-rada”19, è però anche notte azzurra di cieli limpidi, luci

Originale da Sagarana. Dalle correzioni e alterazioni fatte dallo scrittore si può percepire il suo impegno per arrivare ad um linguaggio preciso,

caratteristico della sua opera

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Ao crepúsculo, já meio escurecendo (7 hs e pico) fui a Oltrarno, passando a Ponte Trinità. A montante, o céu todo de um azul de mar (marinho) espêsso, profundo. A juzante, isto é, para o poente, rôxo em baixo, subindo do escu-ro, e em cima uma barra rosa, rectilínea. O Arno, com reflexos de luzes, está azul, azul, azul cla-ro. O resto do céu azul está, guardando luz 26.

Un affresco che da solo ba-sterebbe a consolidare l’idea di una scrittura certamente diaristica, ma che va spesso molto oltre il tono memoria-listico, raggiungendo livelli di alta letterarietà. Se frequenti sono le rappresentazioni di paesaggi urbani, non man-cano quelle di paesaggi rura-li: la campagna senese con i suoi vigneti, gli oliveti, i buoi, i contadini; e i colori delle valli toscane gli suscitano ri-cordi della sua patria, soprat-tutto della sua terra mineira:

As oliveiras azuladas, cinza as oliveiras, belas (de mais longe = irreais, musgosas, pairantes [...]. O céu italiano. O céu sensível (de esmalte), que prestigia cada canto de paisagem. O carro de bois com aquele véu de frondericalhas vermelhas (guirlandas, são feito flo-res caídas). [...] um cipre-ste – um punhal negro. O dos bois é de ornamento. Estamos na Toscana. Ólio e vino. [...]. Bois no carro, com o ornamento [...]. As vinhas sôbre pequenas ár-vores, que são pequenas macieiras e perliras. Bois no carro. Sempre com

adôrno! [...] São grandes, belos bois brancos.Jovens plátanos, às vezes riem com seu verde mui-to claro, onde o outono amareleja. Colinas, mon-tes com punhada de ca-sas entre os ciprestes. Os oscuros ciprestes que a terra toscana empunha 27.

Roma provoca in lui una reazione inattesa: le visite ai musei, ai resti dell’impero ro-mano, al centro storico non sembrano risvegliare nello scrittore un grande interesse e le stupende pagine che aveva-no preceduto l’arrivo alla Città Eterna si trasformano in metico-lose annotazioni. Sono pochi i momenti in cui si riscontra la forza emotiva delle descrizioni precedenti, e quando ciò acca-de, ci si rende conto di trovarsi dinanzi a paesaggi bucolici di forte richiamo arcadico: “Ter-mas de Caracalla / Sentar num troço de mármore, na relva rú-stica (e matinho rampicante), e assistir às ovelhas pastando, como um clássico”28.

Alle immagini urbane e rurali si sovrappone un lun-go dialogo con il mare, con il quale Guimarães Rosa, il cantore del sertão-mar, in-staura un rapporto di amoro-so sentire, tradotto nell’inten-sità poetica delle descrizioni: “Da janela do quarto do hotel a paisagem composta com óleos de névoa – era um qua-dro. A cresta do Forte Ovo fe-chava-lhe o arabêsco” 29.Un anno dopo, ancora il ma-re di Napoli:

O mar leve mover de ru-gas, vem de todos os lados para nosso promontório. Escureceu mais. Pisca um farol (de Capri) = que é mal entrevista. As saliên-

cias da amurada. A vista soberba. Contorno-a. Ní-sida - a ilha: suas luzes. O istmzinho, semi-ilumi-nado e lambido, também, aqui e ali, de lua (em estrias transversais) 30.

Gli fa eco Amalfi, con la sua gente che ha facce “trian-gulares, como o nome Amal-fi”, con il suo caldo albeggia-re: “sol fortíssimo (sua esteira enorme), no lugar onde on-tem esteve a lua [...]. Marulho de mar agora [...]. Mar azul como se pintado. Geléia de violetas, lisa. Ondejar suave, liso”31. Poco dopo è la volta di Capri: sull’isola azzurra – raffigurata in toni elegiaci – lo scrittore ingaggia un duello con le zanzare, dal sapore squisitamente kafkiano:

Assaltaram-me as pernas, têm uma táctica ancestral: picam, deixam um ardor; o ardor esquenta a pele, a gente inconscientemente se descobre (as pernas) pa-ra refrescá-las: e é outra in-vestida!… Agora, enquan-to tomamos café, Ara me mostra alguns dos brutos: em cima, no teto branco, ou nos altos das paredes, lá se destacam eles, gor-dos, engordados . [...] em repouso digestivo 32.

Da Capri comincia il viaggio di ritorno a Parigi. Guimarães Rosa rifà il per-corso all’inverso: Roma, poi l’Umbria, la Toscana. Ancora Firenze, dove le campane, con i loro rintocchi, diffon-dono nell’aria intrecci di co-lori e “sôbre as luzes dos fios da praça, o céu parece de outro verde, e parece um te-to plano, que cada vez mais plano, e baixo”33.

lontane del lido, suoni d’or-chestra: “Noite azul. Lua de gôndolas entre as estacas brancas, e a água dando nos degraus da escada, com obsceno rumor. Rumores de amor. As luzes do Lido. Dois cafés, com as orque-stras emulando”20; è volo di colombi, marmo di antichi palazzi: “Sentado num ban-co de mármore, à entrada do Palácio dos Doges . [...]. O despencar de pombos. Uma revoada populosa (massiça e direta dos pombos)”21. La Venezia di Guimarães Rosa è fatta di mille particolari, è fatta di acqua, di canali, di ponti, di tetti, di campanili, tanti frammenti tenuti insie-me dal mare, nei quali tut-tavia è quasi sempre assente l’elemento umano.

Una mancanza, del resto, riscontrabile in tutti e quattro i taccuini di viaggio: alle in-numerevoli immagini paesag-gistiche corrisponde infatti un ridottissimo numero di ritratti umani.

Ben diversamente procede un altro scrittore sudamerica-no, Gabriel Gárcia Márquez. Nel settembre del 1955 egli si trova in Europa in qualità di corrispondente del giorna-le colombiano El Espectador. Passerà alcuni mesi in Italia scrivendo articoli sui più sva-riati argomenti, dal Papa al XVI Festival del Cinema di Ve-nezia. In uno dei pezzi gior-nalistici dedicati al Lido di Venezia, troviamo un magni-fico affresco della società ita-liana dell’epoca. Se per Gui-marães Rosa l’aspetto esotico è insito specialmente nel pae-saggio storico, Márquez lo in-dividua soprattutto nella com-ponente umana, e la fonte per riconoscere e ripercorrere il suo itinerario è la filmografia neorealista italiana:

Per capire il neorealismo italiano, per rendersi con-to che Cesare Zavattini è uno dei grandi uomini di questo secolo, biso-gna vedere un pranzo dei poveri a Venezia, una do-menica al Lido. Sotto gli alberi enormi distendono una tovaglia rammenda-ta e poi un involto con un chilo di maccheroni freddi, un pezzo di pane e un litro di vino. Intorno alla tovaglia c’è la tipica famiglia italiana: il padre, grasso e peloso, e la ma-dre, grassa e dittatoriale, con nove figli e un cane. In Italia, come negli Stati Uniti, impera il matriar-cato. Il padre non pic-chia i bambini: si limita a proferire una parolaccia, mentre si ingozza di vino e maccheroni. La madre invece, che è l’ultima a mangiare, insieme al ca-ne, distribuisce ai bam-bini sberle come quelle che si possono vedere soltanto nei buoni film italiani 22.

In queste poche righe c’è tutto un universo uma-no comprensibile agli occhi dello scrittore colombiano perché “già visto” al cinema, ma che tuttavia continua ad essere oggetto “esotico” di meraviglia, perché lontano dalle esperienze del mondo al quale egli appartiene.

Il viaggio di Guimarães Rosa continua da Venezia a Firenze, prima in battello sul Po, poi in autobus. I colom-bi sono il legame tra le due città: a Venezia “Uma tem-pestade de pombos. São os céus que voam”23, a Firen-ze: “Os pombos (diante de Santa Maria Novella, mas

pensando em Veneza). O pombo. [...] Escuro ou mais claro, pintado, chocolate. Reflexos. [...] brilhantes, ver-des, rôxos. Patas vermelhas. Colo cintilante. Atitude pri-mitiva. Seu passeio equili-brado. O sol na praça”24.

Dai colombi lo sguardo si sposta finalmente sulle per-sone: una donna in chiesa che si protegge il volto dal sole, due ragazze vestite di abiti grigi che passeggiano per le strette strade del cen-tro, donne con giacche rosse. Volti che per Guimarães Ro-sa costituiscono comunque solo un particolare del pae-saggio, alla stregua dei pano-rami, dei fiori, degli alberi, delle vallate, del fiume; tan-ti fotogrammi di uno sguar-do che tutto abbraccia in un unico sentire e lo eternizza fissandolo nella scrittura.

Solo nella descrizione di un ragazzo (sempre a Fi-renze, nel secondo viaggio), vien fuori il profilo di un quasi personaggio: “Rapaz: grandes óculos brancos (bri-lhantes) redondos. E lábios úmidos, boca meio aberta; atenção um tanto sério-ingê-nua, seus dedos recurvos se-guram uma ponta de cigarro, . [...] quase toda consumida. Enorme pasta, sôbre a me-sa. Nariz comprido, perfeito triângulo escaleno”25.

Ma l’attenzione concessa-gli dura il tempo di un batter d’occhi e lesta ritorna al pae-saggio:

Bate o sino abafado (e melancólico) do campa-nile. A tarde morre em luz pianíssima. E conta-gia o mundo de vozes, de viajares consultando guias (livros), de grupos, ávidos de arte e de be-leza!

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Jacopone da Todi“O regina cortese, eo so a voi venuto

cal’ mio cor è feruto: deiatel medecare.Eo so a voi venuto com’omo desperato

da onne altro adiuto: lo vostro m’è lassato;se ne fosse privato, farìame consumare.

Lo mio cor è feruto, Madonna, nol so dire,ed a tal è venuto, che comenza a putire:non deiate soffrire de volerm’adiutare.

Donna, la sofferenza sì m’è pericolosa;Lo mal pres’ha potenza, la natura è dogliosa:siate cordogliosa de volerme sanare.

Non aio pagamento, tanto so annichilato;faite de me stromento, servo recomparato;donna, ‘l prezo c’è dato: quel c’avist’a lattare.Donna, per quell’amore che m’a avuto ‘l tuo figlio,dever’avere ‘n core de darme ‘l tuo consiglio;sucurre, aulente giglio, veni, e non tardare”.

“Figlio, puoi ch’èi venuto, molto si m’è ‘n piacire;addemannime adiuto, dollote voluntire;ètte oporto soffrire, ca per arte vòi fare.

Medecarò per arte: ‘mprima fa la diita:guarda i sensi da parte, che non dien più feritaa natura perita, che se possa esgravare.I“Gentilíssima rainha, para vós eis -me voltado:meu coração lacerado concedei remediar.

Para vós eis-me voltado, criatura desgraçada,de toda ajuda privado: a vossa me foi deixada;se me fosse recusada, fora assim me condenar.

Meu coração lacerado, Senhora, nem sei dizer,tal agora é seu estado, que começa a apodrecer:não tardeis a interceder desejando-me ajuda.

Senhora, tamanha dor é por demais perigosa:o mal cada vez maior, a natureza manhosa:que vos mostreis caridosa desejando-me curar.

Nada em troca vos darei, a tão pouco reduzido;um instrumento serei, vosso servo desvalido;senhora, o preço é cabido: tivestes de me aleitar.

Senhora, por todo o amor que me teve vosso filho,não havereis de vos opor a prestar-me vosso auxílio;socorrei, perfume, lírio, vinde, e sem vos demorar.”

“Filho, pois que me buscaste, meu júbilo podes ver;minha ajuda suplicaste, hei por bem de te atender;é preciso padecer, a cura vou ministrar.

Vou conceder tua cura: primeiro faze a dieta:os sentidos enclausura, à carne ferida e infectaalgum novo dano veta, a fim de não piorar.

Alle minuziose annota-zioni del viaggio del 1949, subentrano le splendide raf-figurazioni del 1950, in cui, come si è cercato di dire, l’ar-tista va oltre la superficie del-le cose, ne penetra l’arcano, e lo riversa in immagini di affa-scinante vigore.

Appartengono allora i dia-ri rosiani alla “prosa no fic-cional”, o la definizione crea-ta da Aldo Albònico è per le pagine memorialistiche dello scrittore brasiliano inadegua-ta? A me sembra che la lettu-ra nell’ottica suggerita dallo studioso italiano conferisca a questi diari la giusta dignità all’interno del panorama let-terario rosiano, suggerendo-ci nuove interpretazioni che non ignorino l’importanza di tali testi in quanto “material que possa valer, como for-necimento de cor local, pi-toresco e exatidão documen-tal”34, né trascurino gli studi che finora li hanno analizzati unicamente come laboratorio di scrittura “ficcional” del-l’autore mineiro.

(Footnotes)1 Le impressioni dei viaggi in Italia del 1949 e del 1950 furono raccolte da João Gui-marães Rosa in quattro dia-ri, finora inediti, conservati dal 1973, insieme all’archi-vio personale dello scrittore, nell’Istituto di Studi Brasi-liani (IEB) dell’Università di São Paulo (Arquivo GR, Série Manuscritos de JGR, Estudos para obra). Maria Neuma Barreto Cavalcante, che dal 1993 coordina il progetto Organização, Exploração e Divulgação do Arquivo de João Guimarães Rosa – diret-to precedentemente da Ce-cília de Lara –, sta preparando un’edizione critico-genetica del corpus diaristico rosiano (oltre ai quattro diari “italia-ni” – Cadernetas 2, 3, 4 e 5 –, ne esistono uno dedicato

al viaggio in Alsazia e Lorena, – Caderneta 1 –, e uno alle “veredas” di Minas Gerais e di Bahia, trascritto nel 1952, Caderneta 6), che dovrebbe costituire la base per un fututo studio sui rapporti tra i diari e il resto della produzione dello scrittore mineiro. 2 Giuseppe Cacciatore, “Ame-rica latina e pensiero europeo nella «filosofia del viaggio» di Ernesto Grassi” in Cultu-ra Latinoamericana, Annali 1999-2000, nn.1-2, Salerno, I.S.LA./Edizioni del Paguro, 2000, p. 370.3 Giuseppe Cacciatore, cit., p. 369.4 Attilio Brilli, Il viaggiatore immaginario, Bologna, Il Mu-lino, 1997, p. 23.5 A. Brilli, Il viaggiatore imma-ginario, cit., p. 83.6 Ibid.7 Ibid., p. 85.8 Cfr. Aldo Albònico, “A pro-posito di alcune testimonian-ze di viaggio ispanoamerica-no in Italia a cavallo tra i se-coli XVIII e XIX”, in AA.VV., Il Viaggio e le letterature Ispa-niche, Napoli, L’Orientale Editrice, 1996, pp. 161-169; A. Albònico, “Hacia un enfo-que de conjunto de la Prosa no ficcional hispanoameri-cana entre 1870 y 1914”, in AA.VV., La prosa no ficcio-nal en Hispanoamérica y en España entre 1870 y 1914, (a cura di Aldo Albònico e Antonio Scocozza), Caracas, Monte Avila Editores Latinoa-mericana-I.S.LA.-Casa de Bel-lo, 2000, pp. 157-193.9 A. Albònico, “A proposito di alcune testimonianze di viag-gio...”, cit., p. 161. 10 A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte, Bologna, Il Muli-no,1995, p. 33.11 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 3, 25/X/1949, pagina non numerata.12 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 5, 21/IX/1950, pp. 8-9.13 Gianni Rondolino, “Il ci-nema contemporaneo co-me metafora del viaggio” in AA.VV., L’Altrove Perduto, (a cura di G. Simonelli e P. Tag-

gi), Roma, Gremese Editore, 1987, p. 163.14 A. Brilli, Il viaggiatore im-maginario, op. cit., p. 21. 15 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 2, 7/X/1949, p.11.16 Ibid., 8/X/1949, p. 20.17 Ibid., 13/X/1949, p. 68.18 Ibid., 9/X/1949, p. 27. I bichos do mar richiamano alla memoria i mostri marini dei resoconti fantastici me-dievali, presenti anche nelle cronache di viaggio del Cin-quecento: cf. G. Lanciani, “Il meraviglioso come scarto tra sistemi culturali”, in L’Ame-rica tra reale e meraviglioso: scopritori, cronisti, viaggiatori. Atti del Convegno, a c. di G. Bellini, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 213-218. 19 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 4, 6/IX/1950, pp. 5-6. 20 J. Guimarães Rosa, Ca-derneta 2, 10/X/1949, pp. 48-49.21 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 4, 8/IX/1950, p. 18.22 Gabriel Gárcia Márquez, Dall’Europa e dall’America 1955-1960, Milano, Monda-dori, 2001, p. 60.23 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 2, 10/X/1949, p. 28.24 Ibid., 17/X/1949, pagina non numerata.25 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 4, 12/IX/1950, p. 50.26 Ibid., 12/IX/1950, pp. 51-52.27 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 2, 19/X/1949, pagina non numerata.28 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 3, 24/X/1949, pagina non numerata.29 Ibid., 27/X/1949, pagina non numerata.30 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 5, 21/IX/1950, p. 13.31 Ibid., 25/IX/1950, pp. 57-60.32 Ibid., 28/IX/1950, p.67-68.33 J. Guimarães Rosa, Cader-neta 5, 3/X/1950, p.79.34 J. Guimarães Rosa, “Carta ao pai de 6/XI/1945”, in Vil-ma Guimarães Rosa Relem-bramentos: João Guimarães Rosa, meu pai, Rio de Janeiro, Nova Frontiera, 1983, p. 160.

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VICuida se não cais, amigo, cuida!

Cuida daquele Inimigo Que semelha ser amigo;

não te fies do iníquo: cuida!Co’a vista e o que vê, cuidado, o coração machucado

a muito custo é curado: cuida!Não dês ouvido à vaidade, ao visgo dessa amizade

terás presa tua vontade: cuida!Freia o excesso de tua boca, é veneno, que na toca

da luxúria desemboca: cuida!Cuida de tudo que incite teu olfato a seu limite,

o Senhor não to permite: cuida!Cuida do tato e o que estreita, pois para Deus é desfeita

e ao corpo a dor sempre espreita: cuida!Cuida de cada parente, se se apossa da tua mente,

força é andares dolente: cuida!

Guàrdate da molti amice, che frequentan co formice;

‘n Deo te seccan le radice: guarda!Guàrdate dal mal pensire, che la mente fo firire,

La tua alma emmalsanire: guarda!

Cuida de quem se avizinhatal qual formiga daninha;a raiz em Deus definha: cuida!

Cuida do mau pensamento,Fará da mente um tormento,

d’alma doença e lamento: cuida!

Jacopone da Todi Flagelo e Amor/ Jacopone da Todi: Seleção, tradução e organização de Marcelo Paiva de Souza. - Brasília: Editora Universidade de Brasília, 2006. (p 44-51) - Coleção Poetas do Mundo

E piglia l’ossemello: lo temor de morire;ancora si fancello, cetto ce di venire;vanetà larga gire: non po’ teco regnare.

E piglia decozione: lo temor de lo ’nferno:Pensa ‘n quella prescione: non esco en sempiterno:la piaga girà rompenno, farallate arvontare.

Denante al preite mio questo venen arvonta,ché l’officio è sio de lo peccato sconta;ca, si ‘l Nemico s’apponta, non aia che mostrare”.

Bebe então desse oximel: o medo que tens da morte:menino ainda ou incréu, não se atrasa a tua sorte;que a vaidade não te importe, junto a ti não vá reinar.

E bebe dessa poção: o medo que tens do inferno;pensa naquela prisão: para todo o sempiterno:a chaga no corpo enfermo farás então supurar.

Diante do confessor o veneno todo expurga,é seu ofício e valor, de teus pecados te purga;caso o Inimigo ressurja, não tenha o que te apontar.”

Guarda che non caggi, amico, guarda!VIOr te guarda dal Nemico,

che se mostra esser amico;no gli credere a l’inico: guarda!

Guarda ’l viso dal veduto, ca ’l coraio n’è feruto,

c’a gran briga n’è guaruto: guarda!Non udir le vanetate, che te traga a su’ amistate:

più che vesco appicciaràte: guarda!Pon a lo tuo gusto un frino, ca ‘l soperchio gli è venino,

a lussuria è sentino: guarda!Guàrdate da l’odorato, lo qual ène sciordenato,

ca ’l Segnor lo t’há vedato: guarda!Guàrdate dal toccamento, lo qual a Deo è spiacemento,

al tuo corpo è strugimento: guarda!Guàrdate da li parente che non te piglien la mente,

ca te farò star dolente: guarda!

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Fauna CantagálicaHélio Jesuíno

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Vênus CantagálicaHélio Jesuíno

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CuRIoSITà — John Sandys, studente americano di vent’anni e grande apassionato di cinema, ha un hob-by: fare la pulci a tutti i film ai quali assiste. E ha sco-perto, segnalandoli su Internet, più di duemila errori in molti film di successo. In Titanic, per esempio, si ve-dono alcuni delfini del Pacifico che seguono la grande nave in partenza dalle coste inglesi; e in Apollo 13 si ascolta la canzone dei “Beatles” Let It Be, che all’epoca non era ancora stata composta.

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— Una zuppa di pesce? Subito signore!

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Il libro Dal pan di zucchero al Colosseo di Nello Avella non contribuirà a “rinsal-dare vincoli di amicizia tra

Italia e Brasile”, per dirla con una formula usata ed abusata in analoghe circostanze cele-brative di gemellaggi, poiché tali vincoli sono sempre stati assai forti ed intensi, anche a causa di una notevole compo-nente di origine italiana in quel caleidoscopio di razze che fa del Brasile un felice esempio di integrazione multietnica.

Possiamo, viceversa, affer-mare che l’antologia di scrittori brasiliani moderni e contempo-ranei che abbiamo l’onore di in-trodurre, concorre a dare mag-giore visibilità nel mondo della cultura, e non solo, al comune sentire di due popoli come quel-lo brasiliano ed il nostro, che grazie all’influenza del cattoli-cesimo e della tradizione giu-ridica romanistica in entrambi presente, condividono l’aspira-zione al progresso morale e civi-le dell’umanità, in una superiore cornice di solidarietà, di condi-visione, di amore verso i propri simili in generale, e verso coloro che soffrono in particolare.

La letteratura costituisce un bene primario, attraverso cui può rispecchiarsi una Na-zione e senza la quale è come se un popolo fosse privo della vista, dell’udito, della parola. Tramite il messaggio prosasti-co o poetico, vengono supera-te le barriere dello spazio e del tempo e sono unite le genera-zioni di ieri, di oggi e di doma-ni, in una dimensione che è al contempo identificativa della nazione che vi si rappresenta, ed ampliativa dei suoi confini ideali , arrivando ad abbraccia-re tutti a coloro che, ovunque nel mondo, si riconoscono nei

sempiterni valori del Bello, del Vero e del Buono. L’arte vive di universale, affrancata dal con-tingente, che attraverso essa si sublima ed acquisisce la di-mensione dell’Eterno.

Scompare allora dal no-stro orizzonte ogni legame di contemporaneità, di anteriori-tà o di posterità, e si afferma in sua vece il principio sostan-ziale che ogni cosa bella e ve-ra, è bella e vera per sempre, in ogni tempo ed in ogni luo-go, di una verità e di una bel-lezza che con il mutare del-le epoche sono diversamente avvertite , ma sono comunque intensamente percepite.

Il curatore Nello Avella coglie efficacemente le sinto-nie singolari, e perciò vieppiù significative, fra gli stati d’ani-mo di estatica ammirazione che caratterizzarono il pas-saggio in Italia di personaggi come Goethe, George Sand, Sartre, Roland Barthes , da un canto, e dei loro omologhi lusitani in cammino per le stesse strade, dall’altro canto.

Il visitatore brasiliano con le sue impressioni di viaggio, pur nelle rilevate sintonie, si distingue dai suoi omologhi europei, in quanto non si sen-te come uno straniero venuto a contemplare le vestigia di un mondo diverso dal suo, bensì come un ospite che avverte immediatamente di essere a casa propria, grazie a quella che l’Avella definisce “profon-da empatia, in molti casi vera e propria immedesimazione”.

Tale immedesimazione si percepisce compiutamen-te nell’ affermazione di Darcy Ribeiro circa la nascita di una nuova Roma (dopo Bisanzio e Mosca sarebbe questa la quar-ta!) incarnata nella lusitanità,

vestita- sono parole sue – “ di carne india e di carne negra” per costruire una grande latini-tà, comparabile per estensione al ceppo slavo, a quello cinese ed a quello neo-britannico.

Innanzi alle nuove iden-tità che si stanno affermando nel mondo con le connotazio-ni esasperate di un capitalismo disumanizzante ed aggressivo, o di un integralismo religioso in-tollerante e fanatico, deve levar-si alta e forte la voce della Ra-gione, che si sostanzia nei pre-cetti universali del rispetto della dignità umana e della vita, del-la solidarietà verso i più miseri, della tolleranza delle diversità, della libertà nelle sue varie for-me. Principi questi che ritenia-mo non casualmente presenti nel cristianesimo, e che unita-mente al diritto romano, ancor oggi considerato come ratio scripta, costituiscono le fonda-menta dell’Unione Europea, di cui l’America latina nel suo in-sieme ed il Brasile in particolare, costituiscono l’immagine natu-ralmente riflessa Oltreoceano.

Dalla sinergia tra due mondi separati solo dal ma-re ed oggi virtualmente uniti grazie ad INTERNET, è dato realisticamente sperare nel-la rinascita della civiltà occi-dentale, o meglio della civiltà senza altri aggettivi.

In tale ottica, riteniamo do-veroso esprimere la nostra gra-titudine a Nello Avella che, at-traverso il suo impegno gene-roso e forse inconsapevole, co-me può esserlo quello di chi che segue un moto dell’anima prima ancora di un disegno strategico scientemente preor-dinato , si è reso ambasciatore e tramite appassionato di una sempre più intensa osmosi fra i latini citra et ultra Oceanum.

I Brasiliani a Roma Tito Rizzo

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