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MARTA FRANCESCHINI SULTANA DEL MAROCCO Author(s): Cep Source: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 10, No. 5 (Maggio 1955), p. 158 Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40761528 . Accessed: 15/06/2014 05:24 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.28 on Sun, 15 Jun 2014 05:24:43 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions

MARTA FRANCESCHINI SULTANA DEL MAROCCO

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Page 1: MARTA FRANCESCHINI SULTANA DEL MAROCCO

MARTA FRANCESCHINI SULTANA DEL MAROCCOAuthor(s): CepSource: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africae l’Oriente, Anno 10, No. 5 (Maggio 1955), p. 158Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO)Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40761528 .

Accessed: 15/06/2014 05:24

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158 AFFRICA

italiani il più infervorato era ancora il vecchio capomastro che ai più sfiniti, ai più esitanti diceva:

- Niente paura, io sono stato quattro volte all'ospe- dale per questo maledetto sole d'Africa, ed eccomi qua più in gamba di prima!

Non era vero che fosse tanto in gamba; ridotto male, viveva di febbre e di voglia di vincere, aveva gli occhi infossati, se si fermava dal lavorare tremava. E che im- porta? Bisogna andare avanti; i greci non si danno tre- gua e lavorano come schiavi; si aiutano colle cantilene e le donne portano ai lavoranti il cibo sulla diga perché non perdano tempo, si ubbriacano quando sono stanchi per eccitarsi e continuare, nonostante che l'alcool, sotto il sole d'Africa, diventi spesso veleno. Mancano quattro giorni soli, avanti, o italiani, pensate allo scorno della sconfìtta di fronte agli inglesi. Mancamo tre giorni, due giorni, un giorno... Auff! se Dio vuole è finita. E' scoccata l'ora, sia- mo al mezzodì della quindicesima giornata, adesso si aspetta il giudizio. I superstiti, allora si contano; sono poco più della metà; gli altri sono all'oispedale in delirio; al camposanto ne hanno sepolti dodici.

Se almeno si fosse vinto! Che fanno gli inglesi? Gli inglesi misurano; hanno misurato il lavoro italiano;

adesso, vanno a misurare quello dei greci che si riposano anche loro dell'eroica fatica, ed anche loro contano gli assenti.

Che sarà? Che sarà? Chi avrà vinto? Quando gli inglesi tornano verso gli italiani facendo

larghi cenni con le braccia, tutti corrono loro incontro col presagio della vittoria; soltanto il vecchio capomastro re- sta a sedere sul lavoro, perché le forze non lo reggono e la testa gli gira come un arcolaio.

- Due metri. Due metri - gridano gli inglesi alla turba degli operai italiani, - avete fatto due metri di più.

Madonna santa che urlo. - Abbiamo vinto! Viva l'Ita- lia! Capomastro dove sei? Ascolta, abbiamo vinto.

No, il capomastro non ascolta più. E' là supino e con gli occhi chiusi sulla diga, come se dormisse affranto dalla fatica. E quando lo scuotono per svegliarlo e dargli la grande novella, si accorgono che l'insolazione questa volta l'ha ucciso per davvero.

Ma intanto gli operai italiani ebbero in appalto tutti i lavori di rivestimento della diga... ed i greci furono la- sciati negli scavi con gli egiziani. E quando, finita l'opera, gli inglesi vi murarono una lapide per ricordarla a tutti co- loro che la vedranno nei secoli, dovettero scrivere così:

QUESTA DIGA FU PROGETTATA E COSTRUITA DA INGEGNERI BRITANNICI. EGIZIANI AIUTATI DA GRECI

SCAVARONO LE FONDAZIONI NELLA ROCCIA E COSTRUIRONO LE OPERE IN CALCESTRUZZO.

ESPERTI OPERAI ITALIANI APPARECCHIARONO E FABBRICARONO IL RIVESTI-

[MENTO IN GRANITO

Esperti: un aggettivo solo, una sola parola, ma in quella parola era la superiorità, la vittoria, la gloria.

L'AFRICA PIÙ IMPORTANTE DELL'ASIA PER I TESSILI OLANDESI

L'industria tessile olandese, che era la più importante fornitrice dell'Indonesia per i tessuti di cotone stampati e in tinta unita, da quando quei tenitori sono stati sottratti alla sua sovranità va d'anno in anno perdendo la sua po- sizione di preminenza. Rispetto alle esportazioni com- plessive di tessili dell'Olanda (che rappresentano il 42% della produzione), l'esportazione verso l'Indonesia nel 1951 fu dèi 25%, nel 1952 del 17,7%, nel 1953 del 16,9%, fino a scendere nel 1954 ali' 11%. In Indonesia i tessili olandesi vengono soppiantati da quelli provenienti dall'India e dal Giappone.

Di contro, è notevolmente aumentata l'esportazione di tessili olandesi verso l'Africa. L'esportazione verso l'Afri- ca francese è salita da 1.935 tonnellate nel 1953 a 2.829 tonnellate nel 1954, pari al 9% dell'esportazione totale di tessili. L'esportazione nell'Unione del Sud Africa è au- mentata da 1.230 nel 1952 a 2.560 nel 1953 e a 3.192 nel 1954, pari ad oltre il 10% dell'esportazione totale di tessili.

MARTA FRANCESCHINI SULTANA DEL MAROCCO Di italiani intraprendenti e avventurosi la storia ci

offre moltissimi esempi, ma pressocché ignorate restano ta- lune figure che, pur non essendo di primissimo piano, me- ritano tuttavia di essere descritte e ricordate. Degna di tale ricordo ci sembra quella di Marta Franceschini: una gio- vane e nobile corsa che oltre un secolo e mezzo fa salì al rango di imperatrice del Marocco per un insieme di circo- stanze dovute in parte al caso e in parte alle sue doti fi- siche ed intellettuali.

Ecco la sua singolare avventura. Siamo nel 1751. Una nave di pirati tunisini è in vista della Corsica. Gli isolani sono colti alla sprovvista; l'azione dei barbareschi è, come sempre, rapida, travolgente, sicura. Ancora una notte di terrore, di violenze e di atrocità da aggiungere a tante altre notti. Il paesino colpito è Corbara, nella regione di Balagna. All'alba, tutto sembra tranquillo, ma le case sono semi-de- serte e molti cuori piangono.

La nave è rientrata intanto alla Goletta col suo dolente carico umano. Tra gli schiavi cristiani vi sono i nobili Giacomo Franceschini e sua moglie: entrambi sano venduti al Bey di Tunisi. La vita in cattività è dura, per quanto Giacomo si faccia apprezzare in tutti i pesanti lavori che gli vengono affidati. Vengono intanto al mondo due figli: Marta e Vincenzo. Trascorrono gli anni, finche arriva la sospirata libertà, e nel 1760 Giacomo si imbarca con la moglie e i figli su un veliero toscano. A bordo, la famigliola è già dimentica delle lunghe sofferenze e pregusta trepi- dante la gioia del ritorno. Ma ecco che dopo poche ore di navigazione accade qualcosa di assolutamente inatteso e che decide la sorte della piccola Marta: la nave è catturata da corsari marocchini e il Franceschini, insieme a tutti i suoi, è venduto in schiavitù ad un notabile musulmano. Gia- como, pur affranto dalla nuova sventura, non si da per vinto: perfettamente padrone della lingua araba, redige un lungo e circostanziato memoriale che invia all'impera- tore del Marocco, Sidi Mohammed. Il sultano gli concede la libertà, ma a patto che la piccola Marta resti a corte. La condizione è dura, ma Giacomo accetta e parte alla volta della patria, giurando a se stesso che, in un modo o nell'altro, avrebbe provveduto a riscattare la figlioletta.

A corte, la bambina si rivela ben presto donna d'ecce- zione: apprende con facilità la lingua aulica e con dignità ed acume discetta con gli ulema di teologia. La sua prepa- razione nelle cose islamiche diviene a poco a poco così profonda che viene nominata "tolbah", cioè dottoressa in diritto. L'interesse per la giovane - che ha intanto mutato il suo nome in quello di Dawiyah - è sempre maggiore da parte del Sultano. Egli la stima e la rispetta in misura notevole e conferma solennemente questi suoi sentimenti dichiarando Dawiyah sua sposa legittima.

Da questo momento Lolla Dawiyah - Lolla significa "Signora" nell'arabo maghrebino - vive da regina, condi- videndo onori ed affanni con il suo regale consorte.

Niente affatto dimentica dei suoi parenti lontani, Lolla Dawiyah chiama presso di sé la madre e il fratello Vin- cenzo. Le cronache raccontano che immensi e memorabili furono gli onori tributati alla famiglia della sultana. Si rac- conta, in particolare, che il sovrano fece riunire tutte le donne dell'harem in un magnifico salone, invitando poi la vecchia signora Silvia a riconoscere la propria figlia; ma fu per prima Dawiyah a precipitarsi fra le braccia materne.

Pare che il sultano si affezionasse anche a questi ina- spettati parenti e che affidasse, anzi, a Vincenzo una im- portante missione presso il Doge genevese Giovan Battista Cambiaso.

Lolla Dawiyah ebbe una soia figlia dal matrimonio con Sidi Mohammed, morta però in tenerissima età.

La sultana - che era odiata da tutte le altre donne dell'harem, essendo la prescélta del suo regale padrone - è descritta bellissima, modesta e dignitosa.

Fino ai primi anni del '900 visse a Corbara una pro- nipote di Marta; nella sua villetta essa conservava gelosa- mente cimeli e ricordi della illustre prozia.

Morto il sultano, Lolla Dawiyah si ritirò a Larache-, dove si spense nel 1812. Ma il suo ricordo rimase lunga- mente vivo in tutti quelli che la conobbero e la amarono.

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