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55 anno 14 settembre 2004 rivista trimestrale dell'associazione per l'incontro e la comunicazione tra i popoli MADRUGADA Pace non è solo il contrario di guerra, pace non è solo il tempo tra due guerre. Pace è di più. Pace è la legge della vita. Pace è quando noi agiamo in modo giusto e quando tra ogni singolo essere regna la giustizia.

MADRUGADA - Macondo

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Page 1: MADRUGADA - Macondo

55a n n o 1 4

s e t t e m b r e 2 0 0 4

r i v i s t a t r i m e s t r a l e d e l l ' a s s o c i a z i o n e p e r l ' i n c o n t r o e l a c o m u n i c a z i o n e t r a i p o p o l i

MADRUGADA

P a c e n o n è s o l o i l c o n t r a r i o d i g u e r r a ,

p a c e n o n è s o l o i l t e m p o t r a d u e g u e r r e .

P a c e è d i p i ù .

P a c e è l a l e g g e d e l l a v i t a .

P a c e è q u a n d o n o i a g i a m o i n m o d o g i u s t o

e q u a n d o t r a o g n i s i n g o l o e s s e r e

r e g n a l a g i u s t i z i a .

Page 2: MADRUGADA - Macondo

direttore editorialeGiuseppe Stoppiglia

direttore responsabileFrancesco Monini

comitato di redazioneStefano BenacchioGaetano Farinelli

collaboratoriMario Bertin

Alessandro BresolinEgidio CardiniFulvio CorteseSara DeganelloGiovanni Realdi

progetto graficoAndrea Bordin

stampaLaboratorio Grafico BSTRomano d’Ezzelino (Vi)

Stampato in 2.500 copie

Chiuso in tipografia

il 10 settembre 2004

Registrazione del Tribunale di Bassano n. 4889 del 19.12.90La redazione si riserva di modificare e abbreviare i testi originali.

Studi, servizi e articoli di “Madrugada” possono essere riprodotti,purché ne siano citati la fonte e l’autore.

MADRUGADA55

a n n o 1 4s e t t e m b r e 2 0 0 4

Via Romanelle, 12336020 Pove del Grappa / Vi

telefono 0424 80.84.07fax 0424 80.81.91

c/c postale 12794368c/c bancario 023570065869

veneto banca(cin N - abi 05418 - cab 60260)

http://www.macondo.itE-mail: [email protected]

SOMMARIO

3 controluceDiverso come mela redazione

4 controcorrenteSe il futuro è già calcolato,la nostra anima è vuotadi Giuseppe Stoppiglia

7 dentro il guscioDiversitàdi Adone Brandalise

9 la diversità / 1La diversità in un futurodi vicinanze estremedi Ivo Lizzola

12 la diversità / 2Diversa-mentedi Ennio Ripamonti

14 la diversità / 3Diversità di genere: il femminiledi Bruna Peyrot

17 esodiFrate Elia: elogio del tradimentodi Mario Bertin

19 dal diritto ai dirittiI “nemici” e la scommessa dell’amiciziadi Fulvio Cortese

21 pianoterraSono forse scomparsi i maestri?di Giovanni Realdi

23 itinerariEuropa. La direttiva Bolkesteindi Alessandro Bresolin

25 luoghiMostar: perché?di Sara Deganello

27 notizieMacondo e dintornidi Gaetano Farinelli

31 redazionaleSalvare le differenzea cura di Antonella Santacà

Hanno scritto fino ad oggi su Madrugada:Alberton Diego, Allegretti Umberto, Allievi Stefano, Alunni Istituto Alberghiero Aba-no Terme, Alves Dos Santos Valdira, Amado Jorge, Amoroso Bruno, Anonimo peru-viano, Anonimo, Antonello Ortensio, Antoniazzi Sandro, Arsie Paolo Pelanda, Ar-veda Gianfranco, B.D., Balasuriya Tissa, Baldini Marco, Barcellona Pietro, BattistiniPiero, Bayuku Peter Konteh, Bellemo Cristina, Benacchio Stefano, Benedetto da Sil-lico, Berrini Alberto, Bertin Mario, Bertizzolo Valeria, Berton Roberto, Bianchin Saul,Bonfanti Vittorio, Bordignon Alberto, Borsetti Corrado, Boschetto Benito, Boselli Ila-ria, Braido Jayr, Brandalise Adone, Bresolin Alessandro, Brighi Cecilia, Brunetta Ma-riangela, Callegaro Fulvia, Camparmò Armida, Canciani Domenico, Cardini Egidio,Casagrande Maurizio, Castegnaro Alessandro, Castellan Gianni, Cavadi Augusto, Ca-vaglion Alberto, Cavalieri Giuseppe, Cavalieri Massimo, Ceccato Pierina, CesconRenato, Chierici Maurizio, Ciaramelli Fabio, Colagrossi Roberto, Collard GambiezMichel e Colette, Colli Carlo, Corradini Luca, Correia Nelma, Cortese Antonio, Cor-tese Fulvio, Crimi Marco, Crosta Mario, Crosti Massimo, Cucchini Chiara, Curi Um-berto, Dalla Gassa Marcello, Dantas Socorro, De Benedetti Paolo, Della Chiesa Ro-berto, De Lourdes Almeida Leal Fernanda, De Marchi Alessandro, De Silva Denisia,De Vidi Arnaldo, Deganello Sara, Del Gaudio Michele, Della Queva Bruno, De-marchi Enzo, Di Felice Massimo, Di Nucci Betty, Di Sante Carmine, Di Sapio Anna,Dos Santos Isabel Aparecida, Elayyan Ziad, Eunice Fatima, Eusebi Gigi, Fabiani Bar-bara, Fantini Francesco, Farinelli Gaetano, Ferreira Maria Nazareth, Figueredo Ail-ton José, Filippa Marcella, Fiorese Pier Egidio, Fogli Luigi, Fongaro Claudio e Lo-renza, Franzetti Marzia, Furlan Loretta, Gaiani Alberto, Galieni Stefano, Gandini An-drea, Garbagnoli Viviana, Garcia Marco Aurelio, Gasparini Giovanni, Gattoni Ma-ra, Gianesin Roberta, Giorgioni Luigi, Gomez de Souza Luiz Alberto, Grande Ivo,Grande Valentina, Gravier Olivier, Grisi Velôso Thelma Maria, Gruppo di Lugano,Guglielmini Adriano, Gurisatti Paolo, Hoyet Marie-José, Jabbar Adel, Kupchan Char-les A., Lanzi Giuseppe, Lazzaretto Marco, Lazzaretto Monica, Lazzarin Antonino,Lazzarini Mora Mosé, Lima Paulo, Liming Song, Lizzola Ivo, Lupi Michela, ManghiBruno, Marchesin Maurizio, Marchi Giuseppe e Giliana, Margini Luigia, Marini Da-niele, Masina Ettore, Masserdotti Franco, Mastropaolo Alfio, Matti Giacomo, Me-deiros J.S. Salvino, Meloni Maurizio, Mendoza Kuauhkoatl Miguel Angel, MenghiAlberto, Mianzoukouta Albert, Miguel Pedro Francisco, Milan Mariangela, MilaniAnnalisa, Minozzi Mirca, Miola Carmelo, Missoni Eduardo, Monini Francesco, Mo-nini Giovanni, Montevecchi Silvia, Morelli Pippo, Morgagni Enzo, Morosinotto To-mas, Mosconi Luis, Murador Piera, Naso Paolo, Ortu Maurizio, P.R., Pagos Miche-le, Parenti Fabio Massimo, Pase Andrea, Pedrazzini Chiara, Pedrazzini Gianni, Pe-goraro Tiziano, Pellegrino Mauro, Peruzzo Dilvo, Peruzzo Krohling Janaina, Peruz-zo Krohling Cicília, Petrella Riccardo, Peyretti Enrico, Peyrot Bruna, Pinhas Yarona,Pinto Lúcio Flávio, Plastotecnica S.p.A., Priano Gianni, Ramaro Gianni, Ramos Val-decir Estacio, Realdi Giovanni, Reggio Stefano, Ribani Valeria, Ripamonti Ennio, Ros-setto Giorgio, Rossi Achille, Ruffato Monica, Ruiz Samuel, Sansone Angelica, San-tacà Antonella, Santarelli Elvezio, Santiago Jorge, Santori Cristiano, Sartori Michele,Sarzo Paola, Sbai Zhor, Scotton Giuseppe, Sella Adriano, Sena Edilberto, Senese Sal-vatore, Serato Stefano, Simoneschi Giovanni, Sonda Diego Baldo, Spinelli Sandro,Stanzione Gabriella, Stivanello Antonio, Stoppiglia Giuseppe, Stoppiglia Maria, Stra-di Paola, Tagliapietra Gianni, Tanzarella Sergio, Tessari Leonida, Tomasin Paolo, To-nucci Paolo, Tosi Giuseppe, Touadi Jean Leonard, Trevisan Renato, Turcotte François,Turrini Enrico, Vulterini Stefania, Zambrano Maria, Zanetti Lorenzo, Zaniol Angelo,Zanovello Ivano.

copertinaversi da

Sentenza irochese

immaginiMarcello Selmo

Page 3: MADRUGADA - Macondo

Lo so, lo so che siete tutti rientrati. Il mare, i monti so-no ormai lontani. Anche quelli che ci abitano appresso,sono ormai lontani. Perché la lontananza è una con-dizione psicologica. E siamo tornati tutti in direzionediversa. Ci siamo trovati in un punto; e poi diversa-mente rientrati, che poi diversamente ci eravamo con-fluiti. Nel frattempo, diversamente operando, abbia-mo messo insieme i pezzi del numero cinquantacin-que in pieno ferragosto. Non asciugarti il sudore; è giàsettembre, anche se questo foglio suda ancora.

E comincio dalla testa, che come anguilla va controcorrente in: Se il futuro è già calcolato, la nostra ani-ma è vuota di Giuseppe Stoppiglia, il quale rifiuta l’i-dentificazione della realtà con la legge economica,del fare con l’eseguire, e del futuro con il destino, l’i-dentità del vivere con il sopravvivere, perché la no-stra vita non si esaurisca nelle categorie di spazio e ditempo in nome delle leggi di bilancio.

Segue il monografico sulla diversità, diversamentedistribuito. Dà il via il professor Adone Brandalise den-tro il guscio a costruire lo sche-ma della diversità con le sue va-rie accezioni su di un terreno in-sieme teorico ed esistenziale. Suquesto hortus conclusus et aper-tus colloca la pianticella di Ladiversità in un futuro di vicinan-ze estreme il professor Ivo Liz-zola, diversità che possono es-sere accolte non dentro un pro-getto omologante, ma all’inter-no di una fraternità originaria,per la quale possiamo ricono-scere le debolezze nostre e il li-mite. Il dottor Ennio Ripamonticolloca sul terreno lo stelo Di-versa-mente, che spiega la di-versità come un Giano bifronte,che ha caratteri insieme ogget-tivi e soggettivi; da qui la ne-cessità di affrontare le cose conmente flessibile e attendere aicambiamenti, della globalizza-zione e dell’immigrazione, conanimo duttile. E infine ecco lapianta che si apre su due lati, lospartiacque del genere umano,attorno alla quale è nata una su-bordinazione, di cui è bene ca-pire le ambiguità e l’origine, l’al-

bero di Diversità di genere, illustrato da Bruna Peyrot.E siamo a metà percorso, con buona pace del re-

dattore che stringe e che preme sui pezzi, come fa ladonna formosa che costringe le forme che deborda-no perché addivengano curve piacenti.

Varcato il confine ci imbattiamo nella prima rubri-ca, chiara come un sole che si accende, di Mario Ber-tin per Frate Elia: elogio del tradimento che rivede ilruolo e la funzione del successore di San Francesconella direzione dell’ordine, frate Elia appunto, che pertrasmettere al secolo futuro lo spirito di Francesco, de-ve costringere lo spirito di Francesco dentro una con-dizione, un limite terreno, senza mortificarlo.

E veniamo a Fulvio Cortese: I “nemici” e la scom-messa dell’amicizia ci illumina di come la guerra, ol-tre che la ricostruzione delle città, comporterà la ri-costruzione del diritto, che, come insegna il CasoGuantanamo sta perdendo i suoi connotati, come nelpugilato: chi perde perché mette sul piatto della bi-lancia il pugno, chi vince, dopo averlo impresso sul

muso del nemico.Con una domanda si propone

Giovanni Realdi: se Ci sono an-cora i maestri, la risposta è tra lerighe, e non è unica.

Il sole che si accende illuminala rubrica di Alessandro Bresolinche in Europa. La direttiva Bolke-stein scrive di come qualcuno vo-glia scrivere Europa come un granmercato del quale regola primaè il ribasso del livello, non delfiume in piena ma del tenore (uh!la lirica) di vita.

Sara Deganello ci invia poi laseconda parte del suo diario daSarajevo, da una terra dove la di-versità etnica e religiosa è fontedi guerre ed elemento di divi-sione.

Viene poi la cronaca di Ma-condo e dintorni del cronista as-sente, e la cronaca della festa diMacondo. Non perdetevi le fotodi Marcello Selmo e il commen-to di Antonella Santacà.

Buon lavoro amici e a presto,accanto al camino.

La redazione

Diverso come meScorrendo le pagine di Madrugada

3

c o n t r o l u c e

Page 4: MADRUGADA - Macondo

Nella Pasqua ebraica i cibi serviti era-no accompagnati da erbe amare. As-senzio, lattuga e altro… Penso che do-vremmo mescolare assenzio nei no-stri cibi e nelle nostre bevande. Biso-gna bere l’amaro della vita per avereuna chiara percezione della dolcez-za assente, distante.

Paul Tillich, durante un’omelia, rac-contò un giorno questa storia. In unodei giudizi per crimini di guerra al tri-bunale di Norimberga, testimoniavaun ebreo che per qualche tempo eravissuto in una tomba del cimitero. Eraquello l’unico luogo dove lui e tantialtri ebrei potevano vivere, nascosti,dopo essere scappati dalle camere agas e dai forni crematori. Durante quelperiodo egli aveva scritto delle poe-sie, una delle quali descriveva una na-scita là avvenuta. In una sepoltura vi-cino alla sua, una giovane donna ave-va dato alla luce un bambino. Il bec-chino, di ottant’anni, aveva fatto daostetrico, avvolto in un lenzuolo di li-no. Quando il bambino, al nascere,era scoppiato in un grido di pianto, ilvecchio aveva così pregato: «GrandeDio, chissà se finalmente Tu non ci ab-bia inviato il Messia!? Perché chi, al-l’infuori del Messia, potrebbe nasce-re in una sepoltura?».

Spreco e indifferenza

Dal primo viaggio in Africa o in Ame-rica Latina torni che gridi, al secondoparli, dopo il terzo taci. Quando si tor-na tacendo, dopo la retorica dello sde-gno (gridare) e la banalità del turista(parlare), significa che forse si è dive-nuti consapevoli del fatto che occor-re anzitutto cambiare mentalità e sti-le di vita.

Su una pista di terra rossa nel sertaodella Bahia, a Jgaporà, ho sperimen-tato che ci si può vergognare a man-giare il pane da soli. Ero con una suo-ra e un operatore della Commissione

pastorale della terra, il quale ci face-va anche da autista.

Non avevamo ancora finito di scar-tocciare le provviste che vedemmoappoggiarsi sui finestrini abbassati delfuoristrada, una vecchia Toyota, ine-quivocabili, nere falangi. Decine diragazzi nudi. Formiche richiamate dalsegnale delle briciole di pane. Nondicevano niente. Non chiedevano nul-la. Semplicemente ci guardavano, conrispetto e stupore, addentare il pane.

Una scena impressionante. Il ritrat-to di una vergogna che ormai non co-nosciamo più, anche perché cerchia-mo di guardare dall’altra parte quan-do ci imbattiamo con gente affamata.Forse, in Africa o in America Latina,di fronte a quei volti smunti e silen-ziosi, a quegli occhi protesi verso ilmiraggio del pane, potremmo prova-re qualche fastidio o rimorso. Può ca-pitare anche che il telegiornale facciabalenare per pochi minuti il drammadella fame nel mondo, con mani sche-letriche, occhi lucidi, corpi rinsecchiti.Subito dopo, ecco il servizio sulla mo-da, con bellezze statuarie, scenari su-perbi, cene sontuose, mondanità ec-citanti.

Ciò che è terribile, appunto, è la no-stra capacità di rimuovere ogni ele-mento di inquietudine per immerger-ci nella festa, nel consumo, nello spre-co, con allegra indifferenza. Anzi, chici ricorda quelle “falangi nere” e scar-ne che si aggrappano al nostro be-nessere, sembra che voglia solo rovi-narci la festa...

Quale etica nel mercato globale

Dov’è finita l’etica nel mondo del diomercato? C’è qualcuno che ritiene chel’economia sia ancora e debba esse-re compatibile con l’etica. Da partemia non vedo quale etica possa rag-giungere l’altezza dell’economia di-venuta “globale”.

Se il futuro è già calcolato,la nostra anima è vuotaL’agire si riduce a fare e non rimane più spazio per l’etica

di Giuseppe Stoppiglia

4

c o n t r o c o r r e n t e

«Sappiatelo, sovrani e vassalli,

eminenze e mendicanti,

nessuno avrà il diritto al superfluo,

finché uno solo mancherà

del necessario».

[Salvador Diaz Miròn,

poeta messicano]

«L’uomo d’oggi guarda,

ma non contempla,

vede ma non pensa».

[Eugenio Montale]

Page 5: MADRUGADA - Macondo

La globalizzazione rende imprati-cabili le etiche che, sia sul versantecristiano, sia sul versante laico, sonostate finora formulate.

Il “mezzo” che l’economia assumecome suo unico indicatore oggi è ildenaro. Non è sempre stato così, lo èsolo da quando l’economia è divenu-ta, nella seconda metà del settecento,un sistema scientifico. Quando il de-naro diventa la forma unica dell’eco-nomico, e l’economico diventa la for-ma del mondo, si sviluppa una qua-lità di pensiero, un tipo di razionalitàche si limita a fare solo operazioni connumeri, guarda vantaggi e svantaggi,profitti e perdite, e si configura esclu-sivamente nell’utile.

Qui è l’essenza del “pensiero uni-co”, dove i criteri di valutazione sonola produttività, l’efficienza, il calcolo,accanto ai quali non ci sono pensierialternativi o, se ci sono, sono pensie-ri marginali. Penso ai pensieri filoso-fici, teologici, poetici. Sono pensieripossibili, gratificanti, ma il mondo nonsi organizza a partire da questi pen-sieri.

Siamo consapevoli che la diffusio-ne, anzi l’egemonia dell’economico,indicato esclusivamente dal denaro,possa costituire l’unica forma di pen-siero a cui educare l’umanità? Se è co-sì, come pare, non è il luogo decisivodel fallimento etico?

In un mercato tecnicizzato è anco-ra consentito agire o non resta altroche fare? Colui che opera in un ap-parato agisce o esegue? E qui non pen-

so solo all’impiegato, ma anche al-l’imprenditore, che è, a sua volta, pri-vato della possibilità di agire perchédeve eseguire, cioè seguire azioni de-scritte e prescritte dal mercato.

A questo punto, se agire significacompiere delle azioni in vista di unoscopo, e fare vuol dire invece esegui-re azioni già prescritte dall’apparato,che nella fattispecie è il mercato, co-me possiamo introdurre un’etica, làdove nessuno più agisce, perché tuttisi limitano a fare e a eseguire?

Mi vengono in mente quelle rispo-ste che i generali nazisti davano quan-do venivano catturati e processati. Sichiedeva conto della loro condotta edessi rispondevano: «Ho eseguito or-dini». Qui abbiamo un esempio di co-sa significa passare dall’agire al fare.Perché colui che fa, non è responsa-bile dei fini ultimi. Se io lavoro in unabanca e questa banca, per ipotesi, sov-venziona la produzione delle armi, ioimpiegato non sono responsabile. Pri-mo perché non sono tenuto a cono-scere i fini ultimi, secondo perché, seanche li conoscessi, non sono auto-rizzato a prendere posizione. Quindiio faccio, ma non agisco più, perchéi fini mi sono stati sottratti.

Ormai l’agire si riduce a lavorare,dove lavorare consiste nella pura ese-cuzione di azioni già prescritte. Sin-ceramente è difficile trovare spazioper l’etica. Non disponiamo di un’e-tica all’altezza della tecnica e dell’e-conomia globale; per questo bisognacominciare a pensare.

Quale proposta, per quale futuro

Ora qualcuno dei miei venticinque fe-deli lettori potrebbe chiedermi: «Tu,allora, quale soluzione proponi?».

Per scelta io propongo dei valori perpoter affrontare meglio la complessitàdel reale, mai delle soluzioni. Sta aciascuno di noi elaborare le strategieappropriate. Se ci si muove concreta-mente, il pensiero ci seguirà. Com-batto con accanimento questa ideache si possano vendere delle soluzio-ni. Anche in politica l’idea di pro-gramma la ritengo molto secondaria,rispetto all’idea di “via”, che preferi-sco.

Ci devono essere sempre degli obiet-tivi da individuare e da fissare, occorreil massimo sforzo per poter raggiun-gere quegli obiettivi, ma la via del fu-turo non è mai tracciata in anticipo. Èper questo che amo citare il poema diMachado che dice Tu che cammininon hai un cammino, il cammino sirealizza camminando.

Credo fermamente che il camminosi realizzi camminando. Benintesi, cisi orienta con una stella, come la stel-la polare. La stella è la nostra aspira-zione ad un mondo migliore, è la no-stra fede nella fraternità. Ma sta a noirealizzare il cammino.

Abbiamo vissuto fino agli anni Set-tanta con l’idea che il futuro fosse trac-ciato. Sia nel mondo comunista cheera tracciato verso la società senzaclassi, sia nel mondo della democra-zia liberale che era in questo caso trac-ciato verso un mondo che fosse il me-no peggio possibile. Ma l’idea era chela via del progresso fosse, in tutti i mo-di, ineluttabile. Oggi, quando pensoche il progresso è possibile, sento pu-re che non è predeterminato.

Credo che questo sentire sia una del-le grandi acquisizioni della nostra epo-ca, a condizione che non sia abban-donato. Perché non è sufficiente ac-quisire una verità, bisogna conser-varla.

Se abbiamo perso le chiavi del fu-turo come possiamo capire il futuro?Nessuno lo sa. Liquidare e liberarsidegli sfruttatori non è sufficiente per-ché emergono dei nuovi sfruttatori.Basta guardare nell’ex Unione Sovie-tica.

Il progresso si deve costruire attra-verso l’educazione? Sì, ma chi va adeducare gli educatori? Tutto è proble-matico e non abbiamo le chiavi delfuturo.

5

c o n t r o c o r r e n t e

Page 6: MADRUGADA - Macondo

Ogni volta che si è realizzata unagrande trasformazione storica, non èche qualcuno possedesse in anticipole chiavi di accesso. Questa che vi-viamo è un’epoca di grandi cambia-menti, incontestabilmente. Assistiamoalla distruzione di un mondo, senzache si possa anticipare la figura di quel-lo che emergerà. La nostra scommes-sa, a questo punto è quella di attrez-zarci di un acuto senso di vigilanza.

Una nuova barbarie

Oggi il lavoro di ricerca e di elabora-zione degli intellettuali è minacciatoin modo particolare dal totalitarismotecnoscientifico, per il quale conta so-lo la quantità e non la qualità, la ra-pidità e non la durata, un’incontesta-bile egemonia di un modo di pensa-re che riconduce tutto al calcolo. Que-sto modo di pensare che regna nel-l’economia e nella tecnica, lo consi-dero una nuova forma di barbarie. Illavoro di riflessione, il lavoro del pen-siero è minacciato. Ed è minacciatosia dall’interno che dall’esterno.

Dall’interno perché si vive in unmondo cronometrato, affrettato, in cuii tempi della riflessione mancano, nonc’è investimento riflessivo in politica,nella scuola, né altrove; si vive gior-no per giorno e si è presi dalle piani-ficazioni e dalle programmazioni.

Dall’esterno: in televisione tutte leforme di dibattito sono diventate im-possibili. C’è stato un tempo in cui sipoteva discutere per un’ora con un in-terlocutore, oggi si vede solo spetta-colo. Quanto al libro, esso diventa unamerce, ed il suo circuito si fa di gior-no in giorno più rapido e più breve.

Lo si invia nelle librerie, che non lovogliono, lo rendono; molti libri muoio-no prima ancora di essere nati. I ser-vizi stampa orientano le critiche ver-so libri che si suppone possano di-ventare i futuri best seller. In breve, illibro è sempre più integrato nei cir-cuiti di un’enorme macchina anoni-ma e mercantile, e la critica è domi-nata sempre più dai clan, che posso-no salutare delle “pizze” come dei ca-polavori.

Certo, ed è incoraggiante, ancoraoggi si pubblica qualche libro inte-ressante, che abbraccia tutti i campidel sapere, soprattutto nelle piccolecase editrici, quindi non tutto è per-duto, ma tutto è sempre più margi-nalizzato.

In cammino verso il non luogo

È evidente che in una condizione delgenere la democrazia non può anda-re oltre le scelte degli esecutori tecni-camente più capaci di applicare i co-mandi del capitale finanziario che simuove a livello transnazionale, percui quando Marx diceva che i gover-ni erano comitati d’affari della gran-de borghesia, aveva torto, ma solo perdifetto. Quello che allora era un cat-tivo costume, oggi è un sistema, anzi,è il sistema. Per cui, se nel mondo an-tico i debitori insolventi finivano schia-vi, nel mondo del capitalismo globa-le, interi Stati vengono costretti a la-vorare per conto delle grandi finan-ziarie e delle grandi imprese.

Vivere insieme agli altri senza esse-re riconosciuti è insopportabile nellaquotidianità dell’esistenza. Speri-mentare nella condizione di vittimadella violenza o di sopravissuto l’ab-bandono dell’altro, il tradimento o ildisprezzo è qualcosa che può intac-care in maniera irreparabile il patri-monio comune dell’umanità e provo-care quello che Alain Brossat defini-sce «lo sradicamento da tutta la co-

munità umana, la disunione con tuttol’avvenire».

Adattarsi per sopravvivere svuota l’a-nima. C’è chi non si è adattato, con-servando intatta la capacità di com-prensione e moltiplicando gli sforziper combattere la menzogna.

Essendo il capitalismo diventato glo-bale, e avendo occupato tutti i luoghidella Terra, a contrastarlo, non restache l”utopia”, ossia quel “non-luogo”dove si sono rifugiati, spinti sia da de-stra, sia da sinistra, personaggi, pro-getti, idee, proposte, finite nell’unicoposto al mondo che accetta tutti i de-triti della storia.

Da questo “non-luogo” non posso-no nascere rivoluzioni liberatorie, masolo una chiamata che viene dal fu-turo, dalle sorti future della Terra e del-l’uomo, simile alla chiamata di Abra-mo a lasciare la sua casa, la sua ter-ra, il suo popolo, per diventare il pa-dre di una popolazione utopica, al-l’epoca senza luogo, come senza luo-go è già il nostro abitare sulla Terra.

Pove del Grappa, agosto 2004

Giuseppe Stoppiglia

6

c o n t r o c o r r e n t e

I temi affrontati in questo li-bro tracciano un percorsosulla frontiera, come luogodove, abbandonate le pro-prie sicurezze e certezze con-solidate, si è esposti al «vol-to» dell’altro e alle provoca-zioni della storia.

Il confine implica divisio-ne, ma contemporaneamen-te possibilità di «riconosci-mento», di incontro, di scam-bio, di vivere un «io plura-le». Cancellarlo significhe-rebbe abbandonare i propriterritori ai processi devastantidell’omologazione culturalee della insignificanza etica.

Tra gli argomenti trattati,l’autore dà particolare rilie-vo alla centralità della per-sona in un mondo globaliz-zato, alle paure e alle insi-curezze che da questo mon-do provengono, ai fermentidella società civile, ai pro-blemi dei giovani, dei pove-ri, degli esclusi, al ruolo del-l’educazione.

Giuseppe StoppigliaCamminando sul confine

introduzione di Pietro BarcellonaCittà Aperta, Macondo Libri, 2004,

pp.216, Eur 12,00

Page 7: MADRUGADA - Macondo

Diversità e differenza

Che la nozione di diversità sia con-sueta manifestarsi in contesti discor-sivi sull’ordine dei quali tende, alme-no da qualche tempo, ad esercitareuna funzione, per così dire, di rego-lazione filosofica e quindi di orienta-mento complessivo del palinsesto “teo-rico generale” il concetto di differen-za, è circostanza che da sola forni-rebbe un buono spunto per avviareuna riflessione su ampiezza e limitidelle risorse semantiche e logiche chequesta parola può mettere a disposi-zione dei desideri che ad essa si ri-volgono come ad un possibile anco-raggio del loro voler dire, in una pra-tica che ne sostenga le parti nello spa-zio del dire socialmente e istituzio-nalmente riconosciuto.

Altrettanto legittimo - e forse nonmeno utile a un fine non troppo di-verso - è probabilmente prendere lemosse da un connotato che al termi-ne si lega quantomeno per effetto deisuoi ruoli allocutivi o, se si preferi-

sce, delle sue più tipiche prestazioniretoriche.

Diversità e pregiudizio

Si potrebbe abbastanza sicuramentedire che, nella maggioranza dei casi,si impiega il termine diverso per indi-care o un individuo o un particolarecomportamento che, per una sua ca-ratteristica, si trova ad essere respin-to o comunque penalizzato in un con-testo sociale che dovrebbe invece nondiscriminarlo. Ovvero, la parola sem-bra votata ad una deprecazione delpregiudizio e postula implicitamenteuna sua interpretazione critica. In-somma, si verifica l’incapacità, di cuisi auspica il superamento, di condi-videre spazi e tempi dell’esperienzacon quanti sembrano per loro naturasovvertirne le coordinate più irrinun-ciabili. In genere questo è il punto dipartenza per un’apologia della diver-sità, nonché di una connessa destrut-turazione del concetto di normalità ein genere di quanto istituisca gerar-chie e filtri di inclusione/esclusionesulla scorta di modelli assunti comenaturalmente riusciti e moralmenteobbligatori.

Rivendicazione del diverso

Sotto questo aspetto la rivendicazio-ne in positivo della diversità si collo-ca nell’alveo di quella consumazionedell’efficacia spirituale della metafisi-ca (o, se vogliamo, del suo aspetto piùstoricamente vistoso, ma inevitabil-mente meno intrinseco, quello cata-fatico, positivamente assertivo e quin-di anche direttamente o indirettamentenormativo) che vede la modernità faremergere come propria cifra autoin-terpretativa la manifestazione esplici-ta di un nichilismo implicato da sem-pre nelle sue stesse premesse. Dia-

Diversità

di Adone Brandalise

7

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gnosi questa che, come si potrebbetentare di dimostrare se l’economiadel nostro discorso non esigesse altracondotta, nulla toglie alla dignità li-bertaria, democratica, cosmopolita eantidiscriminatoria di queste onesteretoriche, con le quali chi scrive, ogniqualvolta avverta la necessità di pren-derne le distanze, subito prova ancheil bisogno di solidarizzare di fronte al-le pretese di chiunque agiti caricatu-ralmente la scimitarra in nome si sal-vifiche forme di virtuosa (e in realtàquasi sempre barbara e viziosa) intol-leranza. Solo essa potrebbe non ozio-samente incarnare la connessione ra-dicale che lega le più divaricate e op-poste declinazioni di quanto si svi-luppi da ciò che della modernità è lamatrice logica, indicando nella tolle-ranza, nella democrazia, nei diritti,concetti cui va riconosciuto di aver in-terpretato istanze ricche e vitali manon sino al punto di oltrepassare ilnesso genealogico di queste nozionicon la complexio di potere, sovranità,rappresentanza - rappresentazione.Soprattutto, anche guardando alla fe-nomenologia proposta dal più ravvi-cinato presente, consentirebbe forsedi cogliere il continuum di violenzaimpositiva e illimitatezza dell’agire incui paiono oggi ritrovarsi le societàaperte con le loro libertà obbligatoriee le loro democrazie esportabili.

Una minaccia della identità

Comunque se ci rivolgiamo al mo-do in cui viene ad agire l’evento del-la diversità possiamo costatare comeesso non riguardi essenzialmente ilnostro rapporto con l’altro quanto piut-tosto la nostra relazione con noi. In talsenso, la diversità si rende rilevantenon tanto per una troppo marcata as-senza di isomorfismi, insomma per-ché il diverso si presenti visibilmentecome differente nell’aspetto o nei mo-di di manifestarsi rispetto alla nostraautorappresentazione, ma perché ilsuo diverso configurarsi agisce comeuna pericolosa evidenziazione di unapossibile nostra diversità da noi stes-si. La nozione freudiana di perturbante(ciò che prima heimlich, cioè dome-stico, intimo a noi stessi ci si presen-ta come minacciosamente estraneo,quando i nostri assetti si siano fonda-ti sulla sua rimozione, divenendo co-sì unheimlich, e, in tal senso appuntoperturbante) si presta a condensare un

versante tra i più attivi di quella di-versità, quello che, per un verso si svi-luppa in direzione della filiera diver-sità-conflitto, mentre dall’altro apresulla messa in questione della nozio-ne stessa di identità.

Il diverso sembra minacciarci per-ché dilata un campo di possibilità ri-spetto a quello nella cui gamma noiabbiamo ridotto le componenti delnostro riconosciuto corredo identita-rio, come se, per una inquietante in-terferenza, all’organizzazione di quan-to avvertiamo come la nostra forma sene stia sostituendo in tutto o in parteun’altra. Ciò che accade, ed è il casodi molte situazione di relazioni inter-culturali vissute come frizione o ad-dirittura scontro, quando intuizioni epratiche diverse del tempo e dello spa-zio, diverse valorizzazioni del corpoe del linguaggio, si trovano a condi-videre e quindi a contendersi gli stes-si luoghi e le stesse congiunture.

All’origine dei conflitti:una rigida identità

I conflitti etnici o religiosi non sonoimmaginabili senza l’ipostatizzazio-ne di una identità rigida, nella qualesi congelano e si compongono ste-reotipicamente elementi di un meta-bolismo culturale rescissi dalla lorodinamica vitale, assunta come filtroregolatore unico del rapporto tra unacomunità e la rete di relazioni che neconsentono, con l’interazione con al-tri contesti, la vita stessa. Oppure sipensi a quanto siamo soliti definirerazzismo, che difficilmente prendeconsistenza là dove non sussista la ne-cessità degli oppressori di strutturareuna percezione della diversità intrin-seca degli oppressi che possa conci-liarsi con una positiva visione del pro-prio ordine.

Sotto questo profilo, il discorso sul-la diversità può mutuare alcune con-siderazioni che formano parte inte-grante di quello che concerne la no-

zione di altro - alterità: l’identità si co-stituisce da sempre insediandosi nel-l’altro, facendo dell’altro il proprio al-tro, trasformando l’altro in visione di-stanziante che struttura la superioritàordinante dell’io, ovvero lavorando altoglimento della possibilità del per-turbante. Se ripercorriamo un ritualeper eccellenza fondativo della mo-dernità, come quello rappresentatodalla rappresentazione hobbesiana delcontratto sociale, dove è inscritta lamatrice concettuale delle nozioni diindividuo come di soggetto collettivo,vi scorgiamo operare l’imperiosa ne-cessità di far coincidere ordine e neu-tralizzazione, di subordinare l’esistenteal rappresentato, di riportare l’alteritàai termini di una dialettica tutta inter-na al dispiegarsi della rappresenta-zione e di cifrare un altro più radical-mente diverso nell’incubo pedagogi-co dello stato di natura.

Il turbamento di sentirci più cose

Forse l’esaurimento, di cui siamo ainostri giorni testimoni, della forza for-matrice dell’insieme di categorie, dicui il discorso stesso che andiamo fa-cendo costituisce per gran parte untipico effetto, che hanno sino ad og-gi strutturato le essenziali prestazio-ni delle istituzioni e dei saperi ad es-se costituzionalmente (nel senso am-pio della costituzione come Verfas-sung) connessi, apre, in una gammadi situazioni che va dal politico pereccellenza sino al singolare più sot-to traccia, ad una dimensione dellanostra vicenda nella quale - né cata-strofe delle catastrofi, né idillio delmondo liberato - il nostro sentirci-sa-perci avrà modi che non possiamoche preavvertire che come pertur-bantemente diversi.

La presente tematica costituita del-la diversità che chiede riconoscimentoe omologazione in una estrema en-fasi del principio per eccellenza co-stituzionale della cittadinanza, rap-presenta forse un importante sintomoanticipatore di qualcosa che possia-mo in parte concepire quando ap-punto ci rivolgiamo all’evidenza co-sì per noi difficile da articolare delnostro essere più cose, del nostro ave-re più identità e, soprattutto, del no-stro essere singoli.

Adone Brandalisedocente all’Università di Padova

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Stranieri tra noi

C’è un’incredibile forza di attrazioneche orienta nella piccola propagginedell’Eurasia intensi flussi migratori, ca-

richi di bisogni e speranze, di attesee di rancori, di memorie e di paure. Imuri che la dividevano, crollati, orala aprono, a nuovi orizzonti, e insie-me la espongono: i suoi popoli e lesue storie, i paesaggi interiori e le psi-cologie delle donne e degli uominiche la abitano ne sono scossi. E ven-gono scomposti. Impauriti, piegati innuove-vecchie chiusure, o su tenta-zioni sacrificali. Incapaci di questoconfronto con la diversità nonostantei secoli della cultura dei diritti umanie della tolleranza; nonostante le radi-ci cristiane.

Tutto questo si vive infatti mentre fa-ticosamente è in corso una costru-zione, nuova e urgente - Europa, ap-punto - nel mondo delle interdipen-denze, dei vincoli, delle risorse limi-tate. Della “guerra infinita”. Dove ideboli possono essere (e paiono es-sere) ancor più in balia della violen-za e dell’arbitrio, o dell’indifferenza.

Europa come rocca, a difesa arcigna(inutile?) dei suoi? Europa come cittàforte e ospitale, dei diritti, delle diffe-renze, dei dialoghi; della tutela deideboli e delle vittime?

Noi donne e uomini della costru-zione d’Europa, le nostre generazio-ni, saremo ricordati, e giudicati, dal-la nostra opera. E del nostro legamecon gli antichi miti fondatori del no-stro contraddittorio rapporto con iden-tità e diversità. Quel rapporto inda-gato con cura da Luiz Carlos Susin,pensatore latinoamericano, che ri-costruisce la storia dell’ossessionedell’identità (ricercata come unità etotalità, come l’identico) dell’uomoeuropeo. Insofferente verso la diver-sità, specie se manifestata al suo in-terno: quella delle donne, dei bam-bini, dei “folli”, degli eretici, delleminoranze…

Ridurre a sé le diversità incontratecon viaggi dà a questi, presto, il ca-rattere della conquista, e della civi-lizzazione. Lo straniero, l’altro, il di-

La diversità in un futurodi vicinanze estreme

di Ivo Lizzola

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verso è stato ricercato e visitato neiviaggi della scoperta e della conqui-sta, della curiosità e dello studio, pertrovare conferma di sé, dei propri sa-peri, come da Colombo, o al pari diUlisse che vive il ritorno ad Itaca co-me compiacimento di sé e miscono-scimento dell’altro (così Lévinas in Hu-manisme de l’autre homme).

Ora ci raggiunge, è lo straniero tranoi: e questo cambia tutto. Cambiasentimenti e forme dell’appartenenza,processi di costruzione dell’identità edel riconoscimento, modi e regole del-la cittadinanza, rapporto con la me-moria e la cultura. Tutti in qualche mi-sura sradicati, deterritorializzati comedicono gli antropologi, resi stranieri.

La riflessione attorno all’alterità e al-l’umano che ci è comune, ripresa conforza in questi anni, è una prima ri-sposta a questo scoprire, e insiemescoprirci, stranieri tra noi. Per prova-re a dare, poi, sfondo simbolico e cor-po, tessuto ad una “convivenza tra stra-nieri”, occorrerà, poi, riprendere e ri-scoprire il riferimento alla fraternità.

A diversità fraterne, capaci di sco-prirsi tali. La vera esperienza della di-versità si ha nello scoprirsi diversi ir-revocabilmente, pur se figli della stes-sa madre, dello stesso padre. E nelloscoprirsi nella differenza di genere.

Il grande mito del progresso, dell’u-nificazione del destino del mondo edei popoli della Terra attorno alla ra-zionalità strumentale, al possesso delmondo, al calcolo delle convenienzee al dominio sui destini dei singoli esulle fragilità, doveva piegare l’irridu-cibilità della diversità. Ridurre all’U-no - ricorda Susin - secondo alcunepopolazioni amerindie vittime dellaconquista, era il male, significava farfinire la vita, distruggersi. La dualità,la molteplicità conservavano, invece,fecondità e futuro.

Una diversità che ci attraversa

La diversità è un’esperienza che ci at-traversa. E che sfida il nostro rappor-to con il tempo: il futuro desiderabileper noi e i figli dei figli; il passato del-le consegne e delle speranze dei pa-dri. La diversità è un’esperienza checi attraversa mostrando aperta e mol-teplice la nostra identità, e svelando-la incerta tanto più quanto la voglia-mo chiudere nell’unità, nella com-piutezza d’una tradizione.

La diversità non si dà tanto come in-

contro, a meno che lo intendiamo co-me inedito incontro con sé, e con l’al-terità cui siamo chiamati e che svelail cammino nel mistero.

La diversità è qualcosa che ci attra-versa negli anni in cui non si dà piùa noi solo nella rappresentazione adistanza dei racconti, dei media, odegli studi antropologici, o socio-cul-turali.

Provocando confronto e dibattito, oevocando curiosità ed esotismo. La di-versità altrui, una volta lontana, si èfatta così prossima a noi, nei nostrigiorni, nei nostri tempi di vita. La di-versità nostra entra nelle vite, nellesorti, nei destini degli altri, lontani, vi-cini. Sentiamo la diversità, nostra e al-trui, attraversarci, creandoci inquie-tudini e smarrimenti. Forse solo le bam-bine e i bambini sanno costruire pri-mi paesaggi interiori inediti, aperti,ospitali di diversità precocemente in-contrate, ospitate, visitate. In quel mo-do tutto particolare dei bambini chevanno verso ciò che ignorano non perconoscerlo da fuori, ma lasciandosiformare da esso, un poco lasciandosida esso prendere. Come da qualcosache è dato, che arriva come una sor-presa: il sapere non è un sapere maun affidarsi. I bambini sono capaci diconoscenza immediata, i bambini san-no vedere quello che gli adulti nonsanno vedere, quello che è invisibile.«Non vedono se stessi e, attraverso sestessi, il mondo; vedono il mondo fuo-ri di loro, nella sua identità». I bam-bini rispetto all’adulto hanno il van-taggio di «non dover giustificare la lo-ro esistenza»: il bambino vive e ciòbasta a riempirgli la vita. Nell’espe-rienza della bellezza come in quelladella sofferenza donne e uomini si la-sciano irradiare dal mondo e non sen-tono l’esigenza di appropriarsene. Cuo-

re e mente coincidono, come con gliamanti e per i morenti. La diversità èbellezza che attrae, misteriosa, e sof-ferenza, origine d’ansia e rivelatricedel limite.

Nell’estrema vicinanza

Nell’estrema vicinanza la diversità ciprova: «L’etimologia biblica ci rendeavvertiti - nota il teologo brasilianoLuiz Carlos Susin - vicinanza e malehanno una radice comune, sicché l’a-more del prossimo e l’amore del ne-mico sono in realtà due forme peresprimere il medesimo comanda-mento».

L’estrema vicinanza ci porta chi ci“fa del male” e ci “fa portare del ma-le” in altri. Produce sempre maggiorericerca di sicurezza degli uni controgli altri, fa elevare barriere interiori edesteriori. Insieme orienta a coglierenell’altro prevalentemente il male; ea trarre e tollerare da noi ciò che con-sideravamo male, sopraffazione, in-giustizia.

La diversità che ci attraversa nellaestrema vicinanza è una prova, ob-bliga a fare i conti con ciò che por-tiamo nel cuore, anche con il fondooscuro di timore e di male, di distrut-tività che teniamo in noi. E che av-vertiamo nel vicino.

È una prova dura, chiede un conti-nuo lavoro su di sé, sulla propria in-teriorità, e chiede una continua tra-sformazione dei conflitti. Non basta,nell’estrema vicinanza, il riconosci-mento formale dell’eguaglianza, o ilrichiamo del diritto. Assume impor-tanza centrale il tema della fraternitàoltre che della (e oltre la) cittadinan-za. Ma c’è modo e modo di pensarlae di viverla.

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Luogo della significazione, l’abitarepuò esser questo: la possibilità di tes-sere un’assunzione in cura responsa-bile tra uomini limitati e attivi, porta-tori di energie, idee, attenzioni e sem-pre portatori di un’ombra.

Nell’estrema vicinanza i nomi pro-pri rischiano di sparire. Sono solo ofunzionali o ostacoli all’impresa, alprogetto, al delirio di purificazione.Diventano nomi qualsiasi non più uni-ci. Spariscono anche perché troppovicini e legati in un’avventura, o in undelirio, che non sopporta differenze ericonoscimenti.

La fraternità che si costruisce attor-no al futuro unificato e globale (o aldelirio della purezza) è una fraternitànon di figli ma di eguali, anzi di re-si eguali dalla logica organizzativa,dalla razionalità economica e tec-noscientifica. O dall’implacabile lo-gica fondamentalista. Un conto è es-sere fratelli perché unificati dall’e-sterno, dall’impresa e dalla sua logi-ca, un conto è esser fratelli perché fi-gli, ognuno unico, segnato dalla cu-ra ricevuta, e da una vulnerabilità cheorienta alla reciproca cura. È una fra-ternità strumentale e omologante quel-la che ci vede “funzionali” gli uni aglialtri all’interno di un’impresa; l’uni-cità sparisce. Certo sparisce anche ilconflitto con la fatica della diversitàe del riconoscimento del nome, tut-to è sostituito dal nome unico delmercato, o della spietata divinità. Inomi propri dei fratelli, tutti figli, so-no nomi che segnano invece una do-lorosa diversità, segnano la necessitàdi far spazio all’altro, di riconoscer-lo, di ascoltarlo. L’unicità è, poi, se-gno dell’incompiutezza mentre se-gna anche l’angoscia che è mossa innoi dal mistero insondabile dell’al-tro che ci fa temere di non essere

adeguati nella risposta alla sua pre-senza.

L’evidenza della comune filialità, edel segno della vulnerabilità che ci le-ga, saprà orientarci nella costruzionedi una convivenza centrata sulla curae non sulla forza, sul sostegno dellefragilità e non sull’affermazione di sog-getti che si pensano autosufficienti?

Il mito della torre di Babele, la vi-cenda della pianura di Sennaar ci so-no d’avvertimento (si veda il recentee prezioso libro che ci offre SilvanoPetrosino, Babele. Architettura, filoso-fia e linguaggio di un delirio, Il Me-langolo, 2003).

La città fatta torre che raccoglie gliuomini ad un certo punto si imponesui suoi soggetti, rovina i soggetti chescompaiono nell’impresa e l’uomo fe-rito non viene più preso in cura, anzinon viene più neppure visto. Comenon viene vista la donna che sta par-torendo che, infatti, partorisce in so-litudine. All’uomo ferito, alla donnache partorisce nessuno fa più caso. Ègrande l’attualità di questo testo.

L’unicità di ognuno, e la preziositàdella diversità, abita là dove la vita èferita e sfigurata o non ha ancora as-sunto la figura: là dove è del tutto nel-le mani d’altri come per un piccolod’uomo, del tutto affidato nel palmod’una mano. Lì si riscopre la dignitàumana e il segno dell’essere immagi-ne di un Dio che, creando, si fa daparte. Ma non perché si fa indifferen-te: scende, infatti, a far visita all’abi-tare dell’uomo, umilmente, rispetto-samente attento alla dignità di quelloche l’uomo sta facendo. Non distrug-ge la torre, solo torna a confondere lelingue e a obbligare alla traduzione,obbligare a far rinascere la parola nel-l’incontro responsabile tra gli uominiunici affidati gli uni agli altri.

L’ombra che è in noi

Ecco, su questo uomo ferito e su que-sta donna che partorisce bisogna tor-nare a stendere la vigilanza. Ancheoggi. È una vigilanza difficile per unsoggetto che rischia di essersi rovina-to, in qualche modo dissolto perchéincapace di cogliere la dignità del-l’uomo nel nascere fragilissimo e nel-la ferita.

Luogo della significazione, l’abitarepuò esser questo: la possibilità di tes-sere un’assunzione in cura responsa-bile tra uomini limitati e sempre por-tatori di un’ombra.

Anche la negazione dell’ombra, delpotenziale di violenza insita nell’uo-mo, traspare nel tentativo che rovinanella torre. Solo sapendo di essereportatori anche di un’ombra, di unaviolenza, sempre redenta da altri, maida noi stessi, potremo in qualche mo-do costruire delle forme dell’abitaretra diversi, stranieri, sollecite alla cu-ra reciproca. Queste forme dell’abi-tare diventeranno anche le forme gra-zie alle quali vegliamo su noi stessi.Lasciando che gli uomini feriti e ledonne che partoriscono ci sorvegli-no rispetto al buon uso dei nostri sa-peri, delle nostre intenzioni. Dellenostre costruzioni che, se non ven-gono sorvegliate, si impossessano dinoi.

Il nostro tempo, come mostra unaltro recentissimo e prezioso libro diStefano Tomelleri - La società del ri-sentimento (Melteni, 2004) - è an-che il tempo in cui emerge e si diffon-de una particolarissima preoccupa-zione per le vittime, per gli uominiferiti, per le donne che partoriscono.E forse questo salverà questo tempodei destini consegnati gli uni agli al-tri: la preoccupazione per le vittime,non solo le proprie vittime, ma perquelle lontane, straniere, altre. Con-tro lo scialo di morte del terrorismosuicida, e contro l’anestetizzazionedel male e del dolore provocata dal-la continua rappresentazione indif-ferenziata del dolore e della vio-lenza.

Abitare l’Europa mondo in un nuo-vo inizio, nuova genesi, è costruireistituzioni, relazioni, economie e usodei saperi “tenuti alla veglia dal mi-stero” dell’uomo ferito, della donnapartoriente, del canto, della bellezza.Della tenerezza.

Ivo Lizzola

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La diversità comecostruzione sociale

Il tema delle diversità e della loro ge-stione interessa in maniera sempre

più significativa l’epoca in cui stiamovivendo.

Pensare alle diversità umane e a co-me gestirle significa immaginare il ti-po di società che abbiamo in mente.

Se ancora oggi le città sono in largaparte immaginate e costruite sulla ba-se di standard antropometrici di un“uomo adulto in buone condizioni disalute” significa che la strada da per-correre è ancora lunga.

La normalità dell’occidente produt-tivo riesce ancora a farla da padrona,collocando i bisogni e le possibilitàdelle diversità in un terreno margina-le e residuale.

Uso il termine “immaginare” in mo-do non casuale, credo infatti sia im-portante non dimenticarci che la di-versità è sostanzialmente una costru-zione sociale.

Questo non significa negare l’esi-stenza di “oggettive differenze” fra gliesseri umani.

Ma il cuore della questione sta tut-to nella attribuzione di significato chealle differenze viene attribuito nelgioco delle relazioni sociali di un’e-poca.

Gli studi storici sono molto prezio-si a questo riguardo, perché ci con-sentono di uscire da una presunzionedi esistenza “oggettiva” per accederealla visione più convincente del suoprocesso di costruzione (lenta o velo-ce che sia) “intersoggettivo”.

Un esempio a questo riguardo è iltema delle diversità di età.

La percezione che oggi abbiamo diuna specifica e differente identità deiprimi anni di vita è in realtà il fruttodella costruzione sociale dell’infanziaprodotto dalle società europee dei se-coli scorsi.

Questo non significa che non ci fos-sero oggettivamente “cuccioli d’uo-mo” bisognosi di cure e di accadi-mento. Ma l’arco temporale, il signi-ficato e i rituali connessi alla intera-zione con i bambini erano profonda-

Diversa-menteDiversità umane e azioni sociali

di Ennio Ripamonti

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mente diversi da come oggi siamo abi-tuati a pensarli.

Ma se molte società tradizionali omolti paesi del sud del mondo conti-nuano a riproporci una infanzia di-versa (sia nel bene che nel male) daquella che osserviamo (in genere po-co) nei nostri ambienti, siamo con-temporaneamente impegnati nel la-voro invisibile di destrutturazione e ri-combinazione del significato attribui-to ad altre età della vita.

In questo senso l’Italia, nella sua po-sizione di paese più vecchio del mon-do, appare in particolare investita nellavoro di elaborazione della condi-zione anziana, cioè di quell’arco del-l’età della vita che nel passato era ap-pannaggio esclusivo di una minoran-za di fortunati e che oggi si configuracome un tempo da ripensare profon-damente e sicuramente in modo di-verso da come ci è stato storicamen-te consegnato in eredità.

Ma se la grande conquista dell’al-lungamento straordinario della spe-ranza di vita in molte parti del mon-do ci induce a rivedere il gioco dellediversità lungo l’arco temporale (fra iquali il delicato problema dei rapportiinter-generazionali sempre più densie articolati) è il tumultuoso processodi globalizzazione in cui siamo inse-riti che tende a investire in modo sem-pre più potente il piano delle identitàpersonali oltrechè dei più noti ed evi-denti processi economici.

Identità globalizzate

Da questo punto di vista, come sug-gerisce il sociologo Zygmund Bau-man, la globalizzazione si manifestae agisce attraverso una serie di feno-meni particolari (e per certi versi nuo-vi nell’esperienza umana) quali:

- il flusso continuo e incessante delcambiamento (spesso solo sul pianoretorico);

- l’eccesso, la ridondanza e l’inva-denza delle informazioni (sovente nonadeguatamente contestualizzate);

- la compressione dei tempi e la ve-locità dei processi (su misura delle mac-chine e della produzione automatiz-zata e non della biologia umana);

- la richiesta di flessibilità (il più del-le volte come processo di adagua-mento alle esigenze del sistema, o del-la “megamacchina”, come la chiamain modo efficace l’economista fran-cese Serge Latouche);

- la frammentazione e la ricombina-zione sociale (soprattutto sul piano del-lo sgretolamento delle reti relazionalitradizionali e del tentativo di ricostru-zione di nuove forme di socialità);

- la confusione dei confini tra gli am-biti della vita (in particolare negli sti-li di vita più metropolitani e cosmo-politi).

Come si può immaginare, si tratta diprocessi che possono “impattare” inmodi e forme differenti i diversi sog-getti sociali e i diversi ambiti orga-nizzativi: il singolo soggetto, la fami-glia, le reti di amicizia, l’associazio-nismo, la scuola, il lavoro, la comu-nità locale.

Le stesse “percezioni” che i diversisoggetti esprimono nei confronti diquesti processi mostrano poli di at-teggiamento a volte molto lontani, senon radicalmente contrapposti.

Ho proposto questa riflessione per-ché penso che, oggi, il tema delle di-versità e del loro modo di agire e in-teragire socialmente sia meglio com-preso se riusciamo a collocarlo in unacornice più ampia. Una cornice doveil grado di complessità tende a cre-scere in maniera incessante e rischiadi esporre le persone a una situazio-ne di alta incertezza e persistente sen-so di insicurezza.

È interessante notare come l’incer-tezza del futuro e l’insicurezza del pre-sente siano le risposte più frequentiche i cittadini di molti paesi del mon-do (al sud e al nord, in contesti pove-ri o ricchi) danno nelle principali ri-cerche sulla qualità della vita.

Questo dato mi induce a pensareche è solo a partire dalla consapevo-lezza di questa “trappola comune” cheè possibile riattivare un contatto di-verso fra soggetti differenti (e spessoostili).

Se è infatti indubitabile l’importan-za di battersi contro visioni e propo-ste (politiche, sociali, culturali) chetendono a slittare verso una visione disocietà escludente e discriminatoria,è peraltro ingenuo immaginare di con-trapporvi visioni romantiche e rassi-curanti di accettazione e dialogo.

La storia ci insegna che il processodi confronto fra le diversità (di gene-re, di età, di etnia, di fede politica,ecc.) è spesso aspro e doloroso. Si trat-ta non tanto e non solo di una dolorefisico (violenza) o psicologico (so-praffazione, esclusione) ma soventedi un dolore mentale: cambiare la pro-pria visione di sé, dell’altro e della in-terazione.

Pensare e agire diversamente

Nelle esperienze di lavoro sociale ededucativo che mi trovo a svolgere inmolti progetti finalizzati a far dialo-gare le diversità per costruire nuove edifferenti forme di convivenza mi pa-re di aver intravisto alcune piste pro-mettenti a questo riguardo.

Mi auguro che la messa in comunedi queste tracce possa contribuire adaprire nuovi varchi di pensiero e diazione nei contesti locali dei lettori diMadrugada:

- un approccio curioso: la diversitàha bisogno di essere esplorata primache capita. La curiosità è in questocaso un atteggiamento filosofico diapertura e ricerca più che uno stilerelazionale. Prima di avviare un’a-zione (di sensibilizzazione, forma-zione o intervento) è fondamentaleuna attenta analisi preventiva dellesoggettività esistenti e del loro mododi rappresentarsi come diversi (unacomunità di immigrati, un gruppo mi-noritario);

- una conoscenza ravvicinata: trop-po spesso le “nostre rappresentazio-ni” influenzano il modo in cui guar-diamo gli altri. In questo senso pos-siamo dire che “indossiamo occhialiche non sappiamo di avere”. Gli oc-chiali della nostra cultura, età, gene-re, identità, classe sociale, professio-ne. È quindi cruciale una conoscen-za ravvicinata attraverso il contattocon testimoni significativi in grado difar emergere autorappresentazioni,modalità organizzative, rituali, con-suetudini, abitudini, regole;

- un contatto diretto: se il program-ma su cui stiamo lavorando riguardadiversi gruppi sociali è utile riusciread attivare un rapporto diretto con ileaders di questi gruppi. Il contattocon i leaders consente di essere in-trodotti nel gruppo e di poter attivarein seguito relazioni più dirette e piùsolide;

- stili relazionali efficaci: le modalità

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di relazione devono tenere conto del-le culture di appartenenza, dei ritua-li dell’avvicinamento e di relazione,nonché del gioco di rimandi relativialla stesse caratteristiche culturali eidentitarie degli operatori (genere, età,cultura, ecc.). Anche in questo casosi tratta di “essere preparati” da unaparte ma anche di “usare l’ignoran-za” (sapere di non sapere) fonte di ap-prendimento (facendo domande, di-chiarando che non si sa qual è “il mo-do migliore di”, o l’atteggiamento “piùauspicabile per”). La relazione si co-struisce facendola e osandola. In que-sta quota di rischio sta il vero processointerculturale;

- contesti di partecipazione attiva ediretta. Il lavoro con le diversità è spes-so un lavoro di empowerment, di svi-luppo delle potenzialità. Per questomotivo è necessario dare vita a occa-sioni in cui le minoranze meno in-cluse possano partecipare attivamen-te attraverso la creazione di gruppi odi coalizioni impegnate su problemida loro portati;

- équipe di lavoro differenziata e au-toriflessiva: lavorare con le diversità èuna palestra esistenziale e professio-nale. In questo senso il proprio grup-po (di volontariato, di lavoro, di im-pegno sociale o politico) è un labo-ratorio di elaborazione di una nuovacultura. In questo senso l’équipe è tan-to rivolta all’esterno (con iniziative eazioni locali) che capace di analiz-zare e gestire le complesse dinami-che relazionali interne sollecitate dalcontatto con mondi diversi;

- migliorare le condizioni di vita svi-luppando intercultura: il lavoro conle diversità visto da questo punto divista mira a migliorare le condizionidi vita dei gruppi a cui è rivolto. È cru-ciale, in tal senso, una propensione aricercare forme di progettazione par-tecipata e di problem solving colla-borativi con modalità che consenta-no di coniugare l’attivazione concre-ta di interventi sul campo a favore deisingoli gruppi (di tipo urbanistico, cul-turale, economico, relazionale, espres-sivo e altro) con l’attenzione a svi-luppare forme di collaborazione frale diverse comunità e meccanismi in-terculturali nella risoluzione dei pro-blemi.

Ennio Ripamontipsicosociologo e formatore

docente Università Cattolica, [email protected]

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Diversità, nella lingua italiana, signi-fica quel qualcosa che distingue, cherende unici, che permette di essere ri-conosciuti da segnalazioni immedia-te. La diversità di genere riguarda lagrande divisione dell’umanità in ma-schile e femminile. Solo dentro que-sti due grandi universi possiamo col-locare la presenza di donne e uomi-ni. Il maschile e il femminile hannodiversi modi e diversi simboli per ma-nifestarsi. Ogni cultura ne ha un va-sto catalogo che sarebbe interessan-te comparare: pensiamo alle espres-sioni di appartenenza alla terra, ele-mento tipicamente legato alla creati-vità femminile, oppure al fuoco, ele-mento a sua volta tipicamente ma-schile, lo Ying e lo Yang delle tradi-zioni orientali, il Sole e la Luna e co-sì via.

I territori del maschilee del femminile

Fra i tanti approcci al maschile e alfemminile, mi sembra interessante ri-prendere l’esperienza della psicana-lisi e dell’antropologia, spesso scien-ze umane confinanti, che attraversoricerche e comparazioni hanno evi-denziato almeno due aspetti impor-tanti per il nostro dibattito.

Il primo fatto è che essere donna ouomo non è solo un fatto genetico, le-gato alla differenza sessuale, anche sequesta incide sull’evoluzione storica.Non è infatti indifferente che la don-na, generatrice di vita, abbia bisognodi riguardo nel periodo della gravi-danza, di essere “protetta” mentre con-tribuisce a incrementare la catena ge-nerazionale. Né è indifferente che l’uo-mo si sia dedicato alla caccia per re-cuperare risorse nutritive per sé e laprole che la donna riproduceva. Tut-tavia, non si tratta solo di questo.

Psicanalisti e antropologi, o meglio,soprattutto psicanaliste e antropolo-

Diversità di genere:il femminileInabissarsi per risorgere

di Bruna Peyrot

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ghe attente alla diversità di genere,hanno evidenziato come il maschilee il femminile siano appartenenti al-la persona, siano dimensioni dell’i-dentità e del pensare umano. Ancorapiù nello specifico, si può dire chenon si è in presenza di un territorioseparato di competenze spettanti oraal pensiero femminile ora a quellomaschile, oppure una spartizione deicontenuti psichici in cui, secondo lostereotipo classico, pensiero e spiritosiano preponderanti nell’uomo e pul-sioni, emozioni e sentimento nelladonna.

I complessi archetipi maschile e fem-minile, in altre parole, non si sparti-scono a metà i contenuti dell’attivitàpsichica, ma sono davvero due modidifferenti di pensare e di “sentire” larealtà interiore ed esterna. La culturaoccidentale, e la quasi totalità delleculture del pianeta, ha però innestatosu queste due dimensioni un sistemadi valore-disvalore che ha emargina-to il femminile nell’oscuro e ha fattosì che ciò che vive nella coscienza del-la donna sia stato relegato nell’in-conscio dell’uomo e viceversa. Peresempio mentre si parla comunemente

dei sentimenti delle donne e le don-ne stesse elaborano questa loro di-mensione di ricettività profonda cheinvestiga le relazioni interpersonali,non esiste un corrispettivo al maschi-le che resta legato invece a interpre-tare, per esempio, l’attaccamento al-la professione, le capacità progettua-li, le abilità tecniche ecc.

Non si tratta tuttavia, in questo con-testo, a nostro avviso, di dimostrare“anche” la razionalità del pensierofemminile, quanto piuttosto di riven-dicarne l’ugual valore in una differentelogica.

Due modi di pensare e di sentire

La cultura occidentale ha valorizzato,come si sa, soltanto il territorio ma-schile basato sul logos che è ragione,conoscenza e sapere allo stesso tem-po che impone un pensare logico-de-duttivo: da questo consegue quello,prima di questo c’era quello, premes-so questo succede di conseguenzaquest’altro. Procedendo, il logos se-para la realtà in parti, potremmo dire,sempre più piccole e specializzate la-

sciando indietro la musica di altre pos-sibili composizioni, basate per esem-pio sull’analogia o la contemporaneità,un po’ come nei sogni in cui tutto èpossibile.

Il pensiero femminile invece non sisofferma troppo sui particolari per de-scriverli. Semmai essi diventano trac-ce e rimandi verso qualcos’altro: unsistema di relazioni che cresce a spi-rale e nel suo vortice riassorbe l’og-getto da conoscere. Il pensiero fem-minile «non separa ma unisce e quin-di non cataloga ma crea analogie; nonè veloce né sempre preciso perché èattento alle variabili del percorso men-tale e sembra quindi disordinato e di-stratto, ma può arrivare a grandiprofondità proprio perché è pazientee non cerca le scorciatoie verso l’o-biettivo, ma si addentra in meandrispesso oscuri dove pensieri, idee, ri-cordi e suggestioni si intrecciano finoa tornare alla luce con un nuovo sa-pere. Si tratta di un processo mentaleche procede attraverso il tenere insie-me invece che attraverso il separare»(Marina Valcarenghi, L’aggressività fem-minile, Milano, Bruno Mondadori,2003, p. 12).

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Il pensiero femminile, in ultima ana-lisi, prende con (in) sé e poi trasfor-ma dal di dentro, nel buio di se stes-se e poi restituisce alla luce propriocome un vero parto. Se il Sole, acce-cando, scandaglia ogni angolo, la Lu-na, restituisce, con le ombre, contor-ni sfumati e diffusi. Se il Sole, comeuna lente o un laser, colpisce la “co-sa” da sapere, la Luna la “prende” nelsuo languore bianco e se ne lasciapervadere.

Entrambi i tipi di pensiero, maschi-le e femminile, sono necessari l’unoall’altro. Sono complementari e si pos-sono perdere l’uno senza l’altro. Se ilmaschile basta a se stesso, si inaridi-sce in astruse questioni logiche, spes-so avulse dalla realtà. Se il femminilebasta a se stesso, può avvilupparsi inun cerchio-specchio senza fine.

All’origine dell’emarginazionefemminile

Molte domande sorgono a questo pun-to: constatata la differenza dei modidi pensare maschile e femminile, chesi fa? Si opera in vista della loro in-terdipendenza, e come? Del loro in-contro intersoggettivo, e come? Delloro reciproco dialogare e mescolar-si, e come? Dietro ognuna di questedomande possiamo immaginare, e rea-lizzare, un percorso. Ma dietro anco-ra a questo slancio nel futuro, dob-biamo porci un’ultima questione perandare alla radice del problema: per-ché è avvenuto che il pensiero fem-minile, proprio ad almeno alla metàdell’umanità, è stato relegato al non-pensiero?

Parlare della subalternità storica del-le donne significa affrontare l’originedella vita stessa, così come è narratanei grandi libri della Sapienza antica:la Bibbia, il Corano, i miti greci, laBhagavadgíta… In ognuno di essi siconsegna alla memoria dell’umanitàun’immagine che interpreta la rela-zione fra uomo e donna, o meglio, frail maschile e il femminile, di cui l’es-sere uomo o donna sono la coniuga-zione - non l’unica - principale. Seesaminiamo i personaggi femminilidei miti greci (Jean Shinoda Bolen,Las diosas de cada mujer. Una nuevapsicología femenina, Barcelona,Kairós,1993), ognuno dei quali inter-preta un possibile stato della femmi-nilità, oppure la storia di Inanna chediscese nel regno dei morti fino a far-

si annullare per soccorrere il doloredella sorella per la perdita del com-pagno, o ancora il rimbalzo femmi-nile fra Lilith, prima donna creata daDio, ed Eva, la donna gradita ad Ada-mo, vediamo che tutte queste figurefemminili sembrano accettare unasconfitta prima di tornare in vita, silasciano, in qualche modo, ridurre alsilenzio.

Esse poi si ritrovano nella stessa sto-ria dell’umanità, un percorso che ve-de costantemente emarginare la loropassione in movimenti di donne con-crete, come le sacerdotesse che am-ministravano antichi riti dell’area me-diterranea, dalle profetesse alle bac-canti, in cui l’istintualità, l’eccesso, laforza femminile apparivano tutti in-sieme in periodi precisi dell’anno, co-me se fosse necessario circoscriverein modo precisissimo lo spazio perquesta eversione del femminile.

Sembra che questi antichi riti cosìcome i mitologemi di Inanna, Eva, Li-lith e le dee greche, rimandino a unatavico e rimosso scontro fra uominie donne - maschile e femminile? - ol-tre la memoria storica collettiva pos-sibile, alla fine del quale, con il con-senso delle stesse donne, perché al-trimenti non si spiegherebbe la profon-da interiorizzazione del “bisogno” dicedere alla sottomissione del maschi-le (come tanta letteratura psicanaliti-ca documenta) o meglio, al conside-rarlo così scontatamente naturale pertanti secoli, alla fine di quello scon-tro, dicevamo, si è imposta l’egemo-nia maschile. Forse per catastrofi na-turali, forse per garantire la sopravvi-venza della specie, forse per chissàquali altre ragioni, le donne hanno ac-cettato, come Inanna o come Deme-tra di inabissarsi per risorgere.

Su questo, diciamo così, possibilemitico scontro, si è innescato poi unprocesso storico di emarginazione pe-riodica nella storia umana di tutto ciòche poteva offrire autonomia alle per-sone, uomini e donne, e che in mo-do particolare le donne incarnavano:forme di medicina alternativa e auto-gestione spirituale, fisica e politicache compromettevano il potere ma-schile di re e papi. Secondo GiorgioGalli questo sacrificio delle poten-zialità femminili, dall’antica Greciaalla caccia alle streghe, dai misteri or-fici alla nascita dello stato moderno,si è reso necessario per conservare ipoteri istituzionali (Giorgio Galli, Oc-cidente misterioso, Milano, Rizzoli,1987), compresa la stessa nascita del-la democrazia greca che per funzio-nare doveva “dimenticare” la som-mossa femminile delle origini e per-tanto doveva essere confinata al mon-do mitico. Quello della storia potevaaccogliere solo le gesta degli eroi ma-schili.

Bruna Peyrot

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Bruna PeyrotLa democrazia

nel Brasile di LulaTarso Genro:

da esiliato a ministroCittà Aperta, Macondo Libri,

2004, pp.308, Eur 16,50

Se Lula, sindacalista ed espo-nente di un cattolicesimo ba-sato sulla liberazione globaledella persona, è il simbolo delpercorso democratico del Bra-sile, Tarso Genro ne è l’instan-cabile teorico.

Esiliato in Uruguay durante ladittatura militare, sindaco di Por-to Alegre negli anni Novanta,Genro è attualmente ministrodell’Educazione e del Consigliodello sviluppo economico e so-ciale, che ha il compito di ri-scrivere la legislazione costitu-zionale brasiliana sulla base diun nuovo Patto tra le forze atti-ve della società.

La sua biografia ha il poteredi rivelare lo spirito di un’epo-ca con i suoi conflitti profondie i suoi valori.

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Nei mesi trascorsi si è celebrata, unpo’ in sordina, una particolare ricor-renza: la consacrazione della basilicadi San Francesco in Assisi. I giornaline hanno parlato. Contemporanea-mente si ricordava anche - ma nessu-

no se ne è occupato - il 750° anniver-sario della morte di frate Elia, amicodi Francesco e primo ministro genera-le dell’ordine francescano, che dellabasilica di Assisi, assieme al Papa Gre-gorio IX, fu il principale artefice.

Una figura controversa

Elia è una figura tra le più controver-se del primo francescanesimo. Di luise ne sono dette di tutti i colori. Sologli studi più recenti lo hanno in granparte riabilitato. Secondo la cronacapartigiana di Salimbene De Adam, lostesso san Francesco lo avrebbe tac-ciato di «bastardo dell’ordine». Ma ciònon è credibile. In realtà, Elia fu unapersona d’intelligenza acuta, la qualecomprese che, come spesso avvieneper le grandi avventure dello spirito,l’ideale di san Francesco per soprav-vivere doveva essere, in qualche mo-do, tradito. Come ha messo in evidenzaBonder in un suo saggio molto stimo-lante, esistono fedeltà che si rivelanoperverse e, all’opposto, tradimenti chenascono da un grande lealtà. A questiultimi appartiene il tradimento di fra-te Elia. I suoi tempi furono ingiusti ver-so di lui: venne destituito d’autoritàdalla carica di ministro generale conl’accusa di cupidigia nella raccolta deldenaro necessario per l’opera gran-diosa che aveva intrapresa; venne espul-so dall’ordine per complicità con Fe-derico II nella lotta contro il Pontefi-ce; venne denigrato in modo infamantedalla corrente integralista del suo or-dine per aver dato spazio a personeindegne a discapito degli osservanti.Nella realtà, con il grandioso proget-to della basilica di Assisi, egli intesefare risplendere, attraverso l’arte, il mes-saggio francescano, favorendone unalettura che si imporrà fino ai giorni no-stri. D’altronde, anche su sollecitazio-ne di Ugolino da Ostia (il futuro Gre-gorio IX), egli si adoperò per spingere

Frate Elia: elogio del tradimento

di Mario Bertin

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Francesco riluttante a scrivere una re-gola che garantisse l’identità e la con-tinuità della comunità di uomini riu-nitasi attorno a lui. Rispetto a Federi-co II, non si trattò di uno schieramen-to a fianco degli Hohenstaufen, ma diun tentativo illuminato di mediazionetra il potere imperiale e quello ponti-ficio. Infine, lungi dall’annacquare ilmessaggio di Francesco, si oppose al-la clericalizzazione dell’ordine na-scente e alla mitigazione delle normesulla povertà, tanto che, anche dopoil suo allontanamento, rimase un pun-to di riferimento vitale per Chiara.

Francesco e il suo tempo

Insomma, frate Elia aveva compresoche Francesco, al di là del modo incui egli porgeva il suo messaggio, rias-sumeva lo sforzo collettivo dell’inte-ra sua epoca e ne rappresentava la co-scienza più alta. Questa fu la sua ve-ra genialità e grandezza, che non sa-rebbero morte con lui.

Elia aveva capito che Francesco co-stituiva il culmine e l’interprete di unpossente movimento che, lungi dal li-mitarsi all’ambito religioso, si espan-deva potentemente nel mondo dellacultura, della trasformazione degliequilibri politici, di una nuova orga-nizzazione sociale e che era impossi-bile che a questi aspetti Francesco re-stasse estraneo. Forse era quello cheGiuda, ad un altro e più importantelivello, aveva intravisto in Gesù e nelsuo messaggio. Elia è riuscito doveGiuda ha fallito, di dare consistenzastorica a un messaggio spirituale.

Che cosa è stato davvero Francescoper il suo tempo? È successo questo:il giovane Francesco dà vita ad un mo-vimento che prende avvio dai poveri,dai deboli, dagli esclusi e rivendicaper essi uno spazio nella Chiesa finoad allora inesistente. Prima di Fran-cesco nei confronti dei poveri la Chie-sa aveva esercitato la benevolentia, lacarità e l’assistenza, contribuendo aconfinarli stabilmente nella loro con-dizione di poveri e di esclusi. France-sco invece scrive nella Regola che isuoi frati non sono chiamati a fare nul-la di particolare per questa gente, maad «essere lieti di stare tra persone dipoco conto e disprezzate, tra poverie deboli, tra infermi e lebbrosi e tramendicanti lungo la strada». Appro-vando il modo di vita di Francesco edei suoi seguaci, Innocenzo III recu-

pererà alla Chiesa una realtà popola-re che le era originariamente ostile.Fu questa una decisione dalle conse-guenze incalcolabili perché diede al-la Chiesa l’opportunità di recuperarela sua dimensione popolare che ave-va da molto tempo perduto.

Ma poiché potere spirituale e pote-re temporale erano allora tanto fusiche un colpo inferto ad uno non po-teva non ripercuotersi sull’altro, il fran-cescanesimo finì per favorire anche ilmoto di emancipazione popolare dalpotere imperiale e il nascere e il con-solidarsi dei comuni. Del resto, biso-gna ricordare che Francesco, primadella sua conversione religiosa, preseparte attiva alla lotta contro i rappre-sentanti imperiali e l’aristocrazia.

Elia capì qual era l’incrocio in cui siinsediava l’avventura del suo amicoFrancesco, alla quale aveva aderito findagli inizi, e cercò di farla diventare ciòche intrinsecamente era: una cultura euna politica. Francesco è stato un uo-mo di sentimento, in cui dominava lapassione e la logica del cuore. Elia si èsforzato di razionalizzare questa intui-zione per garantirle il futuro. Egli ama-va profondamente Francesco e la suaidea. Il primo storico francescano, Tom-maso da Celano, scrive di lui: «Fu unamadre per Francesco e un padre per glialtri frati», ma dice contemporanea-mente che era molto considerato sia dalPapa che dall’imperatore.

Francesco, Elia e l’Umanesimo

Fu un vero genio. Ma come potevanon tradire Francesco? Come può, in-fatti, una regola farsi pienamente ca-rico della passione del cuore?

Secondo Thode, il francescanesimorappresentò l’inizio di un «movimen-to del senso dell’umanità», cioè di unnuovo umanesimo che portava alla ri-balta l’individuo e ne affermava il pri-mato. Le prime espressioni di questonuovo umanesimo sono state, nell’ar-te, Nicola Pisano, Giotto e Petrarca.Con il francescanesimo entra nell’ar-te la natura, lo studio della realtà equindi una nuova forma di bellezza,un nuovo modo di sentire, che ab-bandona definitivamente la lontanaieraticità dell’arte precedente. Il Cro-cifisso di San Damiano, che parlò alcuore tormentato del giovane France-sco, è un Cristo vivo, che ha gli occhiaperti. Una delle prime rappresenta-zioni del Crocifisso come Cristo mor-

to è quello di Cimabue nella basilicasuperiore di Assisi. In mezzo c’è tuttala storia del Poverello.

Elia è, tra i compagni di Francesco,quello che capì con maggiore luciditàle implicazioni delle sue scelte spiri-tuali e che seppe collocarle dentro lemovimentate dinamiche del tempo, ri-vendicando per esse lo spazio che lo-ro spettava, sia nella Chiesa che nellasocietà civile e politica. Egli compre-se bene che Francesco era l’interpretee il portavoce non solo di un’intuizio-ne religiosa, ma di un’idea generale ene trasse le logiche conseguenze.

In questo non è stato capito e perquesto è stato accusato di tradimen-to. Egli superò l’illusione di Francescoche una vita ancorata alla sua visioneradicale e alla sua passione potessediventare una esperienza comune diun grande gruppo di seguaci.

Elia si fece carico di questa aspira-zione di Francesco e la rese concre-tamente attuabile nell’unica manierapossibile: codificandola.

Uno dei passaggi di questo proces-so è stata la mitizzazione del fonda-tore (c’è addirittura chi sostiene chele stimmate siano state un’invenzionedi frate Elia per accreditare l’immagi-ne di Francesco come «alter Christus»)e la costruzione della grande basilicaassisiana, che costituisce un’immagi-ne plastica della dialettica e delle con-traddizioni dell’ordine francescano edi queste un magnifico monumento.È lo splendore della povertà, la stu-penda espressione dell’arte sgorgatadal francescanesimo, dove si fondo-no in un’unica idea armonica religio-ne e natura, ispirazione colta e narra-zione popolare. In fondo, la basilicadi Assisi è il Cantico di frate Sole ri-scritto con la pietra e con i colori.

Nel 1230, le spoglie di Francesco,canonizzato due anni prima, venne-ro trasportate nella basilica inferiore,terminata a tempo di record. La basi-lica diventò così, secondo la feliceespressione di Ozanam, la tomba delPoverello e la culla del Rinascimen-to. Basti pensare ai cicli pittorici diGiotto, di Simone Martini, di Cima-bue, che essa accoglie.

Ciò è stato reso possibile dall’unio-ne inscindibile di tradimento e di fe-deltà di frate Elia, dal genio di coluiche ha saputo pagare il prezzo ama-ro della trasgressione per rimanere fe-dele all’amico.

Mario Bertin

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Chi sono i nemici?

Nella storia del pensiero politico-giu-ridico la domanda con la quale si aprequesta breve riflessione ha ricevutodiverse risposte, ma non può non ri-conoscersi che, in proposito, una del-le tesi tradizionalmente più significa-tive ha trovato una sua coerente e com-pleta espressione con l’opera di CarlSchmitt (1888-1985).

L’importanza dei risultati cui giungeil pensiero del noto costituzionalistatedesco è presto dimostrata, poiché inesso si individuano le ragioni di uncriterio interpretativo universale pro-prio nella contrapposizione amico/ne-mico.

Il nemico non è l’avversario privato;il nemico non può essere tale se nonè “pubblico”; il nemico costituisce l’i-dentità collettiva contrapposta; il ne-mico, in definitiva, non è altro che lapossibilità reale di un gruppo politi-camente ostile, che concettualmenteidentifica e fonda la pluralità delle co-munità politiche e degli Stati, e che,conseguentemente, spiega l’incom-benza della guerra e delle decisioni(politiche appunto) nelle quali gli Sta-ti si riconoscono e per le quali essiagiscono (C. Schmitt, Il concetto di“politico”, 1932, in Id., Le categoriedel “politico”, Bologna, 1972, 101 ss.).

In tal modo, quindi, la distinzionetra amico e nemico assume un valo-re tutt’altro che semplicisticamente in-genuo o puramente didascalico: ognicomunità politica, in sé e per sé riu-nita in un legame storicamente terri-toriale di vicinanza e di condivisione(amicizia), tende inevitabilmente ascontrarsi con le altre comunità poli-tiche, legittimando in questo senso sial’esistenza e l’inevitabilità dei conflit-ti tra gli Stati, sia la fallibilità e l’ipo-crisia di qualsiasi sistema di governointernazionale.

Non è difficile, a questo punto, con-statare che un’interpretazione del ge-

nere se da un lato poteva rappresen-tare, nel periodo in cui è stata formu-lata, una sicura profezia di ciò che sa-rebbe accaduto con il secondo con-flitto mondiale, dall’altro può ancoroggi riproporsi quale motivo di rifles-sione circa la difficoltà, sempre pre-sente e, potremmo dire, strutturalmenteimmanente, di contenere (se non dievitare) lo scoppio e la diffusione diguerre e di contrasti politici interna-zionali.

Ma ciò che è a dir poco sorprendenteè il fatto che una simile considerazio-ne possa comunque ribadirsi anche inun’epoca, come quella presente, nel-la quale da più parti si elabora il de-clino ormai conclamato dello “Stato”e dei suoi presupposti strutturali a fa-vore di uno spazio economico, giuri-dico e sociale ben più vasto e univer-sale (globale), e in quanto tale asseri-tamente libero da condizionamentiterritoriali o da declinazioni organiz-zative e funzionali che all’esistenza diquei confini sono inscindibilmente le-gate. Ed è ancor più sorprendente chela logica del dualismo amico/nemicosia quasi testualmente ripresa e ac-cettata proprio nel momento in cui siriafferma che alcuni diritti, universal-mente definiti come inviolabili, com-petono non solo a coloro che sonoestranei alla comunità che li ricono-sce quali “fondamentali” e costitutividella propria esistenza storica oltre chepolitico-giuridica, ma anche a chi, per-seguendo finalità di lotta terroristica,si sia appunto “contrapposto” a quel-la medesima comunità e ai valori chein essa sono condivisi, ivi compresiquelli “fondamentali”.

I nemici sono…

Quest’ultima osservazione merita unabreve spiegazione.

Com’è noto, e alla vicenda hannodato ampio riscontro tutti i giornali

I “nemici” e la scommessa dell’amiciziaIl caso Guantanamo

di Fulvio Cortese

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quotidiani, la Corte Suprema degli Sta-ti Uniti d’America ha pronunciato, il28 giugno 2004, tre importanti sen-tenze, con le quali è stato definito ilregime e lo status giuridico degli“enemy combatants”, ossia di alcuni“nemici combattenti” catturati nel-l’ambito delle politiche anti-terrori-smo attuate dall’amministrazione Bu-sh dopo i tragici eventi dell’11 set-tembre 2001 e da tempo trattenuti pres-so basi militari statunitensi senza chefosse loro permesso l’esercizio dei piùbasilari diritti processuali, quali la pos-sibilità di ricorrere all’autorità giudi-ziaria ordinaria o, ancor prima, di con-testare le imputazioni sommarie emes-se a proprio carico.

La vicenda, come si è detto, è assaiconosciuta, soprattutto per la circo-stanza che una delle pronunce in que-stione concerne la grave posizione,più volte denunciata anche dalle piùimportanti organizzazioni umanitarie,di alcuni prigionieri, non statunitensi,detenuti presso la base navale di Guan-tanamo (cause riunite Rasul et al. v.Bush, e Al Odah et al. v. United Sta-tes); le altre due, invece, riguardano icasi di due cittadini statunitensi, ac-comunati al regime degli altri detenutiin quanto anch’essi qualificati come“enemy combatants” (cause Hamdi etal. v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla;tutte le sentenze possono essere age-volmente reperite al sito www.supre-mecourtus.gov).

La Corte Suprema, espressamenteinvestita della questione relativa allalegittimità di un trattamento così du-ro, ha effettivamente sancito che co-munque, e indipendentemente, quin-di, dalla loro condizione di “combat-tenti nemici”, sia gli stranieri cattura-ti all’estero (e detenuti a Guantana-mo) sia i cittadini americani possonoadire i tribunali ordinari degli StatiUniti per contestare i propri capi d’im-putazione o la legalità della propriacondizione e del regime carcerario cuisono sottoposti. A ragione, quindi, siè unanimemente sottolineato che conciò sono stati riaffermati alcuni deiprincipi irrinunciabili dell’intero co-stituzionalismo, e che lo “stato di di-ritto” e le sue primarie garanzie indi-viduali costituiscono ancora un in-sopprimibile limite anche per le poli-tiche che fondino i motivi della pro-pria azione sulla necessità di fronteg-giare uno “stato d’emergenza” idoneoa minare le basi stesse della comunitàe della sua sicurezza.

Tuttavia, ciò che la Corte non riget-ta è la qualificazione di “combatten-ti nemici” e la connessa possibilità cheil governo statunitense definisca l’am-piezza dello “stato d’emergenza” e,con essa, la condizione di coloro che,pur titolari di libertà fondamentali sulpiano squisitamente processuale, pos-sono comunque essere soggetti a re-strizioni profonde del proprio status.

I primi commenti hanno messo inluce proprio quest’aspetto, ricordan-do che, nonostante la formale e im-portante riaffermazione dello “stato didiritto”, le pronunce in questione aval-lano l’idea che gli Stati più forti e, inessi, i “portatori del diritto” evitino ilricorso alle categorie universalmenteaccettate del conflitto bellico e defi-niscano direttamente (e indefinita-mente) uno “stato d’emergenza” chea quelle categorie si sottrae pur rima-nendo compatibile con gli altri valorifondanti dello stato liberaldemocrati-co (cfr. S. Santoli, U.S.A.: Eppur (r)esi-stono. Habeas corpus, due process oflaw, checks and balances. In marginealle sentenze della Corte Suprema del28/6/2004, reperibile al sito www.fo-rumcostituzionale.it). L’assimilazionedi tali sviluppi a quelli preconizzatida Carl Schmitt è immediata: «chi èsuperiore vedrà nella propria supe-riorità sul piano delle armi una provadella sua justa causa e dichiarerà il ne-mico criminale» (così in Il Nomos del-la Terra, Milano, 1991, 430, ripresoanche da S. Santoli, op. cit.).

La scommessa dell’amicizia

Ci si può sottrarre, in qualche modo,alle contraddizioni di un sistema che,pur nella sua dichiarata evoluzioneglobale, non riesce a svincolarsi dal-le tipiche forme del conflitto ami-co/nemico?

L’enigma sembra inestricabile ed èsingolare notare, ad esempio, comel’inevitabilità dell’approccio conflit-tuale abbia storicamente contraddi-stinto e alimentato l’affermazione stes-sa dei principi di libertà, di ugua-glianza e di fraternità quali aspetti co-muni di un’identità politico-costitu-zionale.

Essa, non riconoscendosi più nel fat-to di essere tale in quanto soggetta aduna comune autorità “assoluta”, ha ri-trovato le ragioni della propria coe-sione nella solidarietà e nell’amiciziadei “cittadini”, che in tanto sono tito-lari sovrani del potere di produrre tut-to il diritto della “nazione” cui ap-partengono in quanto si contrappon-gano ai “nemici” della solidarietà edell’amicizia che li unisce. Quindi, seanche l’identità delle esperienze po-litiche che hanno fatto dell’universa-lismo e dell’amicizia il proprio ves-sillo soffre di quest’intima e geneticacontraddizione, come è possibile af-francarsi dalla necessità di una co-stante dinamica aggressiva?

Nei suoi celebri Pensieri, al n. 303,Pascal riporta un brevissimo dialogotra due individui, nel quale si rappre-senta, in buona sostanza, la situazio-ne di amicizia/inimicizia teorizzata daSchmitt.

La prima voce chiede alla seconda:«Perché mi uccidete, profittando del-la vostra superiorità? Io non sono ar-mato». La seconda risponde: «Come!Non abitate sull’altra riva del fiume?Amico mio, se abitaste da questa par-te, sarei un assassino, e sarebbe in-giusto uccidervi in questo modo; ma,poiché abitate sull’altra riva, sono unvaloroso, e quel che faccio è giusto».Al passo n. 305, di poco successivo,Pascal commenta: «Abita di là dal fiu-me».

Ora, in questa sede piace ipotizzareche questo commento suoni quale im-perativo, quale invito ad abitare al dilà, poiché soltanto immedesimandosinelle ragioni esistenziali e nelle con-dizioni reali del potenziale nemico èpossibile evitare la conclusione tragi-ca del confronto. «Almeno questa è lacondizione necessaria, anche se nonancora sufficiente, per praticare quel-la philia erotiké che il mondo greco ciaveva indicato e che ancora può ri-trovarsi nella scommessa della “ami-cizia per l’umanità”» (E. Resta, Il dirit-to fraterno, Roma-Bari, 2002, 47).

Fulvio Cortese

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Agitare prima dell’uso

Non era roba da intendere ma da ado-perare, roba già fatta. C’era nel cine-ma, nelle canzoni, nelle cronache spor-

tive dei giornali, nei programmi da ri-dere alla radio: non forniva idee allagente, né serviva a mutare gli animi ola vita: anzi, forniva oggetti confezio-nati, delle macchinette culturali su cui

Sono forse scomparsi i maestri?Quando l’allievo è pronto

di Giovanni Realdi

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la gente si divertiva a pedalare.Meneghello, con i suoi Fiori Italia-

ni, è un’ottima compagnia estiva: maiimmediato, racconta le cose che ilcuore comprende quando cerca la te-sta, cose della sua vita, ma dai trattiriconoscibili. In queste righe non par-la di questo nostro ultimo decennio,ma degli anni in fiore del Regime.

L’architettura fascista del Liviano sipiega sulla piazza, paziente ospita suipropri muri tentativi politici d’oppostosegno, rossi di vernice. La serata di lu-glio non dà spazio al respiro: l’aria èquella umida di Padova e le foglie nonaccennano a movimenti. Le birre nonmancano e i tavolini sono assediati.

Andrea mi guarda con gli occhi pic-coli, furbi dietro agli occhiali: siamodistratti dal rotondo passeggiare fem-minile, ma il discorso si fa serio. «Èquesto il terzo studio di commercia-lista che cambio: nel primo le cosenon erano male, ma ero io a non sa-pere cosa volere». Il secondo è stataun’esperienza penosa: un cattoliconesotutomì impermeabile alla chiarez-za e buono a tenersi in equilibrio tragli intrallazzi di un certo furbo noprofite gli ambienti giusti. «Ora invece so-no lì per imparare: i miei colleghi svol-gono bene il proprio lavoro, andandofino in fondo alle questioni, prenden-do il telefono per contattare il clien-te, senza delegare alla segretaria. Pos-so chiedere spiegazioni, posso farmispiegare, posso rischiare sapendo dinon esser solo».

Mi vengono in mente altri amici, im-pelagati anche loro nella pratica dacommercialista o in uno studio lega-le: ambienti probabilmente rinomati,con un vertiginoso giro di clienti, maaridi di provocazioni intellettuali, dicomunicazione didattica, di attenzio-ni per il bocia di bottega, relegato alruolo di impiegato-con-laurea. «Pos-so riconoscere in questa persona unmaestro?» mi chiede Cristiano, scon-solato.

Piccoli maestri

Un maestro. La richiesta non è: date-mi un guru! Fatemi conoscere un uo-mo saggio, capace di insegnarmi co-me affrontare la vita, uno stilita sapienteche mi suggerisca il tetrafarmaco del-la serenità... Niente di tutto questo.

Ripenso ai miei pomeriggi nelle au-le della Facoltà di Lettere e Filosofia.Ripenso al lento inesorabile procede-

re dialettico del mio docente di teo-retica: la compostezza fisica impec-cabile, la figura esteriormente grigia,l’incedere regolare sui fogli ciclosti-lati, l’assenza di qualsiasi concessio-ne all’estetica dell’intellettuale, unasemplicità immobile, monastica, sti-rata fin quasi alla noia. E insieme l’e-splosione fragorosa del pensiero, acro-bazie filosofiche e letterarie sul filocolorato della teoresi più rigorosa, l’ar-cata variopinta in cui ospitare e fardialogare Heidegger, Platone e Schel-ling, un coro polifonico di idee in mo-vimento, un sentire sulla pelle che leparole - ogni singola parola - sonoquestione di vita o di morte.

Tragici e esaltati, ci abbandonavamoesangui sulle panche dell’atrio, pienizeppi di meraviglia. E ci davamo il per-messo di commenti, glosse, apertureverso altri autori, piccoli carpiati men-tali, insieme o da soli, poi, sui testi: si-no alla fatidica frase con cui il profes-sore concludeva l’esame orale, «perme può bastare». Ma avremmo chiac-chierato con lui fino alla nausea.

Il barbone Cagliostro

L’alchimia dell’apprendimento avreb-be bisogno di ben altre pagine. Michiedo però che cosa si muoveva nelmio sguardo, in quelle lezioni di me-tafisica, che cosa è passato, filtrato dal-l’esperienza, e mi rimane tra le maniquando cerco di fare l’insegnante ascuola. C’è qualcosa di vivo in tuttoquesto, che non arriva a essere nomi-nato: l’irrazionale magnetismo di chiriesce a metter in moto idee nuove. Enello stesso tempo chi avverte l’esi-genza forte di imparare, di essere di-scepolo, si muove con disagio nell’a-ria pesante creata da chi, pur aven-done la posizione e la responsabilità,non riesce a insegnare nulla.

Penso agli amici avvocati, ma anchea come forse si stanno trovando Annae Fede, specializzandi nelle corsie del-l’Ospedale di Padova; Michele, Gio-vanni, parroci per la prima volta; Da-vide e Luca, dottorandi sparsi nelleuniversità italiane; Mattia, alle primearmi in uno studio di architettura; Lu-ca, gettato dall’aura geometrica del

greco al continuo compromesso li-quido del sindacato.

Potremmo risolvere la questione infretta: è questione di fortuna. Ma misembra troppo facile.

Ero in piazza del Duomo, a Padova.Avevo la custodia della chitarra sullaspalla e mi accingevo a entrare in chie-sa. Appoggiato al mattone della fac-ciata mai terminata un uomo mi os-serva: «Tu, sei un musicista cattolico?»mi chiede. Chi mi accompagna s’af-fretta a sparire in chiesa: la barba lun-ga, le sopracciglia incolte, i vestiti sco-loriti e rattoppati della persona che miha rivolto la domanda sconsigliano diintrattenersi troppo. È un barbone. Maio mi fermo: la questione è per lo me-no curiosa.

«Anch’io sono un musicista» mi di-ce, ma il discorso lo porta oltre: «Losai tu, che sono perfino un maestro dimusica? Io insegno». Mi guarda e at-tende una mia reazione. Che non vie-ne. «Ci credi? Sono diventato bravo.Il segreto è solo uno: assimilare». As-similare: mi ripete il verbo, scanden-dolo. A s s i m i l a r e. Gli occhi scu-ri di quell’uomo erano seri: mi stavasuggerendo uno dei suoi principi divita. Come fosse una formula chimi-ca. Porgere il fianco alla realtà e as-sorbirne i liquidi. I significati. Dichia-rarsi disponibili alle cose, farsi ele-menti solidi liquidi o gassosi prontiper essere fatti reagire, tra la spugna ela cartina tornasole. Mi rimbalza in te-sta quel detto della sapienza orienta-le: quando l’allievo è pronto, ecco chearriva il maestro.

Ritorno a Meneghello

Antonio non separava ciò che studia-va e pensava per conto proprio da ciòche insegnava a noi. Era proprio que-sta la forza del suo insegnamento: nonc’era tono didascalico, non svolgevaun programma. Parlava delle cose acui si stava interessando senza pro-porsi di dimostrare qualcosa, o di con-vincerci. Ci faceva assistere al suo rap-porto vivo con esse, ciò che ammira-va, ciò che detestava. Era un’opera-zione maieutica incomparabilmentepiù sconvolgente. Ti trovavi davanti aun mondo di idee oggettivate, che pa-revano tuttavia strappate dal tuo in-terno. Le avevi davanti, toccava a tearrangiarti.

Giovanni Realdi

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Il 5 giugno scorso attorno alla stazio-ne Nord di Bruxelles si è svolto unosciopero che ha unito le diverse ani-me del sindacalismo belga, le ONGe le associazioni della società civile,per lanciare un segnale d’allarme atutti i sindacati continentali e ai de-putati eletti alle elezioni europee dimetà giugno. La protesta ha mobilita-to oltre le aspettative degli organiz-zatori, anche se gli eurocrati che affol-lano la stazione ogni giorno di certonon ci avranno badato. Oggetto del-la contestazione, una direttiva ema-nata dalla Commissione il 13 gennaio2004, che prende nome dal commis-sario olandese Friz Bolkestein, ex pre-

sidente dell’Internazionale liberale eattuale commissario europeo per ilmercato interno. Il testo mira a stabi-lire «un quadro giuridico che soppri-ma gli ostacoli alla libertà d’impresadei prestatori di servizi, e alla liberacircolazione dei servizi tra gli statimembri». Trasporti, commercio, si-stema sanitario e istruzione saranno iprimi a essere toccati, e dopo una fa-se transitoria la normativa potrà esse-re estesa a tutti i settori, dall’industriaall’edilizia.

In questo modo la Commissione so-stiene di voler ridurre le lungaggini bu-rocratiche che soffocano la competi-tività, perché costruire l’Europa signi-

Europa. La direttiva BolkesteinQuali norme?

di Alessandro Bresolin

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fica armonizzare anche i diversi siste-mi sociali e le condizioni di lavoro. Ladirettiva Bolkestein vuole eliminare di-ritti e legislazioni sul lavoro troppoprotettive, create dagli stati nazionaliper regolare l’economia in funzionedell’interesse generale, e considerateormai degli ostacoli alla libertà d’im-presa. La direttiva (art. 29) sopprime il«divieto totale di comunicazioni com-merciali per le professioni regola-mentate», che significa la fine dellecosiddette regole di deontologia pro-fessionale che alcune professioni co-me notai, giornalisti, medici, devonorispettare. L’attualità fornisce validiesempi di come questi blocchi ven-gono già oggi superati; dieci anni fa inBelgio, degli uomini d’affari hannocreato dei laboratori di biologia clini-ca che, moltiplicando il numero dianalisi del tutto inutili, moltiplicava-no i costi. Il ministro Busquin decisedi porre fine a queste pratiche e la leg-ge belga ha vietato ai privati di poteraprire ancora laboratori: solo i medi-ci ne sono abilitati. Qualche anno do-po uno di questi uomini d’affari, con-dannato a chiudere, ha fatto causa al-l’Europa, e lo stesso Bolkestein ha im-posto al Belgio di consentire nuova-mente a chiunque di poter aprire unlaboratorio di biologia chimica, nelnome della libera concorrenza.

Il principio del paese d’origine

Finora chi temeva l’allargamento del-l’Europa, indicava nelle delocalizza-zioni il nodo del problema. Questo inparte si sta avverando, poiché da qual-che mese si moltiplicano gli annuncidi delocalizzazioni, come quello del-la compagnia aerea tedesca Lufthan-sa, che prevede di spostare la conta-bilità in Polonia, Elctrolux che traslo-ca dalla Svezia in Ungheria e così via,ma la delocalizzazione non è una con-seguenza dell’allargamento. Da al-meno dieci anni moltissime impreseitaliane hanno spostato le loro attivitàproduttive e con l’ingresso in Europaanche i nuovi paesi cominciano a sof-frire questo problema, come la Slove-nia, dove alcune imprese comincianoa chiudere per spostarsi in Romania.

La direttiva Bolkestein prevede dipeggio. Ad oggi, ogni azienda è tenu-ta a rispettare le regole del paese incui si stabilisce; se una ditta polaccaapre una filiale in Italia o in Austria,deve rispettare le leggi, le convenzio-

ni lavorative e i salari italiani o au-striaci. La direttiva, che riguarda tuttii servizi nel mercato interno europeo,pubblici e privati, rovescia questo prin-cipio affermando (art. 16) «il princi-pio del paese d’origine», secondo cuiun fornitore di servizi dovrà rispetta-re la legge del paese in cui ha sede enon quella del paese in cui fornisce ilservizio. Un’azienda che lavora in Ita-lia ma con sede in Polonia dovrà ri-spettare la legislazione polacca, ma unlavoratore polacco costa 4,48 € all’o-ra, un lettone 3,42 €, un ceco 3,90 €e uno sloveno 8,98 €, contro una me-dia di 23 € nei paesi dell’Europa aquindici.

Il principio del paese d’origine ri-guarderà anche l’ispezione sociale, ea fare i controlli saranno ispettori delpaese d’origine. Il che vuol dire mas-sima libertà per le imprese di agiresenza controllo sociale, perché le au-torità italiane non avranno alcun di-ritto di verificare se il prestatore delservizio rispetterà almeno la legisla-zione della Polonia. Non è un casodunque che questo progetto di leggeeuropea giunga mentre avviene l’al-largamento dell’Europa a 10 nuovipaesi. La Bolkestein rappresenta untentativo di gestire una eventuale nuo-va ondata di lavoratori immigrati dal-l’est europeo. Il problema ovviamen-te non è l’immigrazione ma il modoin cui vengono usati gli immigrati, per-ché lo scopo di tutto ciò non è far sìche le imprese delocalizzino all’est,ma far abbassare il costo del lavoroall’ovest. Livellare verso il basso i sa-lari e le condizioni di lavoro, implicauna regressione sociale in tutti i pae-si della “vecchia Europa”.

Il neoliberismo come dogma

La direttiva Bolkestein non nasce dalnulla, è legata al trattato costituziona-le europeo e si può dire che ne è uncorollario, anche se in realtà viola iltrattato stesso, il quale stabilisce (art.50) che la prestazione di servizi dev’es-sere fornita «alle stesse condizioni chequesto paese impone». Una contrad-

dizione solo apparente, perché la co-stituzione prevede che ogni blocco al-la libera concorrenza tra imprese deveessere soppresso, nel quadro di «un’e-conomia di mercato altamente com-petitiva». Per “blocchi” alla libera con-correnza si intendono le legislazioninazionali sul lavoro, sulla sanità, suiservizi sociali. Il servizio pubblico nonfigura tra i valori e gli obiettivi dell’U-nione, viene citato solo una volta neltesto (parte III, art. 56-1) e relegato aparte nel rispetto della concorrenza, edeve evitare di trovarsi in una “situa-zione privilegiata” nel mercato. Un al-tro esempio che viene dall’attualità ri-guarda le pressioni degli esperti del-l’Organizzazione Mondiale del Com-mercio (WTO), che hanno sollevatoquesta domanda ai commissari euro-pei: si potrà tollerare, malgrado la li-beralizzazione dei sistemi sanitari, cheuno Stato esiga da un medico di co-noscere la lingua dei pazienti e del pae-se in cui eserciterà la professione?

Da quando si è cominciato a di-scutere di Costituzione europea, i me-dia nazionali hanno sviscerato alcu-ne questioni istituzionali generali cheriguardano il prestigio degli Stati, co-me il numero di commissari per pae-se, il metodo per calcolare la mag-gioranza, il ritmo della presidenza diturno ecc.; invece non si discute pernulla sulla natura stessa del progettoeuropeo, se si esclude la polemica ri-guardo l’inclusione, per altro soprat-tutto simbolica, delle radici cristiane.Ciò che invece viene inserito nel co-dice genetico della nuova Europa èl’adesione all’ideologia economicaneoliberale. Ogni ideologia, per cuianche il neoliberismo, inevitabilmen-te tende a diventare obsoleta perché,una volta fatto il suo tempo, diventainadatta a cogliere le trasformazionieconomiche e sociali, e la storia in-segna cosa accade a chi adotta un’u-nica ideologia come sistema di pote-re. La questione, quindi, non è se ilneoliberismo risponda o meno alleaspettative della società, ma piuttostose è giusto inscrivere un’ideologia neitratti che definiscono l’Europa.

Si continua a sviluppare l’unioneeconomica ma non quella politica esociale, mentre identificare la politi-ca europea al neoliberismo significa,di fatto, impedire ogni cambiamentodella politica economica e monetaria,relegando la politica in un angolo.

Alessandro Bresolin

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Un poliziotto musulmano

La prima sera che siamo uscite, a Mo-star, Ljubica guidava ed è stata fermatadalla polizia. C’era una nuova legge,in vigore da pochi mesi, che permet-teva di guidare l’auto solo se posses-sori o con delega del proprietario. L’au-to era stata intestata alla nonna per-ché all’epoca era la soluzione più con-veniente, ma ora la madre aveva ladelega e lei no. Le hanno fatto la mul-ta oltre che un po’ di paura. Ci ha por-tato a casa più tardi un suo amico perstrade secondarie. Non siamo più an-date al mare, nella casa di famigliasulla costa croata, per paura. Un’e-ventuale multa al confine sarebbe am-montata a 500 euro. Troppo. La poli-zia ci ha fermato ancora un altro paiodi volte, ma storie di questo tipo nonne abbiamo più sentite. Perché?

Ljubica mi confida, senza averne fat-to parola con Edina, di pensare che ilpoliziotto fosse musulmano e avesseagito così dopo aver capito dal suonome che lei era senza dubbio croa-ta. Era risentita, quando me lo rac-contava. Dopo un anno in Germaniaaveva deposto le barriere della pru-denza e della furbizia costruite pre-cedentemente durante la vita a Mo-star nel dopoguerra. E si sentiva ripa-gata non certo dalla stessa moneta dionestà e ingenuità. Quello che mi la-scia sconcertata è come abbia il suosolo nome averne scoperto l’etnia. Leiper farmi capire mi snocciola una li-sta di nomi cattolici-croati, musulmanie poi quelli derivati da matrimoni mi-sti. Sabina e Denica, ad esempio, so-no amiche di Edina e sì, sono di ge-nitori di diversa etnia. Ljubica inveceera il nome della nonna: Violetta.

Cosa c’entra la Turchia?

Sempre a Mostar mi compro una sche-da telefonica per chiamare a casa. Di-

co loro che devo telefonare. È meglioche tu lo faccia subito, mi suggeri-scono, perché poi andiamo nella zo-na croata e la tua scheda non funzio-nerà più. Ah.

Ljubica sostiene che non vi sonocroati che abitano nella parte musul-mana di Mostar, al contrario musul-mani abitano nella parte croata. Edi-na non mi sa fornire dati precisi. Lacittà non è nettamente divisa, mi ri-pete.

Una sera passeggiavo con Ljubicaper il centro di Mostar. Avevamo ap-pena lasciato a casa il padre e il fra-tello, nella parte croata, a tifare per lasquadra nazionale della Bosnia-Erze-govina. Sono le partite di calcio perle qualificazioni agli europei. La Bo-snia vince. Lo intuiamo dal corteo diauto strombazzanti che passano a po-chi passi da noi. Siamo nel quartieremusulmano. Sventolano le bandiere.Ljubica si innervosisce. Come distur-bata. Offesa. Me lo dice, alza il tono.Mi traduce che hanno detto: prendia-mo la bandiera della Turchia e andia-mo a fare un po’ di casino nella zonacroata. Si scalda. Cosa c’entra la Tur-chia? Perché quando la Croazia per-se un’importante partita di calcio (chelei mi riferì precisamente ma di cuinon ricordo più le coordinate) ci fuun’esultanza pari alla vittoria odiernadella Bosnia? Perché?

Si racconta la storiella che un tiziodica ad un suo amico: ehi, stasera gio-cano Italia e Serbia e Montenegro (Ser-bia e Montenegro è l’attuale nome diquel Paese che subito dopo la guerrasi appropriò indebitamente, a detta dimolti, della vecchia nomea di Jugo-slavia). E quello risponde: ma cos’è,un torneo?! Io provo a raccontare dame la stessa storiella modificandolacosì (e pensando che la moltiplica-zione dei termini la renda più diver-tente…): ehi, stasera giocano Bosniaed Erzegovina e Serbia e Montene-gro!! No, mi correggono, forse non la

Mostar: perché?Diario da Sarajevo - II

di Sara Deganello

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ricordi bene. Infatti non fa ridere co-sì. La Bosnia ed Erzegovina è un soloStato. E io proprio no, non vorrei an-dare a dividere almeno quello che èrimasto unito.

Qualche giorno dopo l’esperienzadei bosniaci esultanti, guardando il te-levideo, vediamo che la nazionale croa-ta ha perso. Edina legge la notizia ecommenta con un: oh, bene. Io ri-mango a mezz’asta. Ma come, ma co-sa dici? Sei contenta che abbiano per-so? No, ma è che vincono sempre…

È solo la religionea distinguere le etnie?

Un giorno io ed Edina andiamo alleposte locali di Blagaj, il paesino a 10km. da Mostar in cui stiamo. Vedo unascuola e le chiedo di che etnia sonoquei bambini. È una scuola bosniaca,mi risponde. Cioè sono musulmani,devo dedurre. I cattolici croati sonouna minoranza e si trovano, a quan-to ho capito, solo nei centri più gros-si. Per questo la famiglia di Ljubica siè trasferita da Zenica a Mostar alloscoppio della guerra. Per essere mag-giormente tutelata, per far parte di unacomunità croata più ampia. Mi chie-do se sia solo la religione a distinguerele etnie.

Ora a Mostar hanno ricostruito lachiesa dei francescani con un cam-panile sproporzionatamente alto. Lochiamano anche loro: il missile! Sul-l’altura che domina la città, da unaparte c’è la montagna brulla (cometutto lì intorno) su cui sta scritto a sas-si bianchi: noi amiamo… la Bosnia edErzegovina (correzione in sostituzio-ne dell’antico Tito), dall’altra si ergeuna croce. Eretta naturalmente dopoo durante, non so se fosse possibile,la guerra. Una provocazione per Edi-na, su quella posizione così domi-nante. Un’esagerazione anche per Lju-bica. Ma neanche la comunità catto-lica ha avuto vita facile durante le vio-lenze e le violazioni. E ha pensato diaver ragione nel farlo vedere.

Quasi nel mezzo del nulla

Mostar riposa giù nella valle scavatadalla Neretva quasi nel mezzo del nul-la. Ci sono le case pietrose e anticheintorno al ponte che dev’essere statomagnifico. I viali, i bar sotto il cielo ele panetterie aperte tutta la notte a far

intuire che siamo a qualche ora di mac-china dal Mediterraneo aperto. Chesiamo al sud. Nel mezzo, la linea. Lalinea che fu del fronte e che ora man-tiene gli edifici distrutti e i buchi deiproiettili e delle granate. Nel centrostorico ci sono segnali, a volte pure tra-dotti in inglese, che invitano a non par-cheggiare la macchina sotto ai caseg-giati particolarmente pericolanti. Edi-na stessa mi ha raccontato che un te-gola è caduta a pochi metri da lei, unavolta. Gli autobus sono gialli e nuovi.Un regalo del Giappone. Quelli di Sa-rajevo sono invece quelli che la Ger-mania non usa più (lo si capisce dallevecchie pubblicità all’interno). Le am-bulanze sono un regalo della Spagna,dell’Italia, della Norvegia… Il centroper la musica, naturalmente, un rega-lo di Pavarotti. Le barche di una riser-va naturale vicino a Medjugorie sonodella regione Lombardia.

Una sera siamo andate a ballare alBuna. Birra quasi regalata e bella mu-sica. Lampadine colorate sul cortile dighiaia. Lo sguardo sul fiume. Lì Lju-bica mi indica ad uno ad uno i suoiamici: lei è stata in Italia durante laguerra, lui in Germania. Lei invece èla sua cara amica Valentina di Split,insegna fisica in un liceo. Non riescea ottenere il passaporto bosniaco an-che se risiede da tempo, e forse risie-derà per sempre, a Mostar. Ma come,chi può volerlo un documento così?Lei e migliaia di cinesi. Penso che nonoccorra il visto per entrare in Bosnia.Le hanno tirato i sassi una volta qui…ragazzacci. Lei è croata doc. E perchévuole restare qui?

Parliamo inglese, lei mi mette a mioagio. L’atmosfera è distesa, ma densa,aperta. Forse anche grazie alla birra.Il dolore, la distruzione… sì, ci sonostati. Ma ora sono tutti questi ragazziqui, sotto queste luci piccole che simuovono oscillando, che danzano an-che loro, sono le loro storie e le loroidee sotto il cielo ancora caldo di set-tembre che contribuiranno alla nuo-va creazione. Alla vita che sgorga di

nuovo fitta. All’arte della rinascita co-me di fiori da un terreno bruciato. Èquesto che ho capito lì al Buna di Mo-star come al Donnerstag di Berlino oal Town Pub di Sarajevo. Perché era-vamo per un attimo proprio noi lì, anon pensare più al passato. A sentireche si può ricominciare, inventarequalcosa di nuovo. E a farlo insieme.Sarà questo che ha trovato qui ancheValentina? Qui ha qualcosa da rico-struire con pazienza, educando…

La politica ha rovinato tutto

Un giorno avevo voglia di fare unapasseggiata ed Edina mi ha messa inguardia, là tra i campi di Blagaj a ri-dosso del monte: non mi fare paura,mi ha detto, dimmi che non andraifuori dalla strada e non ti inoltrerai aldì là delle ultime case. È ancora pie-no di mine da queste parti. Io ho se-guito le capre e ho fatto amicizia conla dama delle capre. Una signora unpo’ ruvida e abbronzata. Penso chemi abbia detto che faceva caldo. Io leho cercato di dire che ero italiana, chefacevo visita a un’amica. Lei mi hastretto vigorosamente la mano. Non èil primo personaggio che si lascia av-vicinare e quasi conoscere. Se sapes-si il serbo-croato…

Un vecchio artigiano della Mostarvecchia fabbricava una chitarra a quat-tro corde, la tambura. Beh, c’era Edi-na che traduceva, ma questo è anda-to a prenderci le foto del suo soggior-no a Bolzano durante la guerra. Le fo-to del suo amico Fabrizio. Accogli lostraniero. È incredibile. Come ha fat-to questa gente ad ammazzarsi tra sée sé? Forse aveva ragione Veca. Forsela politica ha rovinato tutto. Di certosono stati smossi i sentimenti primiti-vi dell’istinto e del sangue in un qual-che modo incontrollabile che ha ac-cecato (e azzerato) la civiltà del me-ticciato, la cultura.

A Mostar ci sono un sacco di nego-zi di cd e dvd pirata. Anzi, io non neho neppure visti di originali. Ti dannopure la sportina con il loro logo e in-dirizzo e-mail. Non ci dev’essere mol-to controllo in materia legislativa.

Sia Edina che Ljubica sanno doveandare se vogliono comprare gli esa-mi all’università. Ma, come si sa, lamafia è un po’ dappertutto e qui si èarricchita soprattutto con la guerra.

Sara Deganello

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1 maggio 2004 - Crocettadel Montello (Tv). Incontrocon gli scauts, una delle po-che associazioni che anco-ra resiste alla frammenta-zione, perché ha puntato sul-la formazione e che pur sen-te la difficoltà di trovare unorientamento, perché oggiil problema non è la so-pravvivenza, ma quello didare senso al vivere. Temadell’incontro: la violenza cheproduciamo nelle guerre enel quotidiano. Conduce larelazione e il dibattito Giu-seppe Stoppiglia.

18 maggio 2004 - Piove diSacco (Pd). Incontro con Ma-rio Crosta, in competizioneper la carica di sindaco, on-de preparare un terreno diconsenso che muova dallacoscienza e dall’aperturamentale, e non da semplicipromesse fatiscenti, effime-re. Mario Crosta invita duerelatori di alto profilo mo-rale e culturale, don GianniGambin e Giuseppe Stop-piglia, sul tema I cattolici ela politica. La sala è so-vraffollata, qualcuno si fer-ma nel cortile adiacente, inattesa di un riflusso, ma poisi perde in conversazioniamichevoli. Gli altri ac-compagnano le riflessioni didon Gianni e don Giuseppeche partono dall’afferma-zione che la politica è l’ar-te umana più alta, per ri-cordare il distacco dei cat-tolici dalla politica che haaccompagnato gli anni chevanno fino alla metà del No-vecento. E che oggi si ripro-pone in termini contraddit-tori e ambigui anche perché

il sentimento del bene co-mune è decaduto, grazie auna cultura di consumo e auna classe politica che cu-ra il consenso e non invecela crescita di una coscienzasolidale. Largo il consensoe la simpatia dei presenti ver-so i due relatori. Mario Cro-sta sarà poi eletto sindaco diPiove di Sacco.

19 maggio 2004 - Roma-no d’Ezzelino (Vi). Il grup-po giovani di A.C. organiz-za l’incontro su Giovani: ilsenso della politica. Che di-re in questo clima elettora-le fiacco, in cui tutto vienedemandato all’immagine,con gli attacchini che si af-fannano a mettere e toglie-re gli affissi murali, per can-cellare un baffo, per tirareuna piega, per asciugare unabava dal corpo elettorale?Proprio per questo è neces-sario muoversi, non solo peraprire liste nuove, ma peraccendere gli animi attornoa discussioni e riflessioni ve-re, non per la lucidatura deilustrini e dei merletti, che ilvento scuote e la polvere in-sudicia, ma per costruire in-sieme una visione politicanuova. Non mancano nel-l’intervento dell’oratore Giu-seppe Stoppiglia l’ironia ela satira verso i compromessie i giochetti della classe po-litica locale.

21 maggio 2004 - CintoEuganeo (Pd). Antonio Rotaprepara un incontro pubbli-co per parlare e riflettere conun pubblico attento su diuna proposta politica, cherecuperi lo spazio dove si

possa esprimere quanto lavita offre, il sapere e l’ope-rosità. Molti giovani che fre-quentano l’università al lo-ro rientro nel quotidianospengono quei fuochi e queisogni che avevano illumi-nato il loro futuro. Come da-re continuità al sapere e riac-cendere gli entusiasmi ver-so l’attività sociale? Da quila domanda rivolta a Giu-seppe Stoppiglia e Ivano Spa-no sulla centralità della po-litica, mentre gli uomini deipartiti combattono piccolebattaglie per conquistare ilconsenso.

29 maggio 2004 - Spin diRomano d’Ezzelino (Vi). Dapochi giorni abbiamo rice-vuto la stampa dell’ultimafatica di Giuseppe Stoppi-glia, Camminando sul con-fine, e questa sera ci sarà lapresentazione del libro. In-troduce la serata culturaleFarinelli Gaetano. La sala èilluminata a giorno. Ci sonoamici e simpatizzanti. Più diduecentocinquanta le per-sone, numero di rilievoquando si pensi che doma-ni saranno in molti a fre-quentare il convegno.

30 maggio 2004 - Spin diRomano d’Ezzelino (Vi), fe-sta nazionale di Macondo.Come ogni anno ormai, daquindici anni. Ma un tem-po eravamo pochi, comenelle storie comuni. Tano dibuon mattino andava a pre-levare il rimorchio del co-mune di Bassano, trainatoda un carro agricolo, su cuiveniva issato il palco e gliattori del giorno: brasiliani

in visita in Italia, seminari-sti del Pio Collegio brasilia-no, volontari in vacanza.

Oggi il convegno ha unalunga gestazione, i volti checompaiono sul palco sonomolti e di provenienza va-ria. Il presidente sta nel belmezzo della tavola. Attornoa lui gli ospiti accompagna-ti dai traduttori, che con so-lerzia ammanniscono al pub-blico i contenuti e confabu-lano con il loro assistito. In-troduce il tema della festaFatemi vivere, fatemi mori-re, ma non seppellitemi vi-vo; ad indicare che la vita ètale nel momento in cui lesi dà la possibilità di esserevita. Alla festa sono stati in-vitati molti maestri; il mae-stro ha il compito non di in-segnare a vivere ma di co-struire lo spazio dove siapossibile la vita, che oggiviene sacrificata alle leggidell’economia e della forza,leggi che danno credito al-la violenza. La violenza hascatenato anche la vendet-ta dei poveri, ha fatto di-menticare la tenerezza diDio e questo è un male pertutti; non solo per la pauranostra, ma anche per il fat-to di vivere in un mondo chesi è fatto deserto.

Il primo a parlare è mons.Gaillot. Sono quattro le co-se che in modo essenzialericorda il vescovo dei “sanspapiers” (senza documenti):1. la dignità nessuno ce lapuò togliere, anche i pove-ri hanno la loro dignità diuomini e di donne; anchese ci vuole una vita interaper recuperare questa con-vinzione vale la pena di far-

Macondo e dintorniCronaca dalla sede nazionale

di Gaetano Farinelli

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lo; 2. l’ingiustizia: a uno stu-dente che gli chiedeva cosaconsigliava come vescovo,rispondeva che l’ingiustizianon si può sopportare, co-me non poteva sopportareche 350 africani solo perchémusulmani e neri fosserocacciati da una chiesa cat-tolica occupata; 3. dare co-scienza, aiutare i poveri aprendere coscienza della lo-ro dignità. Solo allora i po-tenti prendono paura delleloro azioni; 4. cosa impa-riamo nel rapporto coi po-veri: a vivere intensamenteil presente, a fare festa neldolore per avere la forza dicontinuare.

Ora la consegna passa alprof. Pietro Barcellona. Duesono le parole con le qualisi intratterrà con il pubbli-co: educatore e povero. In-troducendo, Giuseppe di-ceva che al tavolo della pre-sidenza molti erano gli edu-catori. Una parola che nonpiace a Pietro; a suo parerenon c’è un educatore al difuori, ma ci si educa insie-me; non che la massa siaeducatrice, ma ci si educainsieme, nella misura in cuiinsieme si dà senso allo spa-zio e al tempo; l’assembleadi Macondo riunita non èfatta di persone omologate,ma ciascuno è alla ricercadi senso, insieme e diversa-mente.

Il povero non è una cate-goria sociologica, come nonlo era quella di proletario,anche se poi lo è diventata.Proletario avrebbe dovutoessere colui che non ha nul-la da perdere, ma non perdisperazione. Il povero è co-lui che percepisce la sua fra-gilità e cerca dunque il tra-scendente. Con la parola cheva oltre e con il simbolo cheva oltre cerca il trascenden-te. Noi siamo stati derubatidell’anima, perché voglio-no identificare la nostra vi-ta con la vita stessa, con ildenaro, con la sostituzionedella vita con la vita, per po-ter sopravvivere. E qui sta ilgrande pericolo della nuo-

va scienza che vuole ripro-durre l’uomo con l’uomo econfinarlo nello spazio an-gusto e definitivo dell’ani-male senza anima e senzatrascendenza.

Noi siamo tali nel mo-mento in cui ammettiamo lanostra fragilità. Questo erail furto di Prometeo, non ilfuoco, ma aver scoperto lafragilità dell’uomo. Il nostrocompito è quello di costrui-re ponti e non steccati, pergiungere ad un’anima, l’a-nima di cui siamo derubati,tramite cui trovare il sensodel vivere e non del soprav-vivere, che è andare, vede-re, sentire oltre. In questacondizione si scopre il po-vero.

Prende poi la parola il dott.Olaseinde della Nigeria, chesi propone con una doman-da provocatoria: che ci faqui tanta gente, per fareChiesa che si guarda, con-tenta del successo e si chiu-de per commemorare le suevittorie; o è un gruppo chesi incontra perché vuole mo-dificare le cose ingiuste cheminano l’esistenza non sol-

tanto dei poveri (un miliar-do, due miliardi) ma anchedelle popolazioni del Norddel mondo?

C’è un’immagine che in-dica la condizione di sepoltivivi in cui anche noi vivia-mo: la donna africana è don-na in generale, spinta con lafrusta (è una metafora) a fa-re e a vivere contro la suavolontà, su modelli che noncondivide. Anche noi siamospinti dalla forza del pote-re, dei potenti, dalla loroideologia che ci convinceche nulla può essere modi-ficato; anche noi siamo co-stretti a rispondere e piega-re la fronte a un progetto divita che ci porta a una vitadi sopravvivenza, alla vitasotto terra, sepolti vivi.

Per questo noi qui presen-ti abbiamo il bisogno, la ne-cessità di porci la domandasul che cosa vogliamo. Pos-siamo attestarci sulla fidu-cia del nostro “capo”, Giu-seppe, oppure insieme tro-vare la forza e l’entusiasmodi affermare che insiemepossiamo cambiare lo statodelle cose, di modo che non

succeda più che una poten-za porti il mondo ad unaguerra (ecco l’Iraq) perchélo hanno deciso i suoi capi;non succeda ancora che ilmondo costruisca un’eco-nomia ingiusta che produ-ce ingiustizia, perché i suoipotenti continuano a dire(nella falsità) che tale eco-nomia è la sola possibile perla nostra vita.

La mia risposta alla do-manda, afferma Seinde, èche voglio educare una ge-nerazione a credere con en-tusiasmo nel cambiamento,e spero che sia anche la vo-stra risposta, di uomini edonne che non si fermanosull’immagine del capo, maanche loro si muovono, per-ché la condizione di sepol-ti vivi si muti in strada per ilcambiamento delle cose in-giuste.

Ora parla Manuela Dviri:quale sia un modo nuovo diaffrontare il problema dellapace. Non certo insistendosulla divisione tra buoni ecattivi, ma cercando di co-struire dal basso la pace, co-stringendo i politici a faredei passi, che si ritengonoimpossibili, sempre usandogli strumenti della demo-crazia, oppure facendo del-le cose insieme, palestinesie israeliani, come ha fattolei per la cura dei bimbi pa-lestinesi, assieme a donnepalestinesi, e pagando le spe-se agli ospedali israeliani,che si prendono cura anchedei palestinesi; che oggi so-no senza cure, perché nonhanno nessuna assicurazio-ne. Sono vittime che chie-dono un risarcimento e que-sto risarcimento è la pace.

Quando si alza Juan Pabloper proporre la sua testimo-nianza sono già le ore tre-dici. Prima di parlare invital’assemblea ad alzarsi persciogliere le membra intor-pidite e con l’ausilio di unagiovane donna intona il can-to ritmico e gioviale de “Ilcoccodrillo”.

Infine apre con un ricordodella sua infanzia, il padre

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che lo inviava a portare mes-saggi a Che Guevara. Poi at-tacca con la domanda checosa stia facendo lo Stato inBolivia: ed elenca le leggi afavore dell’esercito ameri-cano in Bolivia, la conces-sione del petrolio bolivianoper 40 anni a una societàstraniera (ricordo per incisoche con il referendum di lu-glio la concessione è stataritirata), la distruzione del-l’ambiente e la concessionedella terra ai latifondisti in-vece che al popolo.

Eppure il popolo ha con-quistato il potere in Bolivia,ma è un potere, quello del-lo Stato, che non corrispon-de alla società, un potereviolento, militare, non de-mocratico; mentre la cultu-ra del paese, sia delle mon-tagne che della pianuraamazzonica, è una culturacomunitaria e di rispetto del-la persona.

Che fare di fronte a questadevastazione sociale ed eco-nomica? Riprendere in ma-no i municipi non con la for-za delle armi ma con la for-mazione e la partecipazio-ne all’attività del municipio,intervenire sulla scuola per-ché diventi un centro di for-mazione legato alla vita so-ciale del paese, inoltre farein modo che le leggi ema-nate siano leggi di giustizia.

Oramai l’ora è tarda. Chisi avventura in questo spes-sore di tensione e di faticadeve avere un messaggio for-te, ed è quello che ci portaEdith, accompagnata dal suotraduttore Paolo d’Aprile chel’accompagna nel viaggioin Italia. Originaria dellaBahia, ora vive a San Paolo,dove lavora coi minori, unlavoro difficile, in ombra,eppure, afferma, è questo illavoro che fa la differenza,con il quale vuole costruireuna nuova storia. Cede laparola al suo traduttore, Pao-lo, cui spetta il compito diraccontare l’attività svoltanella favela di Jardim Lour-des. In particolare ricordal’attività di recupero dei de-

ficienti psichici, delle per-sone senza stima, fatta as-sieme ad un’altra équipecomposta da varie profes-sionalità. Conclude poi leg-gendo la lettera scaturita neimesi precedenti dal gruppodonne della comunità di Jar-dim Lourdes.

Termina il convegno e ini-zia la festa. Ci sarà il pran-zo, poi nel primo pomerig-gio la messa, preceduta dacanti di vita, di memoria edi gioia, l’omelia del vesco-vo che concelebra coi sa-cerdoti presenti. E poi la mu-sica e le danze. Viene a man-care la luce, forse un so-vraccarico che non si riusciràa recuperare, ma comunquela gente è felice, se non pro-prio è serena. E le personevagano, vagano, vagano, di-rebbe Fellini, dentro uno spa-zio che si apre ad accoglie-re, e da cui uscire rafforza-te, pur con l’interrogativo se-vero di Seinde: dove andia-mo, quale coraggio coltivia-mo dentro? Saremo una con-grega o saremo un seme disperanza? E vagano e dan-zano e cantano.

1 giugno 2004 - Pezzoli(Ro). Giuseppe e Pietro Bar-cellona sono invitati a unaserata nel teatro tenda del-la parrocchia. Durante ilviaggio contattiamo i com-medianti per rovesciare ilcalendario della serata. Pie-tro preferisce parlare primadello spettacolo, al quale poiparteciperemo solo in par-te, uno spettacolo di danza,canto e musica, con la regiadi Laura Polato, che a suotempo compose una musi-ca suggestiva per Macondo.

3 giugno 2004 - Bassanodel Grappa (Vi). La parroc-chia di Rossano Veneto, DonSandro Ferretto e l’Associa-zione Macondo organizza-no una serata dedicata al-l’Infanzia negata. La seratasi apre con il complesso mu-sicale di Luca Bassanese, chesuona musica gradita ai gio-vani e insieme canta paroled’amore e di guerra, amoreper la vita e guerra alla vio-lenza; parole di speranza edi denuncia. Seguono poi letestimonianze di suor AdmaCassab Fadel che racconta

la sua esperienza tra i ra-gazzi di strada; poi suor Tar-cisia e suor Soledad che rac-contano la loro vita tra i po-veri e tra i bambini con de-ficienze fisiche e psichiche.Alla fine parla Seinde sul-l’infanzia e l’educazione inNigeria. Chiude la serata ilcomico Paolo Rossi, chedentro la Costituzione ita-liana trova il modo di sco-prire le debolezze, le in-temperanze, le ossessioni,le sostituzioni ad interim edefinitive del buon senso delcaro presidente Silvio.

1/10 giugno 2004 - In que-sto lasso di tempo i testimonidella festa di Macondo so-no ospiti e relatori in variecittà, tra gruppi, istituzioni,associazioni e parrocchieper raccontare la loro storia,che è una storia di lotta e diintelligenza, per fare cre-scere la democrazia e percostruire la legalità. Juan,Edith, Seinde sono passatiper le città di Modena, Bo-logna, Trento, Como, visitaa Venezia, Padova, e poi dinuovo in piccoli paesi di pro-vincia a raccontare le lorostorie, i loro progetti, le lo-ro speranze e le loro ansie.Sono stati accolti e accom-pagnati da amici, soci di Ma-condo, simpatizzanti, Cri-stian, Alessia, don Mario, Le-le, Pacifico, Gianni e altriche hanno organizzato in-contri per conoscere e in-contrare nuove realtà in so-lidarietà.

9 giugno 2004 - Venezia.Gaetano e Carmine di San-te partono per il Brasile. Unviaggio esplorativo tra le co-munità di base, i teologi del-la liberazione, gli uomini ele donne della strada chehanno vissuto e ancora vi-vono quella esperienza cheprese inizio negli anni set-tanta. Il viaggio passa perRio, Salvador dove abbiamoincontrato Gino Taparelli ri-coverato in ospedale, Ca-maçarì da Delia Boninse-gna. Abbiamo proseguito per

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Recife, Olinda e Limoeroospiti della famiglia di Gior-gio Barbieri; infine a São Pau-lo in casa della famiglia Pe-ruzzo e ancora con la com-pagnia della guida sicuradell’impareggiabile MauroFurlan. Abbiamo percorsochilometri di terra e di stra-da, con l’aereo, a piedi e inmacchina. Abbiamo parla-to a lungo in lingue com-posite. Abbiamo frequenta-to l’alta intelligenza delleuniversità e delle case edi-trici, con l’intento di pub-blicare i libri di Carmine.Abbiamo mangiato il panedell’ospitalità e dell’amici-zia, bevuto l’acqua di coc-co. Abbiamo affrontato lepiogge invernali del Per-nambuco e accolto il solechiaro di San Paolo, lumi-noso e ventoso, sotto una lu-na grande, capovolta.

12 giugno 2004 - Vicenza.Grande impressione ha su-scitato la morte di Giusep-pe Benetti, segretario gene-rale della Cisl di Vicenza.L’avevamo abbracciato allafesta di Macondo, un gigantedi statura e di generosità, cheaveva lottato e tenuto a con-trollo un male che poi haprevalso. Al suo funerale nu-merosi gli amici e i colleghi,le autorità civili e religiose;segno di una vita intensa edi un’attività multiforme.

19 giugno 2004 - Mode-na. Barbara Castagnetti e Ar-turo del Perù sono sposi. Lacerimonia si svolge in unachiesa grande presso il chio-stro dei Benedettini. Sonoarrivati i genitori di lui dalpaese andino. E ci sono pu-re i fratelli e le sorelle. Unadi loro traduce la voce deigenitori, ma l’emozione leconfonde la voce e raccon-ta i suoi sentimenti invecedelle parole del padre. Losposo bacia lento l’anello,lo benedice e infila nell’a-nulare della sposa, che ri-pete il gesto, compresa inun lieve tremore. Sposi fin-ché morte non li accompa-

gni nella terra dei primi af-fetti; sposi e intanto la folladegli amici e dei parenti bat-te le mani.

luglio - I responsabili del-la cooperativa Olivotti di Mi-ra si sono recati in Brasilecon una équipe di esperti edocenti dell’Ulss 16 di Pa-dova e dell’Ulss 13 di Dolo,per l’attivazione di un per-corso di interscambio condiverse realtà e comunità bra-siliane. Nello stato di SanPaolo è stata visitata la co-munità di accoglienza permadri-bambino di Soroca-ba, la comunità per minoridi P. Sometti a Itapetininga ela comunità per minori e pertossicodipendenti a Campi-nas. Presso l’Apot è stato or-ganizzato un seminario congli operatori dell’area socia-le per confrontare le meto-dologie di intervento nellariabilitazione e nel reinseri-mento dei tossicodipenden-ti e dei pazienti psichiatrici.A Rio de Janeiro ha avutoluogo un incontro con i re-sponsabili della pastorale deiminori dell’arcidiocesi di Rioe un incontro con gli opera-tori attivi nei progetti con ibambini di strada. A Salva-dor de Bahia, presso la fa-coltà di sociologia, Gino Tap-parelli ha organizzato un in-contro tra docenti e studen-ti della facoltà sui percorsidi riabilitazione psichiatricaattivati in Italia e sull’orga-nizzazione di percorsi di in-tervento tra privato sociale eUlss. L’équipe veneta ha poivisitato altri progetti nel Per-nambuco. Da settembre a di-cembre, sei responsabili dicomunità incontrati sarannoospitati presso la cooperati-va Olivotti e per loro saran-no strutturati degli stage pres-so enti e strutture pubblichee private per approfondirealcune problematiche e me-todologie nella specifica areadi intervento. Chi è interes-sato a questa esperienza diinterscambio può contatta-re Monica Lazzaretto ([email protected]).

3 luglio 2004 - Pove delGrappa (Vi). Verifica dellaFesta di Macondo. Gli orga-nizzatori della festa si in-contrano per mettere in lu-ce gli aspetti positivi e quel-li negativi della festa, per con-fermare gli impegni, per sol-lecitare la ricerca di un luo-go adatto, nel caso ormaisempre più probabile di undiverso uso del parco di Spin.Le impressioni e osservazio-ni generali sono positive; ne-cessita di qualche ritocco or-ganizzativo. C’è stato il di-sguido della corrente nel po-meriggio. Ben servita la men-sa. Le musiche del pomerig-gio hanno animato i giova-ni. Baldassare rinnova il suoimpegno come direttore ge-nerale. Poi si parte per Bor-so, a consumare la cena dilavoro in un locale monta-no, occupato e assediato danumerosi commensali, qual-che tavola festeggia un an-niversario, altri concludonol’anno di lavoro, altri man-giano contenti, mentre le ca-meriere vanno e vengono,spesso a vuoto, scambiandotavoli e portate, senza chealcuno ne senta il peso, so-lo un lieve impaccio.

9 luglio 2004 - Arzergran-de (Pd). Il gruppo giovanidella parrocchia organizzaun incontro in preparazio-ne del viaggio-pellegrinag-gio verso la comunità di pa-dre Giuseppe Dossetti, unodei padri della Costituzio-ne, fondatore di una comu-nità religios, che ha comecompito precipuo la pre-ghiera e la lettura della Bib-bia. Un uomo, un profeta,afferma Stoppiglia, in quan-to portava su di sé la soffe-renza e gli slanci del suo po-polo e gliene dava espres-sione. Un politico radicalein quanto proponeva unapolitica al di sopra delle par-ti, che nascesse e sviluppasseattraverso le forze del po-polo italiano. Numerosi igiovani, spesso ahimè incertie non informati sugli avve-nimenti e sui moti del pas-

sato prossimo della nostrastoria italica.

10 luglio 2004 - Soverato(Cz). Adriana Lerro della li-breria Incontro organizza nelCentro sociale Morgana ge-stito da giovani la presenta-zione del libro di GiuseppeCamminando sul confine;l’autore affronta alcuni ar-gomenti del libro: la politi-ca, la relazione tra giovanie adulti, la mancanza di spa-zi di incontro dove le per-sone possano scambiare ideesul tempo, sulla politica, sul-la democrazia in Italia, il te-ma della religione e dellalaicità, un tema questo chesempre più emerge dall’in-contro degli uomini migra-tori e che spesso si vuol li-quidare con la questione delvelo o del crocifisso.

17 luglio 2004 - Nonan-tola (Mo). Nella chiesa ab-baziale alta come una chie-sa gotica, il tetto a capriatecome una romanica, il por-tone con bassorilievi comeil portone di San Petronio inBologna, sul presbiterio al-to, circonfuso di una pe-nombra mistica, si raccogliel’assemblea di amici e pa-renti per il rito del matri-monio di Grazia e Fausto,che consacrano il loro vin-colo di amore nel segno del-la solidarietà e dell’amici-zia. Nel parco dell’anticomonastero i convitati han-no poi consumato la cenapopolare offerta dagli sposie dalle famiglie.

4 agosto 2004 - Rio de Ja-neiro (Brasile). Nella notte,all’ospedale di Botafogo, sispegne Lorenzo Zanetti. Re-sponsabile della FASE, entedi formazione popolare inBrasile, ha collaborato conl’Associazione Macondo neiprimi anni della nostra pre-senza a Rio de Janeiro. Ab-biamo ricevuto notizia del-la sua morte dall’amico Leo-nidas e da Maurizio.

Gaetano Farinelli

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Non solo per fame

Con questo reportage fotografico, Marcello Sel-mo ha cercato di indagare alcuni aspetti di vi-ta quotidiana degli immigrati della sua zona, laValle del Chiampo, in provincia di Vicenza.

È a partire dal quotidiano,infatti, che si riesce a com-prendere la vera situazione,la vita di questa gente, dispo-sta al lavoro più umile e fati-coso pur di superare lo statodi privazioni vissuto nel pae-se di origine. E la miseria, lamancanza di cibo, qui da noinon si provano: forse è que-sto uno dei motivi per i qualisi fa fatica ad accettare lo stra-niero. Non solo per fame, perguerre, malattie incurabili ealtro ancora, i popoli si spo-stano nel mondo in cerca disalvezza.

Diversità come ricchezza

Ciascuna cultura dei popolisulla Terra è ricca di elemen-ti caratterizzanti e carpirne ledifferenze aiuta molto a cre-scere, implica uscire daglischemi mentali che già si co-noscono, innesca un attivoconfronto, invita all’apertura.

Il tema dei popoli del mon-do sta molto a cuore all’auto-re: «Io cerco di valorizzareogni popolo come nucleo di-

namico di individui dove ciascuno è portatoredi cultura, per cui ogni società esprime tutta laconoscenza delle persone che le appartengo-no. Se un popolo è rimasto integro nel tempo,questa è una ricchezza che noi dobbiamo sal-vare dal processo di omologazione. Ogni cul-

tura particolare è da conside-rarsi patrimonio dell’umanità».

Civico undiciLa casa di chi non ha casa

L’umanità è sottoposta a unprocesso di cambiamento mol-to forte a causa dei diversi spo-stamenti di genti che immi-grano e che emigrano; la no-stra società moderna è ormaiavviata al mescolamento diculture altre, all’accultura-zione.

«Mi sono recato numerosevolte al Centro di prima ac-coglienza di Arzignano, sor-to nel 1990 per aiutare i pri-mi immigrati della nostra zo-na, in Via Solferino, al nume-ro 11. Poi mi sono recato nel-le concerie e nelle industriedel marmo, nei luoghi del tem-po libero e in quelli del ritoreligioso, al fine di documen-tare con le mie immagini mol-te situazioni di queste perso-ne e dei loro figli».

Ora questa casa di acco-glienza non esiste più.

Salvare le differenzeLe immagini di questo numero di Madrugada

a cura di Antonella Santacà

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«Esiste in me sempre quel desiderio di conosceredi più i popoli del mondo,

ma spostarsi e andare a fotografarli laddoveessi vivono è molto diverso dal suo contrario,

andare qui da noi in cerca di loro.Cambia l’ambiente e cambiano anche loro…

Vivere qui per molti immigrati vuol dire perderetanto di quello che è stato imparato prima,

perdere la loro cultura per adeguarsi al nostrosistema sociale».

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SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 45% - ART. 2 , COMMA 20/B, LEGGE 662/96 - VICENZA FERROVIA - TAXE PERÇUE - TASSA RISCOSSA.

IN CASO DI MANCATO RECAPITO RESTITUIRE ALL’UFFICIO DI VICENZA FERROVIA, DETENTORE DEL CONTO, PER LA RESTITUZIONE AL MITTENTE

(VIA ROMANELLE, 123 - 36020 POVE DEL GRAPPA - VI) CHE SI IMPEGNA A PAGARE LA RELATIVA TARIFFA.