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N. 22954/04 + 31494/04 N. 2/05 + 4/05 + 6274/04 + 47259/04 R.G. N.R. + 12/05 del Reg. Gen. 1. 18354/04 + 1888096/04 N. 10/05 del Registro + 77/05 + 86/05 R.G. GIP inserz. Sentenze CORTE D’ASSISE DI ROMA ------------------------ REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L’anno 2005 il giorno 08 del mese di LUGLIO , in Roma LA II CORTE DI ASSISE DI ROMA composta dai Signori 1. DOTT. MARIO LUCIO D’ANDRIA Presidente 2. DOTT. ELIO MICHELINI Giudice a latere 3. SIG.RA CORA MARY MESINA Giudice Popolare 4. SIG.RA SABRINA VERSCHOOR Giudice Popolare 5. SIG.RA SILVANA MANCINI Giudice Popolare 6. SIG.RA CARLA GIAMPICCOLI Giudice Popolare

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N. 22954/04 + 31494/04 N. 2/05 + 4/05 + 6274/04 + 47259/04 R.G. N.R. + 12/05 del Reg. Gen.

1. 18354/04 + 1888096/04 N. 10/05 del Registro

+ 77/05 + 86/05 R.G. GIP inserz. Sentenze

CORTE D’ASSISE DI ROMA------------------------

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L’anno 2005 il giorno 08 del mese di LUGLIO, in Roma

LA II CORTE DI ASSISE DI ROMA

composta dai Signori

1. DOTT. MARIO LUCIO D’ANDRIA Presidente2. DOTT. ELIO MICHELINI Giudice a latere3. SIG.RA CORA MARY MESINA Giudice Popolare4. SIG.RA SABRINA VERSCHOOR Giudice Popolare5. SIG.RA SILVANA MANCINI Giudice Popolare6. SIG.RA CARLA GIAMPICCOLI Giudice Popolare7. SIG.RA ROSARIA MARCHETTI Giudice Popolare8. SIG.RA ANGELA CIOCCHETTI Giudice Popolare

Con l’intervento dei Pubblici Ministeri rappresentati dal Dott. Franco Ionta, dal Dott. Pietro Saviotti e dal Dot. Erminio Amelio

e con l’assistenza dell’ausliario sig.ra Augusta Paoletti, ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa penale a rito ORDINARIO

CONTRO

1. LIOCE NADIA DESDEMONA, nata a Foggia il 29.09.1959 Res.te in Pisa via Marco Polo 7 , det. Casa Circondariale di “Sollicciano” Firenze

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- Ord. di cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 GIP del 22.10.02 e not. 2.3.2003;

- Ord. di liberazione formale per scadenza termini per i soli capi F) e G) relativa all’ord. Del 2.10.02 del GIP di Roma, emessa il 2.3.04 e notificata il 3.3.04;

- Verbale di arresto del 2.3.2003;- Ord. Di cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 GIP

del 2.3.2004 e notificata in pari data;- Ord. Di cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 GIP

del 16.4.03 e notificata il 17.04.03;- Ord. Di cust. Cautelare n. 46274/04 R.G. N.R. del 24.02.05 del

GIP di Roma, eseguita e notificata in pari data;DETENUTA - ASSENTE

2. MAZZEI MICHELE n. a Castelnuovo di Garfagnana il 5.12.1954 e ivi res. in via Arno 19 – det. per altra causa presso C.C. Cerinola;- Ord. di cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 GIP

del 22.10.02 ;- Verbale di arresto del 31.10.2002 e notifica in pari data dell’ord,

cust. Caut.;- Ord. di scarcerazione per decorrenza termini del GIP di Roma n.

32294/02 del 24.12.2003 e in pari data notificata;DETENUTO (per altro) - ASSENTE

3. FOSSO ANTONINO n. a Melito Porto Salvo il 28.03.1957 e res.te in Roma via Largo Costa n. 3 - det. per altra causa nella Casa Ciec.le di Sulmona;- Ord. di cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 GIP

del 22.10.02 not. il 31.10.2002;- Verbale di arresto del 22.10.2002 e notificato in pari data;- Ord. di scarcerazione per decorrenza termini del GIP di Roma n.

32294/02 del 24.12.2003 e in pari data notificata;DETENUTO (per altro) - ASSENTE

4. DONATI FRANCESCO nato a Roma il 02.02.1960 e ivi dom.to in via Madesimo 20 – det. per altra causa presso Casa Circ.le di Sulmona;- Ord. di cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 GIP

del 22.10.02 notif. il 31.10.2002;- Verbale di arresto in esecuzione dell’ord. del 22.10.2002 eseguito

il 31.10.2002;- Ord. di scarcerazione per decorrenza termini del GIP di Roma n.

32294/02 del 24.12.2003 e in pari data notificata;DETENUTO (per altro) – ASSENTE

5. GALLONI FRANCO nato a Roma il 01.08.1956 e ivi dom.to in via degli Adimari 98 – det. per altra causa presso Casa Circ.le di Livorno;- Ord. di cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 GIP

del 22.10.02 notif. il 31.10.2002;

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- Verbale di arresto in esecuzione dell’ord. del 22.10.2002 eseguito il 31.10.2002;

- Ord. di scarcerazione per decorrenza termini del GIP di Roma n. 32294/02 del 24.12.2003 e in pari data notificata;

- DETENUTO (per altro) – ASSENTE6. BROCCATELLI PAOLO nato a Roma il 23.04.1968 e ivi res.te in via

Tiburtina 905 – in atto detenuto presso Casa Circ.le di Civitavecchia;- Ord. di fermo di indiziato del PM n. 22491/03 R.G. N.R. del

23.10.2003. Esecuzione dell’ord. Di fermo in data 24.10.2003;- Ordinanza di convalida del fermo n. 22491/03 R.G. N.R. e n.

18354/04 GIP del 27.10.2003 emessa dal GIP e in pari data notificata.- Ordinanza proroga dei termini di custodia cautelare del GIP di

Roma, pari numero emessa in data 21.09.2004.- Ordinanza cust. Cautelare n. 46274/04 R.G. N.R. del 24.02.05

del GIP di Roma – eseguita e notificata in pari data. Ordinanza ammissione al gratuito patrocinio n. 22954/04 emessa dal GIP in data 03.6.2004.

DETENUTO – ASSENTE

7. MEZZASALMA MARCO nato a Tripoli (Libia) il 17.6.1959 e res.te in Roma via Pescaglia 71, detenuto presso Casa Circ.le di Secondigliano;- Ord. di fermo di indiziato del PM n. 22491/03 R.G. N.R. -

Ordinanza di convalida del fermo n.32294/02 R.G. N.R. del 27.10.2003 emessa dal GIP e in pari data notificata.

- Ordinanza cust. Cautelare n. 18844/02 R.G. N.R. e n. 32294/02 del 02.03.04 e notificata in pari data

- Ordinanza proroga dei termini di custodia cautelare n. 22954/04 R.G. e n. 18354/04 GIP del 21.09.2004 e notificata in pari data;

- Ordinanza cust. Cautelare n. 46274/04 R.G. N.R. del 24.02.05 GIP Roma – eseguita e notificata in pari data.

DETENUTO – ASSENTE

8. MORANDI ROBERTO, nato a Firenze il 01.05.1960 e ivi res.te in via Brenta 5, detenuto presso Casa Circondariale N.C.P. “Sollicciano” Firenze;- Fermo del 24.10.03 – Conv. E Ord. Di cust. Caut. N. 15313/03

R.G. N.R. Firenze e n. 104329/03 GIP Firenze del 25.10.03;- Ordinanza cust. Cautelare n. 22491/03 R.G. N.R. del 07.11.03

notif. l’8.11.03;- Ordinanza proroga dei termini di custodia cautelare n. 22954/04

PM e n. 18354/04 GIP del 21.09.2004;- Ordinanza cust. Cautelare n. 46274/04 R.G. N.R. del 24.02.05

GIP Roma – eseguita e notificata in pari data.DETENUTO – ASSENTE

9. COSTA ALESSANDRO nato a Roma il 03.7.1970 e ivi res.te in via Ostini 7;

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- Ord. di fermo di indiziato n. 22491/03 R.G. N.R. e Verbale di esecuzione e contestuale notifica dll’ordine di Fermo eseguita il 24.10.2003;

- Ordinanza di convalida del fermo n.22491/0 R.G. N.R. eseguita il 27.10.2003 e in pari data notificata.

- Ordinanza proroga dei termini di custodia cautelare n. 22954/04 R.G. e n. 18354/04 GIP del 21.09.2004;

- Ordinanza di arresti domiciliari della Corte di Assise n. 22954/04 PM e n. 2/05 R.G. Assise del 21.4.05.

Ordinanza amm.ne al gratuito patrocinio n. 2/05 R.G. Corte Assise dell’11.3.05DETENUTO ARR. DOM. – ASSENTE

10. SARACENI FEDERICA nata a Roma il 22.12.1969 e ivi res.te in via Lorenzo il Magnifico 117;- Ord. di fermo PM Roma n. 22491/03 R.G. Not. reato del

25.10.03 - Fermo in pari data;- Convalida e ordinanza custodia cautelare n.22491/0 R.G. N.R.

del 27.10.2003;- Ordinanza cust. Cautelare n. 18844/02 e n. 22491/03 R.G. N.R. e

n. 32294/02 GIP del 17.05.04 depositata il 18.5.04 notificata in pari data – Annullata TL ord. N. 1516/04 del 4.6.04;

- Ordinanza di arresti domiciliari della Corte di Cassazione. 6567 del 20.4.05.

DETENUTA ARR. DOM. – PRESENTE

11. BLEFARI MELAZZI DIANA nata a Roma il 04.04.1969 e ivi res.te in via del Vigneto 30/C – det. presso Casa Circ.le di Benevento;- Ord. di cust. Cautelare n. 22491/03 R.G. N.R. del 22.12.03

emessa dal GIP e in pari data notificatra;Ordinanza ammissione al gratuito patrocinio del GIP emessa il 06.5.2004.

DETENUTA – ASSENTE

12. BOCCACCINI SIMONE, nato a Firenze il 23.02.1958 e res.te in Bagno a Ripoli (FI) – Frazione Grassona – via Giuseppe Di Vittorio 90, detenuto presso Casa Circondariale Voghera;- Fermo del 29.10.03 – Conv. e Ord. di cust. Caut. N. 3156/03

R.G. N.R. e n. 104329/03 R.G. GIP Firenze del 31.10.03;- Ordinanza cust. Cautelare n. 46274/04 R.G. N.R. del 24.02.05

GIP Roma ntot. 24.02.05;- Ordinanza proroga dei termini di custodia cautelare n. 22954/04

R.G. N.R. PM e n. 18354/04 GIP del 21.09.2004;DETENUTO – ASSENTE

13. DI GIOVANNANGELO BRUNO nato a Roccascalegna il 06.10.19590 det. Arr. Dom.ri in via Betti, 1 – Pisa;

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- Ord. di convalida di fermo n. 31567/03 R.G. N.R. e n. 104329/03 GIP di Firenze del 3.11.2003 e in pari data notificata;

- Ordinanza di arresti domiciliari n. 3156/03 R.G. N.R. e n. 104329/03 GIP di Firenze del 30.04.04;

- Ordinanza proroga dei termini di custodia cautelare n. 22954/04 R.G. e n. 18354/04 GIP del 21.09.2004;

- Ord. cust. Cautelare n. 46274/04 R.G. N.R. del 24.02.05 GIP Roma;

- Esecuzione della misura e notifica in pari data;- Ordinanza di arresti domiciliari della Corte di Assise n. 18844/02

n. 22491/03 R.G. N.R. e n. 2/05 R.G. Assise del 09.6.05. DETENUTO ARR. DOM. – ASSENTE

14. VISCIDO FABIO nato a Pisa il 23.07.1957 e ivi res.te in via G.B. Funaioli n. 7;- Ord. di cust. Cautelare in carcere n. 3156/03 R.G. N.R. e n.

104329/03 GIP del 23.02.04 (del GIP di Firenze);- Ordinanza di arresti domiciliari n. 3156/03 R.G. N.R. e n.

104329/03 GIP del 30.04.04 (del GIP di Firenze);

- Ordinanza di revoca della misura cautelare n. 2/05 R.G. Corte di Assise di Roma del 04.3.05.

LIBERO – ASSENTE

15. VISCIDO MAURIZIO nato a Pisa il 06.02.1961 e ivi res.te in via G.B. Funaioli n. 7;- Ord. di cust. Cautelare in carcere n. 3156/03 R.G. N.R. e n.

104329/03 GIP del 23.02.04 (del GIP di Firenze);- Ordinanza di arresti domiciliari n. 3156/03 R.G. N.R. e n.

104329/03 GIP del 10.03.04 (del GIP di Firenze);

- Ordinanza di revoca della misura cautelare n. 2/05 R.G. Corte di Assise di Roma del 04.3.05.

LIBERO – ASSENTE

16. BADEL ROBERTO nato a Catanzaro il 29.11.1967 e res.te in Roma via Diego Angeli n. 173;- Ord. di cust. Cautelare n. 31494/04 R.G. N.R. e n. 18896/04 GIP

del 15.07.04 eseguita e notificata il 16.7.2004;- Ordinanza di arresti domiciliari della Corte di Assise Roma n.

2/05 R.G. Assise del 10.3.05. DETENUTO ARR. DOM. - PRESENTE

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PARTI CIVILI:

1. Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Pres.te del Consigli dei Ministri pro-tempore rappresentata e difesa dall’Avv. Gen.le dello Stato – via dei Portoghesi 12 Roma;

2. Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero dei servizi pubblici ed essenziali rappresentata e difesa dall’Avv. Gen.le dello Stato – via dei Portoghesi 12 Roma;

3. On.le Olga di Serio, ved. D’Antona, nata a Roma il 30.10.1946 res.te in via Salaria 128, Roma – elett.te dom.ta c/o lo studio del difensore Avv. Luca Petrucci, Cir.ne Clodia 79, Roma;

4. D’Antona Valentina, figlia del Prof. MassimoD’Antona, nata a Roma il 11.05.1974 res.te in via Slaria 128, Roma – elett.te dom.ta c/o lo studio del difensore Avv. Cristina Michetelli, Cir.ne Clodia 79, Roma;

5. Broccolini Alma nata a Tuoro (PG) il 7.9.1956;Petri Angelo nato a Castiglione del Lago (PG) l’8.2.1984;entrambi residenti in Tuoro (PG) via Firenze n. 19;Petri Leopoldo, nato a Castiglione del Lago (PG il 28.4.1956, res.te in Cortona (AR9 N.A. La Dogana n.?;Tutti elett.te domiciliati presso l’Avv.to Valter Biscotti – Corso Vannucci 107. Perugia;

6. POSTE ITALIANE Spa con sede in Roma Viale Europa 190 in persona del legale rappresentante pro-tempore prof. Avv. Enzo Cardi, elett.te dom.ta presso l’Avv.to Paola Severino con studio in Roma, via Ciro Menotti 4.

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IMPUTATI

Per il proc. 2/05 R.G. Assise e n. 22954/04 Notizie Reato:

LIOCE NADIA DESDEMONA – MAZZEI MICHELE – FOSSO ANTONINO – DONATI FRANCESCO – GALLONI MARCO – BROCCATELLI PAOLO – MEZZASALMA MARCO – MORANDI ROBERTO – COSTA ALESSANDRO – SARACENI FEDERICA – BLEFARI MELAZZI DIANA – BOCCACCINI SIMONE – DI GIOVANNANGELO BRUNO – VISCIDO FABIO – VISCIDO MAURIZIO –

Del reato p. e p. a) art. 110-112 n. 1 – 306 co. 1 e 2 c.p. aggravato dall’art. 1 della legge 15/80 e art.

270 bis c.p. in relazione agli artt. 302 – 283 e 284 c.p. per aver partecipato, in concorso tra loro e con altre persone, alla banda armata e alla associazione eversiva Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente (BR – PCC), operativa anche con altre sigle, quali NIPR e NPR, per la rivendicazione d attentati, secondo una programmata strategia di differenziazione dei livelli di lotta armata per la quale i c.d. irriducibili del carcerario autorizzavano l'uso della sigla Brigate Rosse in funzione della ripresa dell'attacco al cuore dello Stato - costituita al fine di sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e sociali dello Stato, di mutare la Costituzione dello Stato e la forma di Governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento Costituzionale dello Stato, di promuovere una insurrezione armata contro i poteri dello Stato e diretta a compiere delitti contro l'ordine democratico, l'ordine pubblico e l'incolumità pubblica e delle persone, contro la fede pubblica e il patrimonio e in tema di anni e dunque con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico; con la Lioce e il Mezzasalma in qualità di capi, per il Mezzasalma almeno dall’arresto della prima in data 2 marzo 2003; In Roma e altrove dal 1995 e con permanenza

La LIOCE, il BROCCATELLI, (la Proietti omissis), il MEZZASALMA, (la Banelli omissis), il MORANDI, la SARACENI

b) artt. 110-112 n. 1 – 624 - 625 n.ri 2, 5 e 7 - 61 n.2 c.p.. e 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15 per essersi impossessati, agendo in concorso tra loro e con altre

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persone, al fine di commettere il delitto di cui al capo e) e con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, del furgone Fiat Ducato di colore bianco targato Roma 16565 P nella disponibilità di Capozza Luciano mediante effrazione e commettendo il fatto su cosa esposta alla pubblica fede sulla pubblica via. In Roma tra le h. 16.00 del 6 maggio e le h. 17.00 del 7 maggio 1999 ed accertato il 20.05.1999.

c) artt. 110-112 n. 1 - 624-625 n.ri 2, 5 e 7 - 61 n.2 c.p. e 1 della legge 6 febbraio 1980 n.15 per essersi impossessati, agendo in concorso tra loro e con altre persone, al fine di commettere il delitto di cui al capo e) e con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, del furgone Nissan Vanette, targato VA D04735 di proprietà di Fumaselli Alessandro mediante effrazione e commettendo il fatto su cosa esposta alla pubblica fede sulla pubblica via. In Roma tra le h. 19.00 del 23 aprile e le h. 7.00 del 29 aprile 1999 ed accertato il 20 maggio 1999.

d) artt. 110-112 n. 1 - 61 n.2 c.p. e 10-12 e 14 della legne 14 ottobre 1974 n.497 e 21/23 della legge 18 aprile 1975 n. 110, 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15, per avere, agendo in concorso tra loro e con altre persone , con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico e di commettere i delitti sub e), illecitamente detenuto e portato in luoghi pubblici una pistola e relativo munizionamento di marca, allo stato imprecisabile e di calibro 9x17 (cal. 9 corto). Acc. in Roma il 20 maggio 1999 e con permanenza.

e) artt. 110-112 n.1 – 280 - 61 n.ri 2 e 10 C.P. perché in concorso con altre persone in numero superiore a 5, con premeditazione e con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, volontariamente cagionavano la morte del professor Massimo D’Antona, a causa dell’adempimento delle sue funzioni di docente di diritto del lavoro presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli Studi “La Sapienza” di Roma e consulente giuridico della Presidenza del Consiglio e del Ministro del Lavoro Antonio Bassolino, esplodendogli contro n.6 colpi di pistola che lo attingevano in zone vitali; ciò allo a scopo di dare attuazione – esplicitato mediante le successive rivendicazioni - della banda di cui al capo a), anche mediante conduzione di una c.d. inchiesta sugli orari e sui percorsi degli spostamenti della vittima, per diverse settimane precedenti all’omicidio nonché mediante concertato presidio della zona di esecuzione dell’attentato, in funzione di copertura e recupero dei complici incaricati ad affrontare il prof. D'Antona e colpirlo con le armi da sparo.In Roma alla h. 8.30 circa del 20 maggio 1999.

La LIOCE

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f) artt. 110-112 n.1 - 648 - 61 n.2 c.p. e 1 della legge 6 febbraio 1980 n.15 per aver acquistato, agendo in concorso con altre persone, tra le quali Galesi Mario, deceduto, o comunque ricevuto al fine di profitto e con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico e con lo scopo di fornirsi una identità di copertura per svolgere le attività di militante delle BR-PCC, un modulo per carta d'identità in bianco conoscendone la provenienza dal furto commesso in danno del Comune di Casape (Roma) il 10.03.1999.In Roma in epoca antecedente e prossima al 29 aprile 1999 e accertato in Arezzo il 2 marzo 2003.

g) artt.110-112 n.1 – 476/482 - 468 c.p. 1 della legge 6 febbraio 1980 n.15 per aver confezionato o fatto confezionare, agendo in concorso con altre persone, tra le quali Galesi Mario, deceduto, con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, una falsa carta d'identità utilizzando il modulo in bianco n. AD 383888 e apponendovi la propria fotografia formato tessera e le generalità di Bizzarri Rita nata a Roma il 20.10.1966 nonché il falso timbro del Comune di Roma. In Roma (presumibilmente) il 29 aprile 1999 e accertato in Arezzo il 2 marzo 2003.

h) artt. 110-112 n.1 - 61 n.2 c.p. e 10-12 e 14 della legge 14 ottobre 1974 n.497 e 21/23 della legge 18 aprile 1975 n.110, 1 della legge 6 febbraio 1980 n.15, per avere, agendo in concorso con altre persone, tra le quali Galesi Mario, deceduto, con finalità dì terrorismo e di eversione dell'ordine democratico e di commettere il delitto sub d) illecitamente detenuto e portato in luoghi pubblici una pistola Beretta mod. 70 cal. 7.65, con matricola abrasa, completa di munizionamento.In Roma e accertato in Arezzo il 2 marzo 2003.

La LIOCE, il MEZZASALMA, la BLEFARI

i) artt. 110-112 n. 1 c.p. 10 e 12 della 14 ottobre 1974 n.497, 21 della legge 18 aprile 1975 e n. 110 e 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15, perché in concorso con altri, con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, detenevano e portavano ingenti quantità di materiale esplosivo, numerosi detonatori, due bombe a mano;

In Roma fino al 20 dicembre 2003

La LIOCE e il MEZZASALMA

l) delitto previsto e punito dagli articoli 110, 112 nr. 1, 61 nr. 2, 8 1 cpv. - 285, 423, c.p. – 10, 12, 13 legge 14/10/1974 nr. 497, 21 legge 18/4/1975 nr. 110, 1 legge 06/02/1980 nr. 15; 2) delitto previsto e punito dagli articoli 110, 112 nr. 1, 61 nr. 2, 81 -cpv.-, 56, 419, c.p.- 10, 12, 13 legge 14/10/1974 nr. 497, 21 legge 18/4/1975 nr. 110, 1 legge 06/02/1980 nr. 15, perché, in concorso con

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altri soggetti non identificati, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, di incutere pubblico timore e di attentare alla sicurezza dello Stato in relazione al primo episodio, compivano fatti di devastazione, collocando e facendo esplodere un ordigno presso la sede della Commissione di Garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi Pubblici essenziali in Roma via Po' e presso la sede dell'Istituto Affari Internazionali e dell'Associazione Consiglio per le Relazioni Italia e USA in Roma via Brunetti , - attentati rivendicati a nome dei Nuclei di Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria ma decisi e attuati dall'associazione con finalità di terrorismo BR – PCC -;per aver quindi collocato e tentato di far esplodere due ordigni presso la sede della Confederazione sindacale CISL in Milano in via Tadini, - attentato rivendicato a nome del Nucleo Proletario Rivoluzionano ma ugualmente deciso e attuato dall'associazione con finalità di terrorismo BR pcc - ; per aver altresì detenuto e portato materiale esplosivo confezionato nei suddetti ordigni per eseguire gli attentati;in Roma 14 maggio 2000 e 10 _aprile 2001 e in Milano 6 luglio 2000

(Banelli omissis), MORANDI, VISCIDO Fabio

m) artt. 110, 635 co. 23 n. 3) c.p., art. 1 L. 15/80, perché, in concorso tra loro e con altri correi allo stato non identificati danneggiavano i locali dell'agenzia di lavoro interinale "Obiettivo Lavoro" con sede in Firenze via Mariti appiccando il fuoco alla porta di ingresso utilizzando una spugna imbevuta di materiale infiammabile; rivendicando l'azione con un documento a firma “Nucleo Proletario Combattente”, con l'aggravante di avere agito per finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine democratico.

In Firenze il 12 agosto 2002

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Per il proc. 4/05 R.G. Assise e n. 31494/04 notizie reato P.M. (riunito il 10/03/05) C/: BADEL ROBERTO

A) art. 110-112 n. 1 – 306 co. 1 e 2 c.p. aggravato dall’art. 1 della legge 15/80 e art. 270 bis c.p. in relazione agli artt. 302 – 283 e 284 c.p. per aver partecipato, con LIOCE Nadia Desdemona, GALESI Mario, MEZZASALMA Marco, BLEFARI MELAZZI Diana ed altri, alla banda armata e alla associazione eversiva Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente (BR – PCC), operativa anche con altre sigle, quali NIPR e NPR, per la rivendicazione d attentati, secondo una programmata strategia di differenziazione dei livelli di lotta armata - per la quale i c.d. irriducibili del carcerario autorizzavano l'uso della sigla Brigate Rosse in funzione della ripresa dell'attacco al cuore dello Stato - costituita al fine di sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e sociali dello Stato, di mutare la Costituzione dello Stato e la forma di Governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento Costituzionale dello Stato, di promuovere una insurrezione armata contro i poteri dello Stato e diretta a compiere delitti contro l'ordine democratico, l'ordine pubblico e l'incolumità pubblica e delle persone, contro la fede pubblica e il patrimonio e in tema di anni e dunque con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico; con la Lioce e il Mezzasalma in qualità di capi, per il Mezzasalma almeno dall’arresto in data 2 marzo 2003; In Roma e altrove dal 1995 e con permanenza

B) art. 110-112 n. 1 c.p. 10 e 12 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, 21 della legge 18 aprile 1975 n. 110 e 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15, perchè in concorso con LIOCE Nadia Desdemona, GALESI Mario, MEZZASALMA Marco, BLEFARI MELAZZI Diana ed altri, con finalità di terrorismo di eversione dell’ordine democratico, detenevano e portavano ingenti quantità di materiale esplosivo, numerosi detonatori, due bombe a mano.In Roma fino al 20 dicembre 2003

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Per il proc. 12/05 R.G. Assise e n. 46374/04 N.R. (riunito il 26/05/05) C: LIOCE NADIA DESDEMONA – BOCCACCINI SIMONE - MORANDI ROBERO – BLEFARI MELAZZI DIANA - BROCCATELLI PAOLO - MEZZASALMA MARCO - DI GIOVANNANGELO BRUNO

LIOCE NADIA DESDEMONA – MORANDI ROBERO – BROCCATELLI PAOLO - MEZZASALMA MARCO - DI GIOVANNANGELO BRUNO

A) del reato p. e p. dagli artt. 110 –61 n. 2 – 81 cpv – 628 co. 3° n. 1, art. 1 L. 15/1980, perchè in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia, per la quale si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e con altri soggetti allo stato non identificati, in esecuzione al medesimo disegno criminoso, travisati anche mediante utilizzo di barbe e baffi finti, con apporti casuali diversi ma convergenti verso l’identico fine, dopo aver effettuato nei giorni precedenti il controllo del percorso dei furgoni postali ed aver effettuato le prove ardio per il posizionamento delle “staffette”, nonchè in particolare:

- il GALESI con altro soggetto sconosciuto puntando una pistola alla schiena di INNOCENTI Fabrizio (autista del furgone portavalori) e minacciando i presenti con le armi in pugno e successivamente impossessandosi del furgone stesso all’interno del quale uno si poneva alla guida dandosi alla fuga con i complici saliti a bordo;

- la BANELLI, il MORANDI, il MEZZASALMA e il BROCCATELLI (eseguendo in precedenza le attività d’inchiesta, la BANELLI anche effettuando le “prove radio”) e tutti fornendo loro ausilio sotto forma di “staffette” e portando sul luogo della rapina o nelle immediate vicinanze una vettura Fiat Uno targata FIE72838 di colore celeste (rubata in precedenza a BURRINI Fabrizio che ne aveva sporto denuncia presso la Stazione Carabinieri di Firenze il 5.5.1998) che abbandonavano sul posto;

- il DI GIOVANNANGELO fornendo tutte le notizie utili circa il periodo di arrivo del denaro trasportato dal furgone postale e sul percorso cittadino seguito dallo stesso, per l’identificazione dei sacchi contenenti i valori (cd “tagliandini dei dispacci postali””), sul tipo di cassaforte in uso, sul

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funzionamento del sistema di videoripresa, sulla dislocazione degli uffici, nonchè partecipando alle “prove radio”;

- la LIOCE, richiedendo l’elenco “tramite la BANELLI” degli uffici postali al DI GIOVANNANGELO per le successive attività di inchiesta, nella qualità di ideatrice e organizzatrice e, per aver ricevuto, unitamente al GALESI, materialmente l’intera somma immediatamente dopo la rapina direttamente dalla BANELLI e dal MORANDI;

con violenza e minaccia posta in essere con l’utilizzo di armi e spingendo con la forza gli impiegati, al fine di trarne profitto s’impossessavano del furgone postale FIAT DUCATO targato AH214AJ e di sette dispacci postali (cartellini identificativi dei quali venivano rinvenuti nel covo dell’Organizzazioe di via Montecuccoli in Roma) e del denaro in essi contenuto (che si trovavano all’interno del citato furgone) ed in particolare della somma di denaro contante di £. 255 milioni sottraendola all’ufficio postale di MEZZANA. Con le aggravanti di aver commesso il fatto facendo uso di armi e agendo per finalità di terrorismo allo scopo di finanziare l’associazione terroristica Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

In San Giuliano Terme frazione Mezzana (PI) il 13.05.1998.

B) del reato p.e p. dagli artt. 110 – 81 cpv. – 61 n. 2 c.p. – artt. 10. 12 e 14 L. 497/74 e art. 1. L. 15/80, perchè in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia, per la quale si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario ed altri soggetti allo stato non identificati, in esecuzione al medesimo disegno criminoso ed al fine di commettere il reato di cui al capo A) detenevano illegalmente e portavano in luogo pubblico, per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale, armi da sparo, pistole, di cui facevano uso nel corso della rapina.Con l’aggravante di aver agito per finalità di terrorismo essendo gli stessi appartenenti all’associazione terroristica Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

In San Giuliano Terme frazione Mezzana (PI) il 13.05.1998.

C) del delitto di cui agli artt. 110 - 8l cpv. - 61 n. 2 e 7 - 624 - 625 n. 2 e 7 cp perché in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia, per la quale si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri soggetti allo stato non identificati, in esecuzione al medesimo disegno criminoso ed al fine di commettere il reato di cui al capo A) al fine di trarne profitto sottraevano a BURRINI Fabrizio l'autovettura Fiat Uno targata FIE72838 di colore celeste, utilizzandola successivamente per commettere la rapina di cui al capo A) - denuncia di furto alla Stazione Carabinieri di Firenze del 5/05/1995. Con 1'aggravante di aver commesso il fatto con violenza sulle cose e sui beni esposti per necessità e consuetudine alla pubblica fede e di aver agito per finalità di terrorismo essendo gli stessi appartenenti

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all'associazione terroristica Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

In Firenze il 5/05/1995.

LIOCE NADIA DESDEMONA - MORANDI ROBERTO – BOCCACCINI SIMONE - BROCCATELLI PAOLO - MEZZASALMA MARCO – DI GIOVANNANGELO BRUNO =

D) del reato p. e p. dagli artt. 110 - 61 n. 2 - 81 cpv - 625 co. 3° n. 1, art. 1 L. 15/1950, perché in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia e PROIETTI Laura,

per le quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri soggetti allo stato non identificati, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, travisati anche mediante l'utilizzo di barbe e baffi finti, con apporti causali diversi ma convergenti verso l'identico fine, eseguendo una preliminare attività d'inchiesta sui luoghi e poi in particolare:

- il GALESI con altro soggetto rimasto sconosciuto entrando all'interno degli uffici dalla porta d'ingresso laterale (porta antipanico) spingendo con violenza l'impiegata BERTI Marta all'atto in cui la stessa stava uscendo minacciando con le armi in pugno gli impiegati e i clienti presenti, e asportando materialmente dalle casse e dalla cassaforte il denaro;

- la LIOCE, la BANELLI, il MORANDI, il MEZZASALMA, la PROIETTI, il BOCCACCINI e il BROCCATELLI, fornendo loro ausilio sotto forma di staffette e portando sul luogo della rapina o nelle immediate vicinanze un furgone FIORINO con all'interno due ciclomotori (la BANELLI con l'aiuto del MORANDI che la precedeva altra vettura per evitare i controlli delle forze dell'Ordine) in precedenza rubati a i legittimi proprietari, da utilizzare per la fuga;

- DI GIOVANNANGELO fornendo tutte le notizie utili circa il periodo di arrivo del denaro, il tipo di cassaforte, il funzionamento del sistema di videoripresa e delle porte blindate e, in Generale, la dislocazione degli uffici;

Con violenza e minaccia posta in essere con l'utilizzo di armi e spingendo con la forza gli impiegati facendoli sbattere contro il muro, al fine di trarne profitto si impossessavano della somma di £ 300 - 350 milioni sottraendoli all'ufficio postale di Siena succursale 1^ di via Vittorio Emanuele.Con le aggravanti di aver commesso il fatto facendo uso di armi e avendo per finalità di terrorismo e allo scopo di finanziare l'associazione terroristica Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.In Siena il 2/12/1999.

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E) Del reato p. e p. dagli arti. 110 - 81 cpv. - 61 n. 2 cp - artt. 10, 12 e 14 L. 497/74 e art. 1 L. 15/80, perché in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia, e PROIETTI Laura, per le quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri soggetti allo stato non identificati, in esecuzione al medesimo disegno criminoso ed al fine di commettere il reato di cui al capo D) illegalmente detenevano e portavano in luogo pubblico per finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine costituzionale, armi da sparo, verosimilmente pistole, di cui facevano uso all'interno dell'ufficio postale e nel corso della fuga sparavano un colpo all'indirizzo di COCCOLETTI Valentino che era intervenuto per bloccare uno dei fuggitivi.Con l'aggravante di aver agito per finalità di terrorismo essendo gli stessi appartenenti all'associazione terroristica Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

In Siena il 2/12/1999

F) Del delitto di cui agli artt. 110 - 81 cpv. - 61 n. 2 - 624 - 625 n. 2 e 7 c.p. perché in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia e PROIETTI Laura, per le quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri soggetti allo stato non identificati, in esecuzione al medesimo disegno criminoso ed al fine di commettere il reato di cui al capo D) sottraevano, al fine di trarne profitto, a BELTRAMI Gabriella il ciclomotore marca Honda SH 50 di colore blu con targhetta identificativa 3ENAG e avente n. di telaio 7007285 utilizzandolo successivamente per commettere la rapina di cui al capo D). - denuncia di furto alla Stazione Carabinieri di Firenze in data 1/12/1999.Con l'aggravante di aver commesso il fatto con violenza sulle cose e sui beni esposti per necessità e consuetudine alla pubblica fede e di aver agito per finalità di terrorismo essendo gli stessi appartenenti al l'associazione terroristica Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.

In Firenze tra il 29 e 30 novembre 1999.

LIOCE NADIA DESDEMONA - MORANDI ROBERTO – BOCCACCINI SIMONE - MEZZASALMA MARCO - BLEFARI MELAZZI DIANA – DI GIOVANNANGELO BRUNO

G) Del delitto di cui agli artt. 110 - 628, III comma nr. l cp; art. 1 L. n. 15/80 perché in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri correi allo stato non identificati, avendo la BANELLI concorso alla ideazione e alle fasi organizzative e preliminari, il DI GIOVANNANGELO ed il VISCIDO Maurizio avendo fornito informazioni determinanti, gli altri fornendo il loro contributo anche alla fase esecutiva, mediante minacce compiute impugnando armi da sparo, di cui una da guerra (mitragliatore di marca imprecisata) si impossessavano della somma di euro 62.774,53 che sottraevano al personale dell'ufficio postale di Firenze 5 di via Torcicoda. Con le aggravanti di aver

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commesso il fatto in più persone riunite, travisate con l'uso di armi e agendo per finalità di terrorismo dovendo servire la rapina per finanziare l'attività dell'associazione terroristica BR PCC (Brigate Rose per la Costruzione del Partito Comunista Combattente).

In Firenze, il 6 febbraio 2003.

H) Del delitto di cui agli artt. 110 - 61 n. 2 cp; 10, 12 e14 L. 497/74; art 1 L. n. 15/80, perché in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri correi allo stato non identificati, e al fine di compiere la rapina di cui al capo G), illegalmente detenevano e portavano in luogo pubblico, per finalità di terrorismo e di eversione all'ordine costituzionale, le armi da sparo e da guerra, verosimilmente due pistole e una mitraglietta.

In Firenze, il 6 febbraio 2003.

I) Del delitto di cui agli arti. 110 - 61 n. 2 - 624 - 625 n. 7 cp; perchè al fine di compiere la rapina di cui al capo G) in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri correi allo stato non identificati, si impossessavano al fine di trarne profitto, del contrassegno per identificazione di ciclomotore 7Z5DH che sottraevano dal ciclomotore parcheggiato sulla pubblica via da RAVA Andrea, e che poi applicavano al ciclomotore PIAGGIO FREE (acquistato dalla LIOCE in Roma, il 5.07.2002 da BIAGETTI Francesca) e utilizzato per commettere la rapina.

In Firenze il 5.07.2002.

L) del delitto di cui agli artt. 110 - 61 n. 2 – 624 - 625 n. 7 c p; perchè al fine di compiere la rapina di cui al capo G) in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri correi allo stato non identificati, si impossessavano al fine di trarne profitto, del ciclomotore HONDA SH telaio ZDCAF40WF115982 (originariamente munito di contrassegno 4WY2Y) parcheggiato sulla pubblica via che sottraevano a ZAHARIA Marinala e COSTANTINI Antonella.

In Roma il 19.09.2002.

M) del delitto di cui agli arti. 110 - 61 n. 2 - 648 cp, perché al fine di compiere la rapina di cui al capo G) in concorso tra loro, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, con il defunto GALESI Mario e altri correi allo stato non identificati, acquistavano o comunque ricevevano da persone non identificate, il contrassegno per identificazione di ciclomotore 5HA7N, originariamente applicato sul ciclomotore PIAGGIO VESPA provento di furto commesso in Firenze il 19 luglio 2000 in danno di CONA Saverio (denunciato come smarrimento), contrassegno che veniva poi apposto sul ciclomotore HONDA SH telaio ZDCAF40WF115932.

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Accertato in Firenze il 6.02.2003 in occasione del delitto di cui al capo G).

N) del delitto di cui agli artt. 110 - 56 - 628 - comma 3 n. 1 cp; art. 1 L. n. 15/80 perchè in concorso tra loro, con il defunto GALESI Mario, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, e con altri correi allo stato non identificati, avendo il DI GIOVANNANGELO ed il VISCIDO Maurizio, fornito informazioni determinanti, gli altri fornendo il loro contributo anche alla fase esecutiva, mediante violenza consistita nel fare esplodere un rudimentale ordigno esplosivo (mentre un altro ordigno non veniva attivato) all'interno dell'ufficio postale Firenze 15 di via Tozzetti così minacciando il personale compivano atti idonei e diretti in modo non equivoco a impossessarsi del denaro e di valori detenuti nel predetto ufficio postale; Con le aggravanti di aver commesso il fatto con l'uso di armi e agendo per finalità di terrorismo dovendo servire la rapina per finanziare l'attività dell'associazione terroristica.

In Firenze il 5.12.2002.

O) del delitto di cui agili artt. 110 - 61 n. 2 cp; 10, 12 e 14 L. 497/74; art. 1 L. n.15/80, perché in concorso tra loro, con il defunto GALESI Mario, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, e con altri correi allo stato non identificati, e al fine di compiere la rapina di cui al capo N), illegalmente detenevano e portavano in luogo pubblico, per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale, i due ordigni esplosivi sopra indicati.

In Firenze il 5.12.2002.

P) del delitto di cui agli art. (110 - 61 n. 2 - 624 - 625 nn. 2 e 7 cp; perché in concorso tra loro, con il defunto GALESI Mario, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, e con altri correi allo stato non identificati, e al fine di compiere la rapina di cui al capo N), si impossessavano, al fine di trarne profitto, mediante violenza sulle cose, del veicolo FIAT FIORINO, originariamente targato FI K46080, di proprietà della ditta MAGIF srl con sede in Sesto Fiorentino (FI) parcheggiato in Firenze sulla pubblica via, che sottraevano al detentore ACERBI Carlo. Con le aggravanti di aver commesso il fatto con violenza e su cose esposte alla pubblica fede.

In Firenze il 23.10.2002.

Q) del delitto di cui agli artt. 110 - 61 n. 2 - 624 - 625 nn. 2 e 7 cp perché in concorso tra loro, con il defunto GALESI Mario, con BANELLI Cinzia e VISCIDO Maurizio, per i quali si è proceduto separatamente, e con altri correi allo stato non identificati, e al fine di compiere la rapina di cui al capo N), si impossessavano, al fine di trarne profitto e mediante violenza sulle cose, delle targhe auto BS524DB, apposte poi sul veicolo di cui al capo P), che sottraevano

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a PICCINI Eleonora. Con le aggravanti di aver commesso il fatto con violenza e su cose esposte alla pubblica fede.

In Firenze il 9.11.2002.

Il Pubblico Ministero all'udienza del 17/02/05 procede a nuova contestazione:

nei confronti del MORANDI, in relazione al capo a), ai sensi degli artt. 270 bis primo comma e 306 terzo comma cp, per il ruolo di dirigente dell'associazione eversiva e della banda armata Brigate Rosse partito comunista combattente a far data dal marzo 2002;

nei confronti del MORANDI e del BOCCACCINI nel maggio 2003 e nei confronti del BROCCATELLI nell'ottobre 2003, per il concorso nel delitto di cui al capo i) artt. 110, 112 n. 1 cp 10 e 12 della L. 14 ottobre 1974 n. 497, 21 della legge 18 aprile 1975 n. 110 e 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15, perché in concorso con altri, con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, detenevano e portavano ingenti quantità di materiale esplosivo, numerosi detonatori, due bombe a mano;In Roma fino al 20 dicembre 2003.

nei confronti del DI GIOVANNANGELO per il concorso nel delitto di cui al capo i) artt. 110, 112 n. 1 cp 10 e 12 della L. 14 ottobre 1974 n. 497, 21 della legge 18 aprile 1975 n. 110 e 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15, perché in concorso con altri, con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, detenevano e portavano ingenti quantità di materiale esplosivo, numerosi detonatori, due bombe a mano;In Roma fino al 20 dicembre 2003.Limitatamente al reperimento e alla detenzione dei detonatori.

nei confronti del MORANDI, per il concorso nel delitto di cui al capo1) delitto previsto e punito dagli artt. 110, 112 n. 1, 61 n. 2, 8l cpv. - 285 - 423 cp - 10, 12 e 13 della L. 14 ottobre 1974 n. 497, 21 della legge 18 aprile 1975 n. 110 e 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15;2) delitto previsto e punito dagli articoli 110, 112 n. 1, 61 n. 2, 8l cpv - 56, 419 cp - 10, 12 e 1 3 della L. 14 ottobre 1974 n. 497, 21 della legge 18 aprile 1975 n. 110 e 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15 perché, in concorso con altri soggetti non

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identificati, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico, di incutere pubblico timore e di attentare alla sicurezza dello Stato in relazione al primo episodio, compivano fatti di devastazione;collocando e facendo esplodere un ordigno presso la sede della Commissione di Garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali in Roma via Po' e presso la sede dell'Istituto Affari Internazionali e dell'Associazione Consiglio per le Relazioni Italia e USA in Roma via Brunetti, - attentati rivendicati a nome dei Nuclei di Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria ma decisi c attuati dall'associazione con finalità di terrorismo BR - PCC - ; per aver quindi collocato e tentato di far esplodere due ordigni presso la sede della Confederazione sindacale CISL in Milano in via Tadini, - attentato rivendicato a nome del Nucleo Proletario Rivoluzionario ma ugualmente deciso e attuato dall’associazione con finalità di terrorismo BR - PCC - ;per aver altresì detenuto e portato materiale esplosivo confezionato nei suddetti ordigni per eseguire gli attentati;In Roma il 14 maggio 2000 e il 10 aprile 2001; in Milano il 6 luglio 2000;Limitatamente al fatto del 6 luglio 2000 in Milano.

Nei confronti del BROCCATELLI per il concorso, unitamente a LIOCE, BANELLI, MORANDI, BOCCACCINI, MEZZASALMA, BLEFARI, DI GIOVANNANGELO e VISCIDO, per i quali si procede separatamente:

A1) del delitto di cui agli artt. 110, 628 co 3 n. 1 cp, art. 1 L. n. 15/80 perché, in concorso tra loro, con il defunto GALESI Mario ed altri correi allo stato non identificati, avendo la BANELLI concorso all'ideazione e alle fasi organizzative e preliminari, il DI GIOVANNANGELO ed il VISCIDO Maurizio avendo fornito informazioni determinanti gli altri fornendo il loro contributo anche alla fase esecutiva, mediante minacce compiute impugnando armi da sparo di cui una da guerra, (mitragliatore di marca imprecisata) si impossessavano della somma di € 62.774,53 che sottraevano al personale dell’Uffcio Postale Firenze 5 di via Torcicoda; con le aggravanti di avere commesso il fatto in più persone riunite, travisate, con l'uso di armi e agendo per finalità di terrorismo dovendo servire la rapina per finanziare l'attività dell'associazione terroristica BR - PCC (Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente).In Firenze, il 6 febbraio 2003.

B1) del delitto di cui agli arti. 110 cp, 10, 12 e 14 L. 497/74, 1 L. 15/80, 61 n. 2 c p, perché, in concorso tra loro, con il defunto GALESI Mario e con altri correi allo stato non identificati, al fine di compiere la rapina indicata al capo A), illegalmente detenevano e portavano in luogo pubblico, per finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine costituzionale, le armi da sparo e da guerra, verosimilmente due pistole e una mitraglietta.In Firenze il 6 febbraio 2003.

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C1) del delitto di cui agli artt. 110, 624, 625 n. 7, 61 n. 2 cp, perché, al fine di compiere la rapina indicata al capo A), in concorso tra loro, con il defunto GALESI Mario e con altri correi allo stato non identificati, si impossessavano, al fine di trarne profitto, del contrassegno per identificazione di ciclomotore 7Z5DH che sottraevano dal ciclomotore, parcheggiato sulla pubblica via, di Rava Andrea, e che poi applicavano al ciclomotore Piaggio Free (acquistato dalla Lioce in Roma il 5 luglio 2002 da Biagetti Francesca) e utilizzato per commettere la rapina.In Firenze, il 5 luglio 2002.

D1) del delitto di cui agli artt. 110, 624, 625 n. 7, 61 n. 2 cp, perché, al fine di compiere la rapina indicata al capo A), in concorso con il defunto GALESI Mario e con altri correi allo stato non identificati, si impossessavano, al fine di trarne profitto, del ciclomotore Honda SH telaio ZDCAF40WF115982 (originariamente munito di contrassegno 4WY2Y) parcheggiato sulla pubblica via, che sottraevano a Zaharia Marinela e Costantini Antonella. In Roma, il 19 settembre 2002.

E1) del delitto di cui agli artt. 110, 648, 61 n. 2 cp, perché, a1 fine di compiere la rapina indicata al capo A), in concorso con il defunto GALESI Mario e con altri correi allo stato non identificati, acquistavano o comunque ricevevano da persone non identificate, il contrassegno per identificazione di ciclomotore 5HA7N, originariamente, applicato sul ciclomotore Piaggio Vespa, provento di furto commesso in Firenze il 19 luglio 2000 in danno di Cona Saverio (denunciato come smarrito), contrassegno che veniva poi apposto sul ciclomotore Honda SH telaio ZDCAF40WF115982. Accertato in Firenze, in occasione del delitto di cui al capo A).

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CONCLUSIONI

PM:- LIOCE: la condanna alla pena dell'ergastolo con mesi diciotto di isolamento diurno;

- MORANDI: ergastolo, mesi dieci di isolamento diurno;

- MEZZASALMA: ergastolo, mesi sei di isolamento diurno;

- BROCCATELLI: ergastolo, mesi due di isolamento diurno;

- SARACENI: assoluzione con formula dubitativa, cioè con il 530 capoverso per i reati accessori all'omicidio, condanna per tutti gli altri reati in ricorrenza delle attuanti di cui all'art. 114 primo comma, in ordine al reato di attentato: reato base per la continuazione, reclusione di anni ventuno;

- BLEFARI NIELAZZI: continuazione per il reato base di rapina aggravata più grave, anni venti ed euro 2.000,00 (duemila);

- BOCCACCINI: continuazione, reato base per la rapina aggravata, anni diciotto ed euro 1.500,00 (mille e cinquecento);

- Di GIOVANNANGELO: continuazione, reato base la rapina aggravata, circostanze attenuanti generiche anni dodici ed euro 1.200,00 (mille e duecento);

- COSTA: reato più grave tra i due contestati nello stesso capo, art. 270 bis, reclusione in anni cinque;

- BADEL: reato più grave dell’art. 270 bis, in presenza di attenuanti generiche, anni tre e mesi sei, assoluzione rapporto di armi;

- FOSSO, MAZZEI, DONATI e GALLONI: reclusione in anni cinque;

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- Fratelli VISCIDO: assol. al sensi del 5 30 per non aver commesso il fatto.

- Interdizione perpetua dai pubblici uffici per tutti gli imputati fino a DI GIOVANNANGELO;

- Interdizione temporanea per tutti gli altri imputati e pubblicazione della sentenza di condanna.

DIFENSORI PARTI CIVILI:

Avvocatura Generale dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e per la Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali:

- Chiede affermarsi la penale responsabilità degli imputati. Risarcimento dei danni come da nota spese in atti.

Avv. Massimiliano Foschini per POSTE ITALIANE SPA:- Chiede affermarsi la penale responsabilità degli imputati. Risarcirnento dei

danni come da nota spese in atti.

Avv. Valter Biscotti per i familiari di Petri Emanuele:- Chiede affermarsi la penale responsabilità degli imputati. Risarcirnento dei

danni come da nota spese in atti.

Avv. Cristina Michetelli per la Valentina D'Antona:- Chiede affermarsi la penale responsabilità degli imputati. Risarcirnento dei

danni come da nota spese in atti.

Avv. Luca Petrucci per Olga di Serio - ved. D'Antona:- Chiede affermarsi la penale responsabilità degli imputati. Risarcirnento dei

danni come da nota spese in atti.

DIFENSORI IMPUTATI

Avv. Debora Zigami per Mazzei Michele, Fosso Antonino e Galloni Michele:- Non rassegna conclusioni – si rimette alla Corte.

Avv. Marco Gliosci per Lioce Nadia Desdemona e Morandi Roberto:- Non rassegna conclusioni – si rimette alla Corte.

Avv. Sandro Guerra e Avv. Eriberto Rosso per Simone Boccaccini:

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- Assoluzione a i sensi dell'ars. 530 CP, per non aver commesso il fatto.

Avv. Massimo Focacci e Avv. Ezio Menzione per Viscido Fabio e Viscido Maurizio: - Assoluzione ai sensi dell'art. 530 CP, 1 ° co.

Avv. Isabella Bartoli e Avv. Ezio Menzione per Di Giovannangelo Bruno:- Assoluzione ai sensi dell'art. 530 CP, 2° co per la rapina di Siena - minimo

della pena per gli altri reati - concessione delle attenuanti generiche.

Avv. Franco Coppi e Francesco Misiani per Federica Saraceni: - Assoluzione ai sensi dell'art. 530 CP 1° co per tutti i reati.

Avv. Marco Lucentini per Costa Alessandro: - Assoluzione ai sensi dell'art. 530 CP 1 ° co per tutti i reati.

Avv. Flavio Rossi Albertini e Avv. Caterina Calia per Badel Roberto: - Assoluzione ai sensi dell'art. 5 30 CP 1° co.

Avv. Caterina Calia per Mezzasalma Marco e Blefari Melazzi Diana: - Non rassegna conclusioni.

Avv. Crestina Gatti Porcinari per Donati Francesco: - Assoluzione ai sensi dell'art. 530 CP 1° co.

Avv. Anna Isa Garcia per Broccatelli Paolo: - Assoluzione ai sensi dell'art. 530 CP 1° co per l'omicidio D'Antona e le rapine. - Assoluzione ai sensi dell'art. 530 CP 1° co per tutti gli altri capi di

imputaziorie. Attenuanti generiche e benefici di legge.

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MOTIVAZIONE

I fatti criminosi commessi dall’organizzazione eversiva nella sua evoluzione dagli N.C.C. alle B.R.-P.C.C.

A tutti gli imputati del presente procedimento sono stati contestati i reati previsti dagli artt. 306 e 270-bis c.p., per avere fatto parte, in qualità di capi o di semplici partecipanti, di una organizzazione, qualificabile come banda armata e come associazione eversiva, che ha operato con varie sigle, utilizzando all’inizio la denominazione N.C.C. (Nuclei Comunisti Combattenti) e da ultimo quella delle B.R.-P.C.C. (Brigate Rosse per la Formazione del Partito Comunista Combattente). Molti degli imputati sono stati, inoltre, accusati di aver concorso nella esecuzione di vari atti criminosi commessi, con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, tra il 1998 e il 2003 in varie località dell’Italia. Negli anni ’70 e ’80 le Brigate Rosse si erano rese responsabili di efferati delitti, eseguendo una serie di omicidi “politici”, e la loro attività si era interrotta nel 1988-1989, quando l’arresto di gran parte dei loro esponenti aveva portato alla disarticolazione dell’organizzazione ed aveva reso necessaria la c.d. “ritirata strategica”. Dopo alcuni anni di tregua, nella notte del 18 ottobre 1992, veniva compiuto un attentato a Roma in viale dell’Astronomia n. 30, presso la sede della Confindustria. All’interno del cancello di ingresso dello stabile, veniva lanciato un borsone contenente circa 5 kg. di esplosivo, due detonatori e alcuni spezzoni di miccia. Fortunatamente l’ordigno non esplodeva, in quanto era stato confezionato in modo non idoneo (testi: Giannini, udienza 14.3.05, p. 112 della trascrizione; Macilenti, ud. 12.5.05, p. 35 ss.)..

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Sul luogo veniva rinvenuto un registratore con un nastro, nel quale risultava riprodotta una voce che ripeteva più volte la frase <<attenzione, allontanatevi immediatamente, sta per esplodere una bomba ad alto potenziale, allontanatevi immediatamente dalla zona>>. La presenza di questo apparecchio, il cui funzionamento doveva ovviamente precedere l’esplosione, faceva intendere che gli attentatori volevano porre in essere un’azione dimostrativa, con danni alle cose e non anche alle persone. Nel corso della stessa giornata del 18 ottobre 1992, con telefonate all’ANSA e a “Il Messaggero”, l’attentato veniva rivendicato da un’organizzazione denominata Nuclei Comunisti Combattenti - N.C.C..

Nei giorni successivi l’attentato veniva nuovamente rivendicato dagli N.C.C. con diverse modalità: un giovane a bordo di un ciclomotore, davanti alla stazione “Anagnina” della metropolitana a Roma, lanciava una grossa quantità di volantini; su un cavalcavia dell’autostrada Roma-Fiumicino, nei pressi della Magliana, veniva appeso uno striscione con la scritta <<attaccare patto governo, industria e sindacati>> e la sigla N.C.C.; in un canale di scarico, nei pressi dello stabilimento della Pirelli a Tivoli, veniva segnalata la presenza di un gran numero di volantini. Secondo quanto si è potuto accertare, sulla base degli episodi criminosi verificatisi successivamente, gli attentatori avevano l’intenzione di riprendere in modo lento e graduale l’attività eversiva, per poi raggiungere, attraverso la lotta armata, gli stessi obiettivi delle Brigate Rosse. Un secondo attentato, con analoghe modalità, veniva compiuto nelle prime ore del 10 gennaio 1994, ai danni della N.A.T.O. Defende College, nella zona dell’EUR a Roma. Sotto un porticato veniva piazzato un ordigno, che esplodeva di notte, provocando rilevanti danni all’edificio, agli stabili vicini e ai veicoli parcheggiati nell’area circostante. Evidenti erano le analogie con il precedente episodio, poiché anche in questo caso veniva rinvenuto uno spezzone di nastro, sul quale era registrato l’avvertimento circa la imminente esplosione di una bomba ad alto potenziale e l’invito ad allontanarsi; ed ancora una volta, a distanza di poche ore, con telefonate a due organi di stampa (“Il Messaggero” e “La Repubblica”), arrivava la rivendicazione da parte degli N.C.C. Venivano poi diffusi in vari luoghi volantini contenenti il testo della rivendicazione: uno veniva fatto trovare all’interno di un cestino dei rifiuti in via della Circonvallazione Clodia a Roma; altri trentasei venivano rinvenuti su un treno proveniente da Milano e diretto nella capitale; altri ancora venivano lasciati a Pozzuoli, a Marghera e a Genova.

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Copie dei volantini, relativi ai due attentati alla Confindustria e alla N.A.T.O., verranno poi ritrovate nel 2003, a distanza di molti anni, nel “covo” delle Brigate Rosse, che verrà scoperto a Roma in via Montecuccoli. A partire dal 1995, gli N.C.C. iniziavano una attività di autofinanziamento, mediante rapine che dovevano servire per reperire i fondi necessari per il funzionamento dell’organizzazione (testi Giannini, ud. 14.3.05, p. 120 ss. e 144 ss.; Gabrielli, ud. 30.3.05, p. 94 s.).. I c.d. “espropri” generalmente non venivano rivendicati, in quanto non erano direttamente rivolti al raggiungimento degli obiettivi di eversione e di lotta contro lo Stato. La loro riconducibilità all’associazione terroristica, nella maggior parte dei casi, verrà scoperta solo molto più tardi, grazie ai risultati delle indagini conseguiti nel 2003 e nel 2004 (con l’arresto di Nadia Desdemona Lioce, la scoperta dei “covi”, la lettura del materiale informatico sequestrato e le dichiarazioni di Cinzia Banelli). In qualche caso si poteva sospettare la matrice eversiva di alcune rapine per il fatto che alle azioni criminose partecipavano molte persone (non essendo previsto un profitto personale, ma solo un profitto per l’organizzazione, non si doveva dividere il “bottino” e il numero dei partecipanti poteva quindi essere più elevato, anche per favorire il buon esito dell’operazione) e per il fatto che erano presenti alcune donne (cosa piuttosto inconsueta per le normali rapine). Nell’ambito di questa attività di autofinanziamento rientra l’episodio criminoso che ha portato all’arresto di Luigi Fuccini e di Mario Matteini, avvenuto a Roma la mattina del 13 febbraio 1995. Dalla sentenza emessa il 5 aprile 1996 dalla II Corte di assise di primo grado di Roma (divenuta irrevocabile e acquisita in copia) risulta che, nel corso di un servizio di pattugliamento, agenti del Commissariato di P.S. C.Colombo notavano in via Eredia un’autovettura priva del paraurti anteriore e della targa e due uomini che stavano armeggiando vicino a dei motorini. I due, sottoposti a controllo, venivano identificati e venivano trovati in possesso di un coltello sporco di sostanza resinosa e di due biglietti ferroviari di andata e ritorno per la tratta Livorno-Roma. Entrambi venivano condotti per accertamenti in Commissariato, dove manifestavano chiaramente la loro appartenenza ad un gruppo eversivo: il Fuccini, infatti, rivolgeva al Matteini (che si trovava in una stanza attigua) la frase: <<diglielo che sei un militante rivoluzionario>>. I tre motorini, vicino ai quali erano stati sorpresi i due uomini, risultavano di provenienza furtiva ed avevano le targhe contraffatte, in quanto composte di parti di targhe differenti, attaccate l’una all’altra. Per l’assemblaggio era stato verosimilmente usato il coltello sporco di sostanza resinosa trovato in loro possesso. Un analogo sistema di assemblaggio era stato utilizzato per la targa di un’autovettura che era stata abbandonata davanti alla sede della Confindustria in occasione del fallito attentato del 18 ottobre 1992.

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In via Nistri, nelle vicinanze di via Eredia, veniva trovata un’autovettura Renault Chamade di provenienza furtiva, con una targa contraffatta (con una tecnica uguale a quella usata per i motorini) e con all’interno una paletta di plastica (del tipo di quelle in uso al Ministero dell’Interno), quattro pistole con le relative munizioni e una radio ricetrasmittente. Presso la stazione ferroviaria di Livorno si accertava che, nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, per la stessa tratta e per lo stesso importo di quelli sequestrati ai due rapinatori, erano stati emessi altri tre biglietti; e ciò faceva ipotizzare che il Fuccini e il Matteini, insieme ad altri complici, fossero venuti a Roma dalla Toscana per compiere qualche azione criminosa, verosimilmente una rapina. Nel corso di una perquisizione eseguita presso l’abitazione del Fuccini, all’interno di una canna da pesca, veniva trovato un documento firmato dagli N.C.C., nel quale si smentiva ogni responsabilità dell’organizzazione in merito all’ordigno esplosivo trovato il 13 agosto 1994 nei pressi dei magazzini Standa nel centro di Firenze. In tale documento si affermava, testualmente, che <<tali pratiche terroristiche, tese a colpire o minacciare indiscriminatamente la popolazione, portano sempre il marchio dello stragismo di Stato e nulla hanno a che fare con la pratica rivoluzionaria e l’agire combattente della guerriglia>> e si sottolineava la determinazione degli N.C.C. <<di procedere nello sviluppo della guerra di classe di lunga durata avviata da più di un ventennio dalle Brigate Rosse>>. Con la citata sentenza, il Fuccini e il Matteini, come appartenenti agli N.C.C., venivano ritenuti responsabili dei reati di banda armata, associazione eversiva e ricettazione e venivano condannati alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione e £. 3.000.000 di multa ciascuno. Entrambi erano già conosciuti come frequentatori degli ambienti antagonisti più estremi della Toscana e il Fuccini era noto come compagno e convivente di Nadia Desdemona Lioce, la quale a sua volta era stata coinvolta nelle indagini svolte dall’autorità giudiziaria fiorentina per l’omicidio di Lando Conti. Proprio in coincidenza con l’arresto del Fuccini (teste Giannini, ud. 14.3.05, p. 124), la Lioce abbandonava repentinamente il domicilio e faceva perdere le proprie tracce, entrando in clandestinità e rimanendovi sino al 2 marzo 2003: in tale data verrà tratta in arresto, in occasione dell’omicidio dell’agente Emanuele Petri, avvenuto sul treno Roma-Firenze. Un’altra rapina, sicuramente riconducibile alla organizzazione criminosa del nostro processo, veniva commessa il 10 dicembre 1996 a Roma (teste Giannini, ud. 14.3.05, p. 136). Il portavalori Fabio Guglielmucci, mentre si stava recando con la propria autovettura a consegnare, presso lo stabilimento della birra Peroni, il denaro e gli assegni bancari necessari per il pagamento degli

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stipendi del personale, era costretto a fermarsi, essendosi bloccato il traffico dei veicoli che lo precedevano. Subito dopo qualcuno rompeva il vetro dell’autovettura del Guglielmucci e si impossessava della valigia contenente i valori. Una valigia con gli stessi assegni verrà ritrovata, a distanza di anni, nel “covo” di via Montecuccoli e, nel corso di una perquisizione eseguita presso l’abitazione di Jerome Cruciani, verrà sequestrato un documento contenente alcuni appunti che si riferivano verosimilmente all’itinerario seguito dal Guglielmucci in occasione dell’episodio del 10 dicembre 1996. Dalla sentenza del G.i.p. del Tribunale di Roma del 27 maggio 1997 risulta che la mattina del 15 gennaio 1997, presso l’ufficio postale di via Radicofani, veniva perpetrata una rapina ad opera di due uomini armati di pistole e con il viso coperto con passamontagna, i quali si impossessavano di £. 120.000.000 in contanti. Mentre fuggivano a bordo di una moto Honda di grossa cilindrata, i due rapinatori venivano intercettati da una pattuglia di Carabinieri e, dopo un breve inseguimento (conclusosi con lo sbandamento e la caduta in terra della moto, con conseguente ferimento dei due occupanti), venivano arrestati e identificati per Mario Galesi e Jerome Cruciani In loro possesso venivano rinvenuti il bottino della rapina (ammontante a £. 116.537.000), quattro pistole con matricola abrasa e relative munizioni, bombolette spray a gas irritante e un telefono cellulare. Veniva sequestrata, inoltre, una mazza di ferro (usata per rompere la vetrata dell’ufficio postale) e, nei pressi del luogo della rapina, venivano trovati un furgoncino Fiat 900, una moto Yamaha (con accanto un passamontagna) e una moto BMW: tutti e tre i veicoli erano di provenienza furtiva (testi Giannini, ud. 14.3.05, p. 129 ss. e Macilenti, ud. 12.5.05, p. 42 ss.). Con la citata sentenza del G.i.p. del Tribunale di Roma, emessa all’esito di giudizio abbreviato, il Galesi e il Cruciani venivano condannati alla pena di anni cinque di reclusione e £. 2.000.000 di multa ciascuno, poi ridotta dalla Corte d’appello ad anni quattro di reclusione e £. 2.000.000 di multa. Il fatto che anche questa rapina fosse un’operazione di autofinanziamento degli N.C.C. verrà scoperto solo successivamente, quando risulterà chiara la figura del Galesi e quando verrà scoperto un documento (compreso nel materiale informatico sequestrato a Roberto Morandi), scritto dallo stesso Galesi e contenente una sorta di ricostruzione dell’evento (con una esplicita critica nei confronti del Cruciani per il comportamento tenuto al momento della cattura). Dopo aver scontato una parte della pena ed aver ottenuto gli arresti domiciliari, il Galesi si allontanava dal proprio domicilio ed entrava, come la

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Lioce, in clandestinità, mantenendo tale stato sino alla morte, avvenuta nell’episodio del 2 marzo 2003, contestualmente all’omicidio dell’agente Petri. L’attività di autofinanziamento degli N.C.C. proseguiva con un’altra rapina, compiuta la mattina del 13 maggio 1998 davanti all’ufficio postale di Mezzana, un paese situato a pochi chilometri di distanza da Pisa. Verso le ore 7,30, un’unità operativa composta da tre elementi, di cui almeno uno era armato di pistola, assaliva un furgone delle Poste, che proveniva dall’ufficio centrale di Pisa e doveva scaricare presso quello di Mezzana alcuni sacchi contenenti valori bollati e denaro contante per £. 255.000.000 (teste Coppola, ud. 24.5.05, p. 22 ss.). I rapinatori bloccavano il furgone utilizzando una Fiat Uno precedentemente rubata, facevano scendere il conducente sotto la minaccia di una pistola, si facevano consegnare le chiavi dell’automezzo delle Poste e si allontanavano a bordo dello stesso. Poco dopo, in località Colignola di San Giuliano Terme, lasciavano il furgone, portandosi via i sacchi contenenti i valori e il denaro, contrassegnati da particolari cartellini punzonati con piombo. Sui sedili posteriori della Fiat Uno, abbandonata dai rapinatori, veniva rinvenuta una radio scanner di marca “Lafayette”, regolata sulle frequenze 144.01 Mhz; all’interno del furgone postale venivano trovati una lampada portatile, due trincetti e due paia di occhiali. La rapina non veniva fatta oggetto di alcuna rivendicazione e soltanto a distanza di anni, nel 2003, potrà qualificarsi anche questo fatto come un’operazione di “esproprio” compiuta dagli N.C.C.: nel “covo” di via Montecuccoli verranno ritrovati, infatti, i cartellini dei pacchi portavalori e quattro speaker microphone” di marca “Lafayette”, compatibili con la radio-scanner usata per la rapina. La definitiva conferma della responsabilità degli N.C.C. si avrà con le dichiarazioni di Cinzia Banelli e di Bruno Di Giovannangelo. La rapina di Mezzana è stata l’ultima delle azioni degli N.C.C., compiute tutte tra il 1992 e il 1998, con impiego di armi e di esplosivi, con le caratteristiche tipiche della banda armata e con finalità propriamente eversive. Con l’inizio del 1999 si è avuto il “salto di qualità” e si è ripreso l’uso della denominazione B.R.-P.C.C., con la programmazione e l’attuazione dell’omicidio del prof. Massimo D’Antona. In dibattimento, i funzionari della Digos di Roma (testi: Giannini, ud. 14.3.05, p. 104 ss. e ud. 16.3.05, p. 15 s.; Gabrielli, ud. 30.3.05, p. 94 ss.) hanno evidenziato gli elementi probatori, prevalentemente documentali, relativi ai rapporti tra i Nuclei Comunisti Combattenti e le Brigate Rosse, trovando poi puntuale conferma nelle circostanziate dichiarazioni rese da Cinzia Banelli. Dalla documentazione rinvenuta nel “covo” di via Montecuccoli e presso le abitazioni di alcuni degli imputati è emerso che gli N.C.C. e le B.R. non sono

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state due entità distinte, ma sostanzialmente la stessa organizzazione che, in diversi periodi, ha usato denominazioni diverse, secondo il livello di lotta sostenibile: sino al 1988-1989 è stata utilizzata la sigla B.R. e sono stati consumati i vari omicidi “politici” (ultimo quello del sen. Ruffilli); dopo la “ritirata strategica” e il periodo di tregua, è stata ripresa gradualmente l’attività, con azioni di livello inferiore e con l’uso della sigla N.C.C.; nel 1999 l’organizzazione è stata in grado di raggiungere nuovamente il massimo livello e, con l’omicidio D’Antona (indicato come attacco “strategico” e “disarticolante”) ha potuto servirsi nuovamente della denominazione originaria. In vari documenti gli N.C.C. sono stati definiti un’avanguardia, che ha compiuto, a partire dall’inizio degli anni ’90, un lento percorso di ricompattazione e ricomposizione di un’organizzazione che era stata posta in una profonda crisi dalle operazioni repressive del 1988 e 1989. Sin dall’inizio della loro attività, peraltro, gli N.C.C. avevano programmato l’azione “disarticolante”, e quindi l’omicidio politico, e si erano posti lo stesso obiettivo delle originarie B.R.: la lotta armata e l’attacco “al cuore dello Stato”. Un documento dattiloscritto, che è stato trovato nel “covo” di via Montecuccoli e che risale all’ottobre del 1991, inizia con una citazione di Mao:<<Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte; ad ogni colpo di zappa, esse diventeranno più basse>>. E prosegue affermando che:<<La ricostruzione delle forze della guerriglia è in questo momento l’obiettivo principale che i comunisti devono raggiungere, e solo successivamente e conseguentemente il lavoro politico tende alla ricostruzione nell’ambito operaio e proletario di quelle che vengono definite le condizioni danneggiate dalla controrivoluzione degli anni ’80, non perché vi sia una separazione tra i due piani, ma perché in ultima analisi è l’azione che con l’attacco al cuore dello Stato crea le condizioni favorevoli per l’avanzamento delle posizioni nel campo proletario andando ad incidere in definitiva laddove si decidono i rapporti di forze tra classe e Stato. Tutti quei compagni che oggi tendono a privilegiare il lavoro politico nelle situazioni di massa (di fatto venendo meno anche al criterio di unità del politico e del militare) commettono infatti un grave errore riconducibile in sostanza all’analisi che fanno della natura stessa che assume il processo rivoluzionario in questa fase storica in un paese a capitalismo avanzato. Il processo rivoluzionario è processo di attacco politico-militare al nemico (cuore dello Stato, politiche centrali dell’imperialismo) e nel contempo è costruzione ed organizzazione delle forze sul terreno strategico della lotta armata. Questa è la concezione espressa storicamente dall’O. e nella quale ci riconosciamo, che deve informare complessivamente il nostro lavoro politico. La necessità quindi di strutturarsi secondo i criteri di clandestinità e compartimentazione e di acquisire fin da subito tutti gli elementi indispensabili all’esplicare della nostra pratica politica

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(necessità quindi di basi logistiche - armi - finanziamenti) dev’essere inquadrata in quest’ottica. La questione quindi dell’attivazione delle nostre stesse forze ad un livello basso, medio o alto che è più giusto definire quello adeguato deve essere secondo noi definitivamente chiarita…Oggi noi ci troviamo di fronte al complesso lavoro di ricostruzione delle strutture politico-militari dell’O, in grado di rilanciare e riaffermare la guerriglia nelle metropoli imperialiste come il solo modo di esprimere la politica rivoluzionaria, tutti i nostri sforzi e le nostre capacità devono assolvere tale compito…Solo i sostenitori della tesi sulla “svolta rivoluzionaria” o sulla “borghesia nera” non comprendono o non vogliono comprendere il salto operato dall’O. e l’efficacia politica e militare dell’azione Ruffilli, dei quali risultati probabilmente ancor oggi ne beneficiamo…Questi in conclusione sono i dati oggettivi con cui si devono misurare tutte le forze a nostra disposizione per rilanciare la guerriglia nella guerra contro la borghesia imperialista per la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato>>. Questo documento, che può essere considerato una sorta di “atto costitutivo”, fa chiaramente intendere che i Nuclei Comunisti Combattenti si sono posti nel solco tracciato dall’originaria organizzazione ed hanno perseguito gli stessi obiettivi dell’ala più oltranzista ed ortodossa, accogliendo la tesi della “guerra di classe di lunga durata” e della “strategia della lotta armata”. L’assoluta continuità ed identità della formazione eversiva viene ribadita in un documento successivo, estratto dal computer di Roberto Morandi e riguardante la dinamica operativa dell’omicidio D’Antona, laddove si legge:<<Rispetto alla denominazione organizzativa si ritiene che qualora ci fosse un sviluppo della situazione che rendesse necessaria e opportuna la rivendicazione, si possa stabilire che in caso di mancata effettuazione dell’azione si continuerà ad utilizzare la sigla N.C.C., sia per le forze cadute che per le forze ancora operanti. Se l’azione viene portata al punto dell’eliminazione del soggetto si ritiene si debba assumere la denominazione B.R., perché con tale sigla verrà rivendicata l’azione>>. Sulla stessa linea si è espressa Cinzia Banelli, la quale, in sede di incidente probatorio (ud. 1.10.04, p. 55 ss.) ha dichiarato che <<I nuclei Comunisti Combattenti si riconoscevano comunque, fin dal loro inizio, nell’impianto politico-strategico dell B.R.-P.C.C. … l’obiettivo di massima era quello del rilancio dell’attività offensiva … secondo il criterio della strategia della lotta armata e ovviamente a livello di sostenibilità possibile per questa organizzazione … l’attività degli N.C.C. si conclude a ridosso dell’iniziativa strategica, cioè l’iniziativa D’Antona … A seguito della rapina di Mezzana inizia per gli N.C.C. un periodo in cui la priorità programmatica viene assunta dalla costruzione di un attacco offensivo, in generale, sul piano di scontro classe-Stato … per cui viene individuato come progetto politico quello che poi è

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conosciuto come “patto per l’Italia” e quindi questo tavolo di confronto Governo, Confindustria e sindacati, intorno al quale si costruiscono gli equilibri politici in quel momento … Contemporaneamente alla parte di dibattito teorico inizia un’attività di inchiesta ed individuazione di obiettivi possibili da colpire; inizialmente però, in linea con le capacità e la storia degli N.C.C., si inizia un’inchiesta sulle sedi sindacali a Roma, nello specifico sulla C.G.I.L. in corso d’Italia e sulla sede della C.I.S.L. in via Po e sulla sede della Commissione Antisciopero, sempre in via Po. Contemporaneamente però si cerca anche di individuare e agganciare i soggetti politici che intorno a questo “patto per l’Italia” svolgevano un ruolo progettuale attivo. E poi è in corso di attività che inizia il dibattito sulla sostenibilità di un’iniziativa strategica disarticolante … per cui si chiude ad un certo punto l’esperienza degli N.C.C. … e, quando si passa a costruire l’iniziativa D’Antona, si decide anche di riassumere la denominazione Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Comunista Combattente>>. Dai documenti tratti dal materiale informatico sequestrato alla Banelli e al Morandi (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 158 ss.) risulta che all’inizio del 1999 l’organizzazione era in grado di portare avanti contemporaneamente due attività: quella “disarticolante” (concretizzantesi nell’omicidio politico) e quella “non disarticolante” (diretta a colpire sedi sindacali e altre istituzioni attinenti al mondo del lavoro o comunque inquadrabili nell’ottica della lotta all’imperialismo). Dai documenti “Welfare doc.” (che ha come data di creazione il 9 dicembre 1998 e come data di ultimo salvataggio il 10 gennaio 1999) e “progof” (data di creazione 28 dicembre 1998 e di ultimo salvataggio 29 dicembre 1998) si evince che, già verso la fine del 1998, i due programmi venivano portati avanti contestualmente e che, all’esito di un dibattito interno, si era deliberato di svolgere “inchieste” sulla persona di Massimo D’Antona e su alcune sedi istituzionali: alcune di queste inchieste dovevano svolgersi nella stessa zona, quella dei dintorni di piazza Fiume a Roma, dove vi erano l’abitazione del prof. D’Antona e le sedi della C.G.I.L., della C.I.S.L. e della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Questa programmazione trovava una puntuale realizzazione nel 1999 con l’omicidio D’Antona e successivamente, tra il 2000 e il 2002, con gli attentati alle sedi della citata Commissione di garanzia in via Po a Roma, della C.I.S.L. in via Tadino a Milano, dell’Istituto Affari Internazionali e dell’Associazione Consiglio per le Relazioni Italia e U.S.A. in via Brunetti a Roma e dell’agenzia di lavoro interinale “Obiettivo lavoro” in via Mariti a Firenze. Questi attentati, essendo qualificabili come azioni di livello inferiore rispetto all’omicidio politico, venivano rivendicati con sigle diverse: N.I.P.R. (Nuclei

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Proletari di Iniziativa Proletaria), N.P.R. (Nucleo Proletario Rivoluzionario) e N.P.C. (Nucleo Proletario Combattente). Dalla documentazione in sequestro, e in particolare dai “files” estrapolati dal palmare Psion trovato in possesso della Lioce al momento della cattura, risulta inequivocabilmente che si tratta sempre dello stesso gruppo eversivo e che le Brigate Rosse utilizzavano altre sigle per dare un’idea di ripresa di una lotta armata generalizzata e di un fiorire di gruppi e per nascondere in tal modo il serio problema rappresentato dall’esiguità delle forze a disposizione (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 10 ss.). L’individuazione del prof D’Antona come soggetto da colpire era giustificata dal fatto che si trattava di un autorevolissimo giuslavorista che aveva rivestito importanti cariche istituzionali e si era direttamente impegnato, ad alto livello, in quel programma di concertazione tra Governo, sindacati e Confindustria, osteggiato e deprecato dagli esponenti dell’area eversiva. Il prof. D’Antona era titolare della cattedra di diritto del lavoro presso la facoltà di scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma (e in precedenza lo era stato presso quella di Napoli). Dopo aver ricoperto la carica di sottosegretario al Ministero dei Trasporti nel Governo presieduto dall’on. Dini, era stato nominato dal ministro Franco Bassanini (sentito come teste in dibattimento: ud. 6.6.05, p. 12) direttore generale presso il Ministero della Funzione pubblica e degli affari regionali e, a partire dall’ottobre del 1998, aveva lavorato per la riforma della pubblica amministrazione e per la revisione delle norme sulla rappresentanza sindacale nel pubblico impiego; in particolare, aveva partecipato alla elaborazione di un decreto legislativo che prevedeva che alle trattative tra Governo e parti sociali potessero partecipare soltanto le organizzazioni sindacali che in ciascun comparto del pubblico impiego rappresentassero almeno il 5% dei lavoratori pubblici. Successivamente era diventato il principale collaboratore del ministro del Lavoro Antonio Bassolino (ud. 6.6.05, p. 2 ss.) e si era dedicato ai rapporti con le organizzazioni sindacali e imprenditoriali; in particolare, era stato uno degli ideatori fondamentali del c.d. “patto di Natale”, riguardante l’accordo tra Governo e forze sociali per far crescere il tasso di sviluppo, contrastare l’inflazione, ridurre il debito pubblico e favorire la ricerca scientifica e la formazione professionale: una grande concertazione che coinvolgeva non soltanto le maggiori organizzazioni sociali, ma anche quelle minori, sia sindacali che imprenditoriali (compresi gli artigiani e i commercianti). Presso la Presidenza del Consiglio, inoltre, si era occupato del delicatissimo tema dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, predisponendo una proposta di articolato per disciplinare tale settore (proposta poi portata all’esame del Consiglio dei ministri e trasfusa, con alcune modifiche, in una legge).

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Era stato, infine, autore di numerose pubblicazioni nelle materie delle quali si era occupato (teste Maresca, ud. 8.6.05, p. 2 ss.). Dal documento di rivendicazione dell’omicidio si può desumere che le Brigate Rosse, attraverso il loro lavoro di “inchiesta”, avevano acquisito una piena conoscenza dell’intensa attività del prof. D’Antona, delle sue abitudini di vita, dei suoi movimenti e dei percorsi compiuti per recarsi nei vari luoghi di lavoro (il suo studio sito in via Bergamo, la sede della C.G.I.L. in corso d’Italia, il Ministero dei Trasporti in piazza della Croce Rossa, il Ministero del Lavoro in via Flavia, il Ministero della Funzione pubblica in largo Argentina e l’Università La Sapienza in piazzale Moro). Dai tabulati relativi ai cellulari utilizzati dall’organizzazione risultano le numerose telefonate fatte da cabine pubbliche situate proprio nelle strade comprese nei suoi itinerari (teste Gabrielli, ud. 16.3.05, p. 158 ss.). I risultati dei servizi di osservazione effettuati durante l’inchiesta svoltasi tra l’11 gennaio e il 7 maggio 1999, sono dettagliatamente riferiti nei documenti tratti dal materiale informatico sequestrato e, in particolare, in quelli dell’archivio personale del Morandi. Il prof. D’Antona era solito uscire da casa tra le 8,30 e le 9,30 del mattino e percorrere a piedi un tratto della via Salaria (dove abitava al civico n.128), in direzione di piazza Fiume. Dalla citata documentazione si evince che proprio in quel tratto di strada si era deciso di compiere l’azione omicidiaria e che in un primo tempo si era scelta la data dell’11 maggio 1999 e poi quelle del 18 e del 19 dello stesso mese. I rinvii erano stati determinati dall’assenza del prof. D’Antona o dalla sua ritardata uscita; i giorni 12, 13 e 14 maggio non erano stati presi in considerazione a causa della presenza di una troupe cinematografica che stava riprendendo alcune scene proprio in quel tratto della via Salaria. L’azione veniva eseguita la mattina del 20 maggio, verso le ore 8,30. Il prof. D’Antona, dopo essere uscito di casa ed aver percorso poche decine di metri a piedi, all’altezza del civico n. 121 veniva avvicinato da due persone (un uomo e una donna), uno delle quali gli esplodeva contro alcuni colpi di pistola, ferendolo mortalmente. I due aggressori, entrambi con il volto parzialmente coperto da un berretto con visiera, fuggivano a piedi in direzione di via Po e imboccavano via Adda, dove salivano a bordo di un ciclomotore e si dileguavano. A fianco al marciapiede ove era caduta la vittima, era parcheggiato un furgone Nissan Vanette di provenienza furtiva, che aveva i vetri oscurati con vernice; nella verniciatura era stato ricavato un “occhiolino”, per osservare dall’interno i movimenti del soggetto da colpire; sulla foderina del sedile di

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guida di tale veicolo veniva rinvenuta una formazione pilifera. Dall’altra parte della strada era parcheggiato un altro furgone, un Fiat Ducato, anch’esso rubato. Il prof. D’Antona, prontamente soccorso e trasportato in ospedale con un’autoambulanza, cessava poco dopo di vivere. Secondo quanto risulta dalla consulenza medico-legale (c.t. Ciallella, ud. 11.4.05, p. 133 ss.), la vittima era stata attinta da sei colpi di arma da fuoco: un primo proiettile aveva interessato l’avambraccio sinistro, atteggiato in posizione di difesa, e si era arrestato all’interno di un’agendina postra nel taschino della giacca; un secondo proiettile, dopo aver attinto lo stesso avambraccio e trapassato l’agendina, era penetrato nell’emitorace sinistro, con interessamento del viscere cardiaco; un terzo proiettile aveva raggiunto l’emitorace destro (mentre il busto era reclinato in avanti in fase di caduta), producendo lesioni al polmone destro, al fegato e al rene destro e fuoriuscendo in corrispondenza della regione lombare posteriore destra; altri due proiettili avevano colpito la mano sinistra e l’arto superiore destro della vittima, che si trovava già in posizione supina dopo essere stata abbattuta al suolo. Dopo circa sei ore dalla esecuzione dell’omicidio, a seguito di una segnalazione telefonica giunta alla sede del quotidiano “Il Messaggero”, veniva trovato in via Crispi un volantino di rivendicazione a firma delle Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Comunista Combattente; alle 19,04 una telefonata alla sede romana del quotidiano “Il Corriere della sera” consentiva il ritrovamento di un altro volantino di rivendicazione nei pressi di piazza Goldoni. Il 30 giugno 1999 venivano fatte trovare diverse copie dello stesso documento in una cabina telefonica di Milano e nei pressi della stazione Ostiense di Roma. Il 5 luglio 1999 da Napoli venivano spediti per posta prioritaria altri volantini ad una serie di rappresentanze sindacali di base ed alla cooperativa sociale “La Cacciarella” (della quale era presidente la sorella di Paolo Broccatelli). Alcuni mesi dopo l’omicidio l’organizzazione eversiva riprendeva la sua attività criminosa, perpetrando una rapina per autofinanziarsi (testi: Coppola, ud. 24.5.05, p. 33 ss.; Grassi, ud. 11.5.05, p. 103 ss.). Il 2 dicembre 1999, verso le ore 9,45, due uomini a volto scoperto, camuffati con barbe e baffi finti, approfittando dell’uscita di un’impiegata (che spintonavano violentemente), entravano in un ingresso secondario dell’ufficio postale di Porta Camollia a Siena e, minacciando gli impiegati e i clienti presenti, si impossessavano di 320.674.376 di lire in contanti (teste Campanella, ud. 6.6.05, p. 42 ss.). Per allontanarsi, i due rapinatori tentavano di fare uso di un ciclomotore di provenienza furtiva (che avevano lasciato sulla strada), ma venivano ostacolati da un passante ed erano costretti ad abbandonare il mezzo ed a fuggire a piedi, riuscendo a dileguarsi, dopo aver sparato un colpo di pistola in aria.

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L’azione, come generalmente avveniva per i c.d. “espropri”, non veniva rivendicata, e solo dopo alcuni anni si accerterà la sua riconducibilità alle B.R., in base alle dichiarazioni della Banelli e alla documentazione sequestrata. Il 14 maggio 2000 veniva compiuto un attentato, qualificabile come azione di livello minore e “non disarticolante”, diretta a colpire una istituzione avente sempre attinenza con il mondo del lavoro. Verso le ore 23,55, in via Po n. 16 a Roma, veniva fatto esplodere un ordigno incendiario (con innesco elettrico ad attivazione a distanza mediante telecomando) davanti al portone d’ingresso ove ha sede la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Dai verbali della polizia giudiziaria risulta che le fiamme, dopo aver completamente distrutto una bicicletta che era legata all’inferriata di una finestra sita al piano seminterrato, si erano propagate all’interno danneggiando i mobili e le suppellettili dell’appartamento del portiere; l’incendio veniva domato per il pronto intervento dei vigili del fuoco. L’attentato veniva rivendicato dalla formazione N.I.P.R. (Nucleo di Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria), una sigla che, secondo quanto sarà possibile appurare in seguito, veniva utilizzata dalla stessa organizzazione eversiva responsabile delle azioni già descritte. I documenti di rivendicazione (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 6 s.) venivano inviati, mediante posta prioritaria, il 17 maggio 2000 alla “Radio città futura” e il 18 maggio 2000 ai quotidiani “Il Messaggero” e “Il Corriere della Sera”; nello stesso giorno venivano lanciate da un cavalcavia circa cinquanta copie del volantino; dopo circa un mese, copia del documento veniva spedita ad una moltitudine di indirizzi con una tecnica nuova, la posta elettronica. Per la prima volta non veniva usato il sistema delle telefonate da cabine pubbliche ad organi di informazione, poiché proprio il 14 maggio 2000 c’era stata una fuga di notizie riguardo alle indagini sull’omicidio D’Antona (che avevano portato all’individuazione di una scheda prepagata, utilizzata per una delle telefonate di rivendicazione, ed alla identificazione degli ultimi possessori) e la stampa aveva dato conto della possibilità di ricostruire il traffico delle schede usate con i telefoni pubblici. Dalla documentazione sequestrata risulterà poi che da quel momento l’organizzazione aveva deciso di utilizzare le schede telefoniche prepagate (S.T.P.) soltanto con particolari cautele. Nel volantino di rivendicazione dell’attentato di via Po veniva richiamata una parte della rivendicazione dell’omicidio di Massimo D’Antona, in quanto quest’ultimo aveva collaborato alla stesura del testo della legge 11 aprile 2000, n. 83.

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Con tale legge erano stati ampliati i poteri della Commissione ed era stato anche previsto che la stessa potesse esercitare un potere sanzionatorio nel caso di violazione delle regole riguardanti gli scioperi nei servizi pubblici essenziali. Questa innovazione, introdotta circa un mese prima, era stata evidentemente contestata dall’organizzazione ed aveva giustificato, nella sua ottica perversa, l’esecuzione dell’attentato (teste Martone, ud. 11.5.05, p. 1 ss.). Il 6 luglio 2000 veniva eseguita un’analoga azione criminosa nel capoluogo lombardo. Verso le ore 8,30, veniva segnalato che erano stati trovati due ordigni di tipo incendiario inesplosi, occultati in contenitori simili a fioriere, che erano stati posti sul davanzale esterno di due finestre della sede provinciale della C.I.S.L. in via Tadino n. 23 a Milano. Anche in questo caso (teste Giannini: ud. 16.3.05, p. 8) la rivendicazione veniva effettuata con posta elettronica e veniva utilizzata una sigla diversificata: N.P.R. (Nucleo Proletario Rivoluzionario), riconducibile sempre alla stessa organizzazione. Il 10 aprile 2001 veniva compiuto un nuovo attentato, di maggiore gravità. Verso le ore 14,35 veniva fatto esplodere un ordigno di notevole potenzialità all’interno dello stabile sito in via Angelo Brunetti n. 9 a Roma, ove hanno sede l’Istituto Affari Internazionali e l’Associazione per le Relazioni Italia e U.S.A. Dai verbali della polizia giudiziaria risulta che la carica non aveva avuto una completa reazione chimica di combustione e trasformazione, a causa di un difettoso impiego oppure per vetustà dell’esplosivo. I danni, pur essendo stati molto rilevanti, avrebbero potuto essere maggiori, se non si fossero concentrati nell’epicentro della detonazione. Sul posto venivano rinvenuti i resti di un telefono cellulare e di un dispositivo di vibrazione per lo stesso tipo di apparecchi; da ciò poteva desumersi che l’innesco della carica era stato realizzato mediante un detonatore di tipo elettrico collegato al sistema di attivazione, costituito da un dispositivo di vibrazione inserito in un cellulare (che veniva sollecitato con la chiamata da parte di altro cellulare). L’attentato veniva rivendicato telematicamente con la sigla N.I.P.R. (Nuclei di Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria). Il 19 marzo 2002 veniva eseguita, ad opera della stessa organizzazione, una seconda iniziativa “disarticolante”, l’omicidio del prof. Marco Biagi (testi: Rizzi, ud. 27.4.05, p. 9 ss.; Marotta, ud. 27.4, p. 129 ss.. Mentre stava raggiungendo in bicicletta la propria abitazione sita a Bologna in via Valdonica n. 14, dopo essere arrivato alla stazione ferroviaria con un treno proveniente da Modena, il prof. Biagi veniva avvicinato da due uomini, uno dei quali gli esplodeva contro alcuni colpi di pistola, uccidendolo.

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Secondo quanto risulta dalla consulenza balistica (c.t. Fratini, ud. 13.4.05, p. 39 ss.), questo omicidio veniva commesso con la stessa pistola che era stata utilizzata il 20 maggio 1999 per uccidere a Roma il prof. D’Antona. La rivendicazione ad opera delle B.R.-P.C.C. avveniva a mezzo di posta elettronica, come era avvenuto nelle ultime azioni criminose. Le ragioni dell’individuazione del soggetto da colpire erano analoghe a quelle che avevano determinato il precedente delitto, poiché anche il prof. Biagi era un affermato giuslavorista, che aveva messo a disposizione del Governo allora in carica le proprie capacità e la propria competenza per svolgere funzioni di consulenza e di collaborazione per la formazione di testi legislativi riguardanti la materia del lavoro. Verso le ore 5 del 2 agosto 2002, in via Mariti a Firenze, veniva appiccato il fuoco alla porta esterna dell’agenzia di lavoro interinale “Obiettivo lavoro”. Le forze di Polizia, intervenute sul posto, constatavano che alcune spugne imbevute di benzina erano state inserite tra le saracinesca a maglie e la porta d’ingresso. L’insegna e la struttura della porta erano state danneggiate e le mura circostanti si erano annerite (teste Fossi, ud. 27.4.05, p. 231 ss.). Il giorno successivo era pervenuta alla redazione del quotidiano “Il Tirreno” di Livorno una missiva, spedita da Firenze, con la rivendicazione dell’attentato a firma del N.P.C. (Nucleo Proletario Combattente), una sigla del tutto nuova nel panorama di questi movimenti eversivi. Identiche lettere di rivendicazione venivano poi recapitate ad alcuni quotidiani e ad una radio privata di Firenze. Da un documento tratto dal materiale informatico sequestrato al Morandi ed alla Banelli risulterà poi che l’attentato era stato compiuto dalla solita organizzazione e si potrà apprendere che si era deciso di operare a Firenze, con una sigla diversa da quella usata a Roma in via Brunetti, perché si trattava di un’azione di livello inferiore e non si voleva dare l’impressione di un arretramento nell’attività eversiva (teste Giannini: ud. 16.3.05, p. 13). I motivi della scelta di quell’obiettivo potevano essere chiariti con la lettura del documento di rivendicazione dell’omicidio Biagi, laddove veniva fortemente criticata l’azione delle agenzie di lavoro interinale, considerate l’espressione di un’oppressione del lavoratore, posta in essere dallo Stato con la complicità delle organizzazioni sindacali (che venivano ritenute cointeressate alla gesione di queste agenzie). Gli ultimi episodi delittuosi riconducibili alla stessa organizzazione eversiva sono due “espropri” commessi a Firenze tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003. Il 5 dicembre 2002, all’interno dell’ufficio postale di via Tozzetti a Firenze, venivano consegnati per la spedizione due pacchi contenenti rudimentali ordigni esplosivi: lo scopo era quello di creare con l’esplosione il panico tra gli

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impiegati, in modo da indurli ad aprire le porte e ad allontanarsi dal posto di lavoro, consentendo così ai rapinatori di introdursi nell’ufficio e di impossessarsi del denaro. Il tentativo risultava infruttuoso, poiché un ordigno non veniva attivato, mentre l’altro esplodeva all’interno del “gabbiotto” di sicurezza, senza produrre gli effetti previsti. I partecipanti all’azione erano costretti, quindi, a desistere dal loro intento e a fuggire, senza essere riusciti a prelevare alcunché. Il 6 febbraio 2003, invece, una rapina veniva consumata senza ostacoli, con la partecipazione di numerosi aderenti all’organizzazione eversiva. Due uomini e due donne, armati di pistole e di un mitra, entravano nell’ufficio postale di via Torcicoda a Firenze e, minacciando gli impiegati, si impossessavano della somma di euro 62.774,53 in contanti. Queste ultime due azioni non venivano rivendicate e le responsabilità verranno accertate solo più tardi, con il sequestro del materiale informatico (contenente tra l’altro i documenti di programmazione delle due rapine) e con le dichiarazioni della Banelli. A distanza di meno di un mese dall’ultimo “esproprio”, si verificava l’episodio dell’omicidio dell’agente Emanuele Petri, con l’arresto di Nadia Desdemona Lioce e la morte di Mario Galesi. Questo episodio rendeva possibile la svolta nelle indagini che erano in corso, presso le Procure della Repubblica di Roma e di Bologna, in relazione agli omicidi D’Antona e Biagi e agli attentati rivendicati con le varie sigle. La mattina del 2 marzo 2003, sul treno n. 2304, partito dalla stazione di Roma-Tiburtina e diretto a quella di Firenze-S.Maria Novella, nei pressi di Arezzo, una pattuglia della Polizia ferroviaria sottoponeva ad un controllo di “routine” un uomo e una donna, che viaggiavano con carte di identità false intestate a Domenico Marozzi e Rita Bizzarri e che verranno poi identificati per Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce. Mentre l’agente Petri si metteva in contatto telefonico con la Centrale operativa per avere le necessarie informazioni sui dati risultanti dai documenti esaminati, il Galesi estraeva una pistola e, con il sostegno della Lioce, minacciava lo stesso Petri e cercava di impossessarsi della sua pistola e di quella degli altri due componenti della pattuglia, Giovanni Di Fronzo e Bruno Fortunato. Quest’ultimo reagiva e a sua volta estraeva la sua pistola di ordinanza. Ne nasceva un conflitto a fuoco, nel corso del quale il Fortunato veniva ferito, mentre il Petri ed il Galesi venivano uccisi. Il materiale trovato in possesso del Galesi e della Lioce risultava di notevole importanza ai fini dello sviluppo delle indagini, all’esito delle quali era possibile giungere alla identificazione di molti dei responsabili delle varie azioni criminose sopra descritte ed al sostanziale smantellamento dell’organizzazione eversiva.

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Le indagini ed il rinvio a giudizio.

L’analisi del documento di rivendicazione dell’omicidio D’Antona orientava le indagini nel senso di attribuire la giusta rilevanza all’evoluzione che avevano avuto i Nuclei Comunisti Combattenti, sia sotto il profilo politico-ideologico, sia sotto quello più strettamente esecutivo. Nel documento, infatti, c’era un espresso richiamo agli attentati contro la Confindustria e contro il N.A.T.O. Defende College e in un passo si leggeva la frase: <<in questa prospettiva si colloca l’offensiva a Massimo D’Antona, con la quale, le avanguardie rivoluzionarie che concretamente l’hanno costruita, per la valenza politica che essa assume nello scontro generale tra le classi, possono svolgere un ruolo d’avanguardia in continuità oggettiva con le proposte delle B.R-P.C.C. ed assumere perciò la responsabilità politica di prenderne la denominazione>>. Risultava chiaro, quindi, che l’omicidio politico era stato commesso da una formazione eversiva che aveva usato la denominazione B.R-P.C.C., “in continuità oggettiva” con le azioni precedenti (poste in essere sotto la sigla N.C.C.), proprio per evidenziare l’avvenuto ricompattamento delle componenti rivoluzionarie, miranti all’attuazione del progetto brigatista di attacco alla politica internazionale e alle politiche governative e sindacali in materia di lavoro. Appariva, inoltre, logico che la spendita della sigla B.R.-P.C.C. per una così importante iniziativa strategica non potesse essere avvenuta senza un avallo da parte dei principali esponenti dell’originaria organizzazione. Per tale motivo, le indagini venivano indirizzate nei confronti dei brigatisti detenuti, appartenenti alla schiera dei c.d. “irriducibili”. Il 20 aprile 2001, presso il carcere di Trani, nelle celle dei brigatisti Francesco Donati e Antonino Fosso venivano sequestrati due dattiloscritti, contenenti il testo della rivendicazione dell’omicidio D’Antona.

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Nella cella di Michele Mazzei venivano rinvenute altre pagine del medesimo documento, con alcune annotazioni riferibili alla grafia dello stesso Mazzei e di Franco Galloni. Da una consulenza tecnica di carattere linguistico emergeva che il testo della rivendicazione trovato in carcere era precedente a quello diffuso dai diretti responsabili dell’omicidio; da ciò si traeva la convinzione che gli “irriducibili” avessero ricevuto il testo predisposto all’esterno per apportarvi eventuali modifiche e, soprattutto, per fornire la “copertura politica” all’operazione ed autorizzare l’utilizzazione della sigla B.R.-P.C.C. Importanti riscontri, in merito ai rapporti tra il “carcerario” e gli N.C.C. potevano ricavarsi dall’analisi di un comunicato letto, nel corso di un’udienza dibattimentale del processo (svoltosi davanti a questa II Corte di assise) per la sanguinosa rapina di via Prati di Papa, dalle brigatiste Tiziana Cherubini e Vincenza Vaccaro, le quali manifestavano il loro appoggio e la loro adesione alle iniziative degli N.C.C. e facevano una sorta di autocritica per il fatto di non averne capito subito in pieno la valenza (teste Giannini: ud. 14.3.05, p. 147). La maturata consapevolezza dell’evoluzione della struttura eversiva portava a considerare sotto una diversa luce la posizione di Mario Galesi e di Nadia Desdemona Lioce e a dare maggiore risalto al fatto che entrambi si erano dati alla clandestinità, dopo che erano stati acquisiti elementi indizianti in ordine ai loro collegamenti con gli N.C.C. Il G.i.p. del Tribunale di Roma emetteva, pertanto, ordinanze applicative della custodia cautelare in carcere, per associazione eversiva e banda armata, il 22 ottobre 2002 a carico di Lioce, Mazzei, Donati, Galloni e Fosso e il successivo 30 ottobre a carico di Galesi. Il Galesi e la Lioce venivano casualmente rintracciati dopo poco più di quattro mesi, in occasione del tragico episodio avvenuto sul treno Roma-Firenze. Nel corso dell’interrogatorio successivo alla cattura, la Lioce si dichiarava prigioniera politica e produceva un documento chiaramente improntato alla più ortodossa linea brigatista. I due latitanti venivano trovati in possesso, tra l’altro, di documenti contraffatti, di due computer palmari, di alcune chiavi, di schede telefoniche pubbliche e di foglietti contenenti annotazioni varie. I documenti di identità risultavano falsamente compilati su moduli rubati il 10 marzo 1999 presso il Comune di Casape e intestati ai nominativi di fantasia Domenico Marozzi e Rita Bizzarri. Dei due palmari uno era completamente privo di documentazione, in quanto era stato sottoposto recentemente a lavori di riparazione. L’altro conteneva invece un copioso materiale informatico, che era stato criptato con un sistema (conosciuto con l’acronimo “P.G.P.”) abbastanza diffuso, ma di difficile accesso.

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Nello stesso computer, peraltro, vi era una memoria aggiuntiva (c.d. “compact flash”), dalla quale i tecnici della Polizia postale riuscivano ad estrapolare alcuni segmenti di documenti: si trattava di 106 file che erano stati cancellati ma non sovrascritti e che venivano recuperati utilizzando uno specifico programma. Tali documenti risultavano di notevole importanza investigativa, perché consentivano di acquisire varie notizie sulla struttura del sodalizio criminoso (teste Gabrielli, ud. 16.3.05, p. 140 ss.). Si accertava così che, nello spirito della tradizione brigatista, l’organizzazione si era imposta rigide regole di clandestinità e di compartimentazione, aveva una sede centrale (che era stata da poco allargata) e delle collocazioni territoriali in Toscana (loc. A e loc. B); in quel periodo probabilmente vi era una crisi in atto, con seri contrasti interni; vi era stata una sorta di inchiesta disciplinare nei confronti di una aderente (la compagna “SO”, poi identificata per Cinzia Banelli) che si era resa responsabile di varie inadempienze. In alcuni documenti si raccomandava ai militanti di non far uso delle schede telefoniche prepagate, perché (secondo quanto si era appreso con la fuga di notizie avvenuta il 14 maggio 2000) consentivano la ricostruzione del traffico nel caso in cui le stesse fossero usate non soltanto per l’attività dell’organizzazione, ma anche per motivi personali (cioè per chiamare familiari o amici, facilmente abbinabili ad una stessa persona). Diversi brani di detta documentazione riguardavano la preparazione della rapina di via Torcicoda a Firenze e contenevano gli elementi utili per ricostruire le modalità operative dell’associazione, caratterizzate da estrema meticolosità nella preparazione delle varie azioni criminose. Si poteva in tal modo appurare che la sede centrale provvedeva a ripartire i compiti tra i singoli partecipanti di ciascuna azione, assegnando le “dotazioni militari”, predisponendo i mezzi di arrivo, di fuga e di comunicazione, stabilendo l’abbigliamento ed ogni minimo particolare e consegnando ad ognuno una “scheda di ruolo”, contenente le indicazioni delle specifiche attività da svolgere (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 178). Si aveva, inoltre, la conferma che i latitanti Lioce e Galesi rivestivano un ruolo di primissimo piano nell’organizzazione eversiva, essendo in possesso di documentazione sicuramente riferibile ad organi dirigenti. Nello stesso computer palmare, contenente questi importanti documenti, veniva trovata una casella di posta elettronica, il cui numero telefonico identificativo, composto dalle cifre 333/5878048, risultava intestato al nome di fantasia Alessio Corrado Basanic. Il traffico telefonico di questo numero aveva una sorta di blindatura, nel senso che interloquiva soltanto con un’altra utenza telefonica (intestata a Roberto Panteri, altra persona inesistente) oppure con servizi della Telecom, in particolare con i servizi di segreteria telefonica 9000 e

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9001 (che consentono di utilizzare i cellulari per la consultazione della segreteria telefonica, per la ricezione di fax o per l’invio e la ricezione della posta elettronica). Si trattava in sostanza di telefoni cellulari (definiti “cellulari di organizzazione”), aventi caratteristiche del tutto peculiari, che valevano a contraddistinguerli in maniera inconfondibile da quelli comuni. Tali utenze presentavano una costante nel metodo di utilizzo, perché comunicavano in maniera “citofonica” (cioè soltanto tra di loro o con telefoni comunque appartenenti alla stessa organizzazione), ricevevano (al di fuori dei contatti “citofonici”) chiamate esclusivamente da posti telefonici pubblici, avevano “sim card” non intestate agli effettivi utilizzatori, non avevano un traffico omogeneo (in quanto a giorni caratterizzati da numerose chiamate seguivano lunghi periodi di non utilizzo) e cessavano tutte con un credito residuo. Erano, quindi, utenze chiaramente destinate alle attività dell’organizzazione (come una “dotazione di reparto”) ed erano “dedicate” a singole azioni: avevano cioè un utilizzazione “compartimentata”, con riferimento non soltanto agli utenti, ma anche al tempo di uso. Questi telefoni non funzionavano costantemente dal momento dell’attivazione sino a quello della disattivazione, ma venivano aperti esclusivamente nelle fasi in cui l’organizzazione operava; ciò faceva ritenere che i possessori delle S.T.P., quando entravano in contatto con uno di questi cellulari, lo facevano solo per esigenze dell’organizzazione, della quale evidentemente facevano parte (concetto espresso con la frase “chi tocca i fili muore”: teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 66). Tra le cose sequestrate al Galesi e alla Lioce vi erano anche un biglietto da visita di un negozio di informatica di Roma (lo “Strabilia”, facente parte della Graphocart s.r.l.) e una scheda telefonica prepagata della Telecom. La ricostruzione del traffico di questa scheda consentiva di scoprire che, nel mese di febbraio del 2002, la stessa aveva avuto contatti telefonici con il suddetto negozio di informatica. Dall’esame della documentazione esistente presso lo “Strabilia” risultava che il 10 gennaio 2003 una donna, che si era presentata sotto il falso nome di Luisa Martini ed aveva lasciato come recapito telefonico il numero 338/4658955, aveva portato a riparare nello stesso negozio un computer palmare avente la matricola MA095A7071YRS, esattamente corrispondente a quella di uno dei due computer sequestrati (quello privo di documentazione). L’utenza cellulare 338/4658955 era intestata a tale Biagio D’Amore ed aveva anch’essa un traffico “blindato”, in quanto interloquiva in maniera esclusiva con altre due utenze cellulari: la numero 338/4658958, intestata a tale Federica Gianni, e la numero 339/4636039, priva di intestatario.

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Le utenze con le tre cifre finali 958 e 955 avevano avuto una vita parallela, nel senso che erano state attivate rispettivamente il 7 e il 9 febbraio 1999, erano state utilizzate proprio nel periodo della “inchiesta” per l’omicidio D’Antona ed erano cessate in un periodo compreso tra il novembre ed il dicembre del 2002. L’utenza con le tre cifre finali 039, invece, era stata attivata nel novembre del 1998 ed era cessata il 13 marzo 2000. Si accertava quindi che il D’Amore era un volontario della Croce Rossa che, in occasione dei campionati internazionali di tennis del Foro Italico del 1998, approfittando di una promozione della TIM, aveva acquistato le due schede telefoniche “955” e “958”, intestando la prima a se stesso e la seconda alla collega Federica Gianni, dichiaratasi disponibile a prestare il proprio nominativo. Il 6 febbraio 1999, tramite un’inserzione sul giornale “Porta Portese”, il D’Amore aveva poi rivenduto le due schede ad una donna (con caratteristiche fisiche corrispondenti a quelle della Lioce), che si era presentata all’appuntamento fissato telefonicamente alla fermata “Ottaviano” della metropolitana e gli aveva anche rilasciato una scrittura privata. Una copia di tale scrittura verrà poi ritrovata, unitamente alle ricevute fiscali dei cellulari “955” e “958”, nel retro di un cassetto di un mobile dell’appartamento di via Maia, che si accerterà essere stato utilizzato come rifugio dal Galesi e dalla Lioce. L’utenza con le tre cifre finali 039 era senza intestatario e nel primo periodo, tra il novembre e il dicembre del 1998, risultava aver avuto un traffico normale, non riconducibile ad alcun tipo di “blindatura”. L’analisi di tale traffico permetteva di identificare il primo fruitore dell’utenza in Simone Tiracchia, un giovane che, negli ultimi giorni del 1998, tramite un inserzione su “Porta Portese”, aveva ceduto il cellulare con la scheda TIM ad un uomo con i capelli brizzolati, incontrato nella zona di piazzale Flaminio. Nel periodo successivo a tale cessione, l’utenza “039” presentava, al pari della “958” e della “955”, le caratteristiche dei telefoni che costituivano la dotazione dell’organizzazione e che rivelavano, in concomitanza con eventi delittuosi di matrice eversiva, un’intensa attività, seguita da lunghi periodi di non utilizzo. Veniva così effettuata un’approfondita e laboriosa analisi del traffico che questi cellulari avevano avuto tra loro nonché del traffico che gli stessi avevano avuto con schede telefoniche prepagate usate in cabine pubbliche. Questo complesso accertamento dava ottimi risultati, almeno nel periodo antecedente al 14 maggio 2000, quando i militanti usavano le S.T.P. in modo “promiscuo”, poiché non vi era ancora stata la fuga di notizie di cui si è detto e non era nota la possibilità di risalire agli utilizzatori, attraverso l’individuazione delle cabine pubbliche e la ricostruzione del traffico telefonico.

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Gli inquirenti riuscivano, pertanto, ad avere un quadro molto chiaro dei contatti che i telefoni “di organizzazione” avevano avuto tra di loro nonché dei contatti intervenuti tra gli stessi cellulari e le S.T.P.; e ciò soprattutto nel periodo di maggiore interesse, relativo alle fasi precedente, concomitante e successiva all’omicidio D’Antona. In particolare, si accertava che, nel periodo compreso tra l’11 gennaio e il 7 maggio 1999, i contatti tra le utenze “di organizzazione” e le S.T.P. erano avvenuti a mezzo di cabine telefoniche aventi una evidente sovrapponibilità con i luoghi frequentati dalla vittima. Si poteva così constatare che l’inchiesta era iniziata l’11 gennaio con una telefonata da una cabina di via XX Settembre, nei pressi di via Flavia, ove ha sede il Ministero della Funzione pubblica, presso il quale (teste Di Serio, ud. 13.4.05, p. 2 ss.) il D’Antona aveva ricoperto sino al dicembre del 1998 la carica di responsabile dell’Ufficio relazioni sindacali: questa chiamata era stata fatta evidentemente in occasione di un controllo effettuato per verificare se detto impegno fosse o meno cessato. Nelle settimane successive, sempre di martedì, erano state fatte telefonate da cabine di viale del Policlinico e di piazzale Moro, nei pressi dell’Università La Sapienza, dove il D’Antona (tutti i lunedì, martedì e mercoledì) teneva le sue lezioni di diritto del lavoro. In tutto il periodo di “inchiesta”, inoltre, vi erano state chiamate da cabine situate nella zona di piazza Fiume e di piazza della Croce Rossa, nei pressi dell’abitazione della vittima, del suo studio nonché della sede della C.G.I.L. e del Ministero dei Trasporti, luoghi da lui frequentati. La maggior parte delle telefonate erano riferibili all’attività di osservazione svolta sotto l’abitazione del D’Antona nelle prime ore della mattina, quando egli era solito uscire per recarsi al lavoro. Ciò valeva a dimostrare che ben presto, poco tempo dopo l’inizio dell’attività preparatoria, l’organizzazione aveva deciso di colpire l’obiettivo proprio in quel tratto di strada che egli percorreva a piedi dopo essere uscito dal portone di casa. Esaminando il traffico delle cabine telefoniche dove erano state utilizzate S.T.P. entrate in contatto con telefoni “di organizzazione”, gli inquirenti soffermavano l’attenzione sull’utenza cellulare 338/9760233, riscontrando che la stessa aveva caratteri comuni con i suddetti telefoni. In particolare, rilevavano che: era priva di intestatario; era stata attivata nell’aprile del 1998 ed aveva cessato di operare il 15 maggio 2000, lasciando un credito residuo; aveva un traffico non omogeneo, in quanto a giornate con numerose chiamate seguivano lunghi periodi di non utilizzo; aveva molti contatti con S.T.P. (talvolta in contiguità temporale rispetto a contatti intervenuti tra le stesse S.T.P. e i cellulari “di organizzazione”); risultava operante nei luoghi e nel periodo della “inchiesta” su D’Antona ed anche nel

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giorno dell’esecuzione dell’omicidio; aveva subito un’interruzione del traffico nel periodo immediatamente successivo al 20 maggio 1999 (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 89 ss.). L’utenza con le tre cifre finali 233 si distingueva, peraltro, da quelle “di organizzazione”, perché non risultava aver avuto con le stesse contatti “citofonici” o di altro genere e perché, nel periodo compreso tra il 26 marzo e il 23 settembre 1999, aveva avuto alcuni contatti con utenze riconducibili a tale Francesco Rizzo (ud. 11.4.05, p. 156 s..), persona del tutto estranea all’associazione eversiva. Si accertava che questi contatti erano dovuti al fatto che il Rizzo, tra l’inizio di aprile e la fine di settembre del 1999, tramite un annuncio economico su “Porta Portese”, aveva dato in locazione un suo appartamento, sito in Cerveteri, a Federica Saraceni, la quale gli aveva lasciato come recapito telefonico proprio il cellulare 338/9760233. Il fatto che anche tale utenza appartenesse all’organizzazione eversiva veniva desunto da una circostanza di particolare rilevanza: nel giugno del 1998 lo stesso numero di cellulare era stato lasciato, come recapito telefonico, ad un ambulatorio dell’A.I.E.D. da una donna, che si era presentata con le false generalità di Carla Ceci. Con una consulenza grafica (effettuata ponendo a raffronto le firme apposte in varie occasioni dalla donna presentatasi sotto falso nome e i documenti autografi dell’imputata) si poteva accertare che anche questo nominativo, al pari di quelli di Rita Bizzarri e di Luisa Martini, doveva essere ricondotto alla persona di Nadia Desdemona Lioce. Una conferma dell’assunto, secondo cui il “233” poteva essere assimilato ai cellulari “255”, “258” e “039”, la si avrà nel prosieguo delle indagini (teste Gabrielli, ud. 16.3.05, p. 156 s.), allorché verrà sequestrato, presso l’abitazione di Marco Mezzasalma, un biglietto da visita TIM, sul quale era stampato il numero 338/4658958 (con scritta a fianco la sigla r.s.a.) ed erano annotati sul retro i numeri 338/4658255 (con a fianco la lettera U), 339/4636039 (con a fianco la lettera F) e 338/9760233 (con a fianco la lettera L ed un punto esclamativo). Funzionari della Digos (testi Vincenzo Michini e Paolo Capecchi, ud. 17.3.05, p. 6 ss.), con l’ausilio di funzionari della Telecom (teste Filippo Bedogni, ud. 16.3.05, p. 174 ss.), analizzavano il traffico di 315 cabine pubbliche dislocate in zone ritenute di interesse ai fini della preparazione e della esecuzione dell’omicidio D’Antona e riuscivano in tal modo ad individuare 46 schede telefoniche che erano entrate in contatto con i quattro cellulari considerati “di organizzazione”. La ricostruzione del traffico di queste 46 S.T.P. portava, infine, alla identificazione dei loro utilizzatori, in base alla evidenziazione dei rapporti parentali o amicali con le persone contattate.

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Questo complesso lavoro veniva limitato al periodo compreso tra il 31 marzo 1999 (poiché per il periodo precedente la Telecom non aveva conservato la registrazione dei dati) e il 14 maggio 2000 (poiché dopo tale data i militanti avevano cessato di utilizzare le schede indifferentemente per la vita di organizzazione e per quella di relazione). L’indagine (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 69 ss.) permetteva comunque di attribuire con certezza a Cinzia Banelli due schede, le quali attestavano, con chiamate ad un cellulare di organizzazione precedute e seguite da telefonate a familiari, la sua presenza a Roma il 19 maggio 1999, quando era stata rinviata per l’ultima volta l’esecuzione dell’omicidio D’Antona, e la sua presenza a Milano il successivo 30 giugno, in occasione della collocazione, nei pressi della “Pirelli”, di un pacco di volantini di rivendicazione del medesimo delitto. La stessa Banelli riconoscerà la fondatezza di tale attribuzione, ammettendo di aver effettuato le suddette chiamate. Con eguale criterio venivano attribuite otto schede a Paolo Broccatelli (tre delle quali venivano poi materialmente rinvenute e sequestrate nel corso di una perquisizione eseguita all’interno del suo garage, insieme ad altre numerose schede facenti parte di una collezione), ben dodici a Laura Proietti e una a testa a Marco Mezzasalma, Federica Saraceni e Roberto Morandi (quest’ultima scheda verrà poi ritrovata proprio nell’abitazione del Morandi). Alcune di queste schede, nei giorni immediatamente precedenti l’omicidio, avevano più volte contattato Alessandro Costa (che era stato in precedenza coinvolto nelle indagini relativi ad alcuni attentati incendiari rivendicati dal gruppo eversivo operante sotto la sigla N.A.C.). L’analisi del traffico delle S.T.P. consentiva anche di appurare (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 11 ss.) che vi erano stati numerosi contatti con un’utenza fissa, installata in un appartamento sito a Roma in via Maia n. 6 e intestata a Patrizia Ercolani (moglie del proprietario dello stesso appartamento, Mauro Bergamo). Molti di questi contatti erano stati effettuati con schede attribuibili al Mezzasalma (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 60). Con il mazzo di chiavi, sequestrato in occasione dell’omicidio Petri, si riusciva ad aprire il cancello ed il portone dello stabile nonché la cassetta della posta, ma non la porta d’ingresso, perché la relativa serratura era stata cambiata dopo l’arresto della Lioce. L’appartamento di via Maia, sin dall’1 febbraio 1998, era stato dato in locazione dal Bergamo (ud. 11.4.05, p. 137 ss.) a Marco Mezzasalma, il quale però non l’aveva mai abitato, ma l’aveva messo a disposizione dei latitanti Lioce e Galesi; quest’ultimo era entrato in clandestinità il 9 febbraio 1998 e cioè pochi giorni dopo la stipula del contratto di locazione. La sera dell’11 ottobre 1999, durante un servizio di osservazione nei confronti di Laura Proietti, nei pressi di un ristorante in località Corcolle, personale della

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Digos di Roma provvedeva a recuperare un mozzicone di sigaretta, che la giovane aveva poco prima gettato in terra. Il mozzicone veniva sottoposto ad esame dalla Polizia Scientifica e si poteva così accertare che il profilo di DNA della saliva presente sul reperto era lo stesso di quello della formazione pilifera trovata all’interno del furgone Nissan, che era stato abbandonato in via Salaria dagli autori dell’omicidio D’Antona (teste Giannini: ud. 14.3.05, p. 79). All’esito di queste prime indagini, il G.i.p. del Tribunale di Roma emetteva le ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di Cinzia Banelli, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Paolo Broccatelli, Laura Proietti, Federica Saraceni e Alessandro Costa. Venivano quindi eseguite numerose perquisizioni che davano risultanti particolarmente fruttuosi, consentendo di acquisire rilevanti elementi probatori a carico degli imputati (testi: Tintisona, ud. 30.3.05, p. 226 ss., ud. 31.3.05, p. 6 ss., p. 12 ss. e p. 44 ss.; Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 114 ss.; Giannini, ud. 11.4.05, p. 94 ss.). L’appartamento di via Maia risultava già svuotato, in quanto il Mezzasalma lo aveva riconsegnato al proprietario sin dai primi di giugno del 2003 e gli occupanti avevano trasferito in altra sede tutto il materiale di loro pertinenza. Dietro un cassetto di un mobile (dove evidentemente erano caduti senza che gli interessati se ne accorgessero) venivano però rinvenuti documenti di particolare importanza: le ricevute fiscali dei cellulari “955” e “958” e la scrittura privata con la quale Biagio D’Amore, originario possessore delle utenze, le aveva cedute ad una donna (verosimilmente la Lioce) incontrata a Roma nei pressi della fermata “Ottaviano” della metropolitana. All’interno dello stesso appartamento, sulle ante di un armadio, venivano rilevate impronte digitali appartenenti al Mezzasalma ed al Galesi (teste Iacuitto, ud. 14.4.05, p. 54 ss.). Gli esiti di questa perquisizione confermavano l’ipotesi investigativa, secondo cui l’immobile era stato utilizzato, oltre che come abitazione dei due latitanti, come “covo”, per il deposito di tutta la documentazione dell’organizzazione eversiva. Presso l’abitazione di Paolo Broccatelli, all’interno di un garage, veniva trovata una raccolta di schede telefoniche, tre delle quali rientravano tra quelle otto che (sulla base dei ripetuti contatti con suoi parenti o amici o comunque con persone a lui collegate) gli erano state attribuite. Nell’abitazione di Federica Saraceni venivano rinvenuti: un computer con installato un programma di criptazione uguale a quello trovato ad altri imputati; un “floppy disc” contenente un documento (cancellato e poi recuperato dagli esperti informatici della Polizia) relativo alle inchieste per attentati dinamitardi presso le sedi della C.G.I.L., della C.I.S.L. e della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero; una fotografia incorniciata con la foto

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del Galesi; una rubrica e due agende sulle quali era annotato il numero del cellulare “233” a fianco del nominativo “zio Ninnillo” (uno zio dell’imputata deceduto nel 2000); e un’agenda con annotati i numeri del “teledrin” della Proietti con le cifre invertite. In casa di Francesco Rizzo, proprietario dell’appartamento di Cerveteri preso in affitto dalla Saraceni, venivano sequestrati il relativo contratto di locazione ed un’agenda, sulla quale era annotato, a fianco del nominativo dell’imputata, il numero “233” dalla stessa fornito come recapito telefonico. Presso l’abitazione di Roberto Morandi a Firenze, veniva sequestrato materiale informatico relativo agli omicidi D’Antona e Biagi, oltre alla S.T.P. attribuita allo stesso imputato e ad opuscoli riguardanti le linee di comunicazione tra Bologna e Firenze e tra Bologna e Modena. Nel corso della perquisizione eseguita in via Pescaglia, presso l’abitazione di Marco Mezzasalma, venivano sequestrati: il contratto di locazione, alcune bollette e numerosi appunti riguardanti l’appartamento di via Maia; il biglietto della TIM (cui si è già fatto cenno) relativo al cellulare “958”, con annotati sul retro i numeri degli altri tre cellulari considerati “di organizzazione”; una fattura inviata per posta dalla società “Easy box”, dalla quale risultava che il Mezzasalma aveva affittato a nome proprio un locale-deposito in circonvallazione Tiburtina; un assegno emesso dal Mezzasalma a favore del titolare di una ditta di noleggio di furgoni di via Macedonia; un contrassegno assicurativo falso con i numeri di targa di una Fiat Uno che era stata rubata il 18 maggio 1999 ed era stata parcheggiata in via Basento, per essere utilizzata da una delle “staffette” impiegate nell’omicidio D’Antona; un certificato di un ciclomotore che il Broccatelli aveva denunciato come smarrito alcuni anni prima; un documento nel quale si affrontava il problema del “riadeguamento” dell’organizzazione dopo la cattura della Lioce e la morte del Galesi; altro documento che riguardava lo “smobilizzo” e cioè il trasloco del materiale dell’associazione; computer contenenti “files” illeggibili, in quanto criptati con apposito programma. A seguito di questa perquisizione, venivano svolti accertamenti presso la società “Easy box” e presso la ditta di noleggio-furgoni e si apprendeva che in due occasioni, il 31 maggio e il 18 ottobre 2003, il Mezzasalma aveva affittato un furgone, che era servito a trasportare una grande quantità di materiale. L’esame della documentazione sequestrata permetteva di appurare che il materiale era stato spostato il 31 maggio da via Maia nel locale di circonvallazione Tiburtina e il 18 ottobre in altro posto. Il magazzino della “Easy box” era fornito di un sistema di video-sorveglianza e veniva così acquisito il nastro con le immagini registrate il 18 ottobre. Dalla visione di queste immagini risultava, senza ombra di dubbio, che il trasloco era

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stato effettuato dallo stesso Mezzasalma con l’aiuto di una donna, successivamente identificata per Diana Blefari Melazzi. Il documento “dinamica del trasloco”, trovato nell’abitazione del Mezzasalma, conteneva preziosi riferimenti alle date e alle modalità dei due traslochi nonché alle persone che li avevano effettuati. Tali persone venivano indicate con le sigle “L”, “M” ed “S”, successivamente attribuite al Mezzasalma, alla Blefari ed al Broccatelli. Partendo dalle indicazioni contenute nel suddetto documento, veniva effettuato un controllo a tappeto su tutti gli appartamenti, i magazzini e le cantine che, in alcune zone di Roma (che si riteneva fossero più frequentate dagli aderenti all’associazione eversiva), erano stati offerti in locazione mediante annunci su “Porta Portese” (il giornale che in diverse altre occasioni era stato utilizzato dall’associazione eversiva). Si arrivava così ad individuare una cantina in via Montecuccoli, che era stata affittata dal proprietario a Diana Blefari Melazzi. In questa cantina veniva rinvenuto il materiale proveniente dal locale della “Easy box”, in parte ancora racchiuso in scatoloni uguali a quelli che apparivano nelle immagini registrate dall’impianto di video-sorveglianza. Nel corso della perquisizione, eseguita in via Montecuccoli il 20 dicembre 2003, venivano rinvenuti 38 Kg. di esplosivo, circa duecento detonatori, due bombe a mano, munizioni, nitrati utilizzabili per ordigni, timer, sveglie, telecomandi, numerosi volantini di rivendicazione di varie azioni criminose (compresi gli originali dei volantini relativi agli omicidi D’Antona e Biagi e degli attentati compiuti a Roma con la sigla N.I.P.R.), documenti sul programma degli N.C.C., un computer con un “file” contenente gli indirizzi per l’invio del messaggio di rivendicazione dell’omicidio Biagi, numerosi moduli di documenti di identità in bianco rubati in vari Comuni, timbri falsificati o di provenienza furtiva, punzoni per timbratura a secco, divise, cappelli, targhe, assegni ed altri oggetti provenienti da furti in abitazioni, materiale per mascheramento, smalti per non far rilevare le impronte, sacchi a pelo, motocicli portatili ed altro. All’interno dello stesso locale venivano trovate impronte digitali della Lioce, del Mezzasalma, del Broccatelli e della Blefari Melazzi (teste Iacuitto, ud. 14.4.05, p. 70 ss.). Il G.i.p. di Roma disponeva quindi l’applicazione della custodia in carcere anche nei confronti di Diana Blefari Melazzi. Il 20 dicembre 2003 veniva eseguita una perquisizione nella sua abitazione sita a Roma in via del Pigneto n. 30. L’appartamento dava l’idea di essere stato lasciato precipitosamente e, al suo interno, venivano trovati alcuni oggetti provenienti dal locale della “Easy box” (una bicicletta marca Montana, una cyclette , un paio di stivali, una pala e una zappa) e un documento denominato

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“impostazione del riadeguamento politico organizzativo alle nuove condizioni dell’organizzazione” in parte identico ad altro documento sequestrato in casa del Mezzasalma. La Blefari Melazzi veniva rintracciata presso il “Residence il Triangolo” di via Etruria 121 a Santa Marinella, dove si era rifugiata presumibilmente con l’intento di entrare in clandestinità. La stessa, infatti, veniva trovata in possesso di oltre 43.000 euro in contanti , di vari documenti di identità privi delle foto e intestati a varie persone oppure in bianco (con numeri in progressione rispetto ad altri moduli di provenienza furtiva trovati nel “covo” di via Montecuccoli). Il 24 ottobre 2003 veniva eseguita una perquisizione nell’abitazione di Roberto Badel, che risultava aver avuto diversi contatti telefonici con il Broccatelli e con la Blefari Melazzi. Veniva così rinvenuto materiale informatico avente un contenuto considerato eversivo e sistemi di criptazione analoghi a quelli trovati nei computer sequestrati al Mezzasalma ed alla Saraceni. Veniva quindi disposta, anche nei confronti del Badel l’applicazione della misura della custodia in carcere. Le indagini sulle azioni delittuose compiute dall’organizzazione criminosa, denominata prima N.C.C. e poi B.R.-P.C.C., venivano svolte contemporaneamente e parallelamente a Firenze, Bologna e Roma, con gli opportuni collegamenti tra le rispettive Procure della Repubblica. L’esame dei documenti contenuti nei palmari sequestrati al momento della cattura della Lioce, l’estrazione dei relativi “account” di connessione a internet e la ricostruzione del traffico dei cellulari e delle S.T.P. “di organizzazione” rendevano possibile l’identificazione dei militanti toscani nelle persone di Nadia Desdemona Lioce, Cinzia Banelli, Roberto Morandi, Simone Boccaccini e Bruno Di Giovannangelo, ai quali si aggiungevano in un secondo tempo i fratelli Maurizio e Fabio Viscido. Tutti venivano colpiti da provvedimenti impositivi di misure coercitive, emessi dall’autorità giudiziaria fiorentina, in relazione ai reati associativi ed alle rapine compiute in Toscana. Negli interrogatori resi davanti ai pubblici ministeri di Roma in data 2 agosto e 7 settembre 2004, la Banelli cambiava radicalmente la linea difensiva (caratterizzata, sino a quel momento, dall’esercizio della facoltà di non rispondere) e rendeva dichiarazioni con contenuto ampiamente confessorio, chiamando in correità altre persone e riferendo numerose circostanze in merito alla struttura ed al funzionamento dell’organizzazione eversiva ed a numerose azioni criminose dalla stessa compiute. L’imputata dava poi un decisivo apporto allo sviluppo ed al completamento delle indagini, fornendo la “parola chiave” per la decriptazione del materiale informatico sequestrato presso la sua abitazione e presso quella del Morandi.

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Gli atti relativi ai reati associativi, all’omicidio D’Antona, ai vari attentati ed alle rapine venivano concentrati presso gli uffici giudiziari romani. A Bologna rimaneva il procedimento per l’omicidio Biagi ed i reati ad esso strettamente connessi, in ordine ai quali venivano tratti a giudizio gli imputati Banelli (che veniva separatamente giudicata e condannata dal G.i.p.), Lioce, Morandi, Blefari Melazzi, Boccaccini e Mezzasalma (per i quali il dibattimento davanti alla Corte di assise di Bologna si concludeva in primo grado con sentenza di condanna). Separatamente si procedeva anche per l’omicidio Petri, in ordine al quale veniva riconosciuta in primo grado la responsabilità della Lioce. Al termine delle indagini svoltesi nella capitale, il pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio di Nadia Desdemona Lioce, Michele Mazzei, Antonino Fosso, Francesco Donati, Franco Galloni, Paolo Broccatelli, Marco Mezzasalma, Roberto Morandi, Alessandro Costa, Federica Saraceni, Diana Blefari Melazzi, Simone Boccaccini, Bruno Di Giovannangelo, Fabio Viscido, Maurizio Viscido, Cinzia Banelli e Laura Proietti. La Banelli e la Proietti presentavano richiesta di giudizio abbreviato e venivano separatamente giudicate e condannate in primo grado dal G.i.p. del Tribunale di Roma. All’esito dell’udienza preliminare lo stesso G.i.p., con ordinanza in data 19 ottobre 2004, disponeva il rinvio a giudizio, davanti a questa II Corte di assise, di tutti gli altri imputati, in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti. Il G.i.p. di Roma disponeva poi separatamente il rinvio a giudizio, davanti a questa Corte, di Roberto Badel (con ordinanza in data 28 gennaio 2005, per i reati associativi e per detenzione e porto di esplosivi detonatori e bombe a mano) nonché di Lioce, Boccaccini, Morandi, Blefari Melazzi, Di Giovannangelo, Mezzasalma e Broccatelli (con ordinanza in data 19 marzo 2005, per le rapine commesse in Toscana e per i reati connessi). In fase dibattimentale, i due procedimenti separati venivano, sull’accordo delle parti, riuniti al processo principale. Il pubblico ministero procedeva, inoltre, ad alcune contestazioni suppletive, nei confronti di Morandi, Boccaccini, Broccatelli e Di Giovannangelo Le imputazioni rimesse al giudizio di questa Corte venivano pertanto definite così come indicato in rubrica.

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Le responsabilità in ordine alle varie imputazioni.

A) I reati associativi) .

1. Premessa.

Tutti gli imputati sono stati chiamati rispondere dei reati associativi previsti dagli artt. 270-bis e 306 c.p. Perché sussista il reato di cui all’art. 270-bis c.p. è sufficiente la costituzione di una associazione che si proponga di compiere atti di violenza finalizzati a sovvertire l’ordinamento dello Stato nelle sue varie articolazioni e a stravolgere il suo assetto democratico e pluralistico. La Cassazione ha più volte precisato che questo è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma comune fra i partecipanti, caratterizzato dalla suddette finalità e accompagnato da progetti concreti e attuali di atti di violenza. La norma appresta tutela, quindi, contro il programma di violenza e non contro l’idea, anche se questa è collocata in un’area ideologica in contrasto con l’assetto costituzionale dello Stato; l’idea, infatti, anche se di natura eversiva, ma non seguita da programmi e comportamenti violenti, riceve tutela proprio da tale assetto, che ha consacrato il metodo democratico e pluralistico e che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere (in tal senso, da ultimo, v. Cass., 13 marzo 1998, Cadinu, C.E.D., n. 210680). Quanto all’elemento soggettivo, sono richiesti tanto il dolo generico quanto il dolo specifico, da individuarsi il primo nella coscienza e volontà di realizzare le condotte descritte nella disposizione e il secondo nella coscienza e volontà di perseguire il fine di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Il termine “eversione” va letto come sinonimo di “sovvertimento”, con riferimento all’ordinamento costituzionale, inteso come il complesso di principi e di istituti nei quali si esprime la forma democratica dello Stato secondo la Costituzione.

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Il reato di banda armata, previsto dall’art. 306 c.p., invece, presuppone, da un lato la stabilità di un vincolo associativo tra una pluralità di consociati, proteso al conseguimento dello scopo comune di commettere uno o più delitti contro la personalità internazionale od interna dello Stato, punibili con l’ergastolo o la reclusione; e, dall’altro, i requisiti specializzanti dell’organizzazione in banda e del possesso di armi. L’armamento deve essere idoneo al raggiungimento degli scopi comuni, anche se non è necessario che ciascun componente sia armato, essendo sufficiente che gli associati abbiano la concreta possibilità di usare le armi nella disponibilità della banda. Il reato è caratterizzato dal dolo specifico consistente nello scopo di commettere o far commettere uno o più delitti non colposi indicati nell’art. 302 c.p. Secondo la costante giurisprudenza della suprema Corte, il dolo specifico del delitto di banda armata rappresenta un elemento di distinzione decisivo rispetto all’associazione eversiva, nella quale manca il fine di commettere un delitto contro la personalità dello Stato ed è sufficiente il fine di realizzare violentemente un certo programma eversivo. Tra le due ipotesi è ammissibile il concorso, poiché esiste un rapporto di mezzo a fine e non di specie a genere, dato che il delitto di banda armata è caratterizzato dalla finalità di commettere uno dei delitti sopra indicati, tra i quali rientra quello contemplato dall’art. 270-bis c.p. Nel caso di specie sussistono tutti gli elementi richiesti per la configurazione di entrambe le fattispecie criminose. Come si è già detto, la formazione che ha compiuto varie azioni delittuose, tra il 1992 e il 2003, con crescente livello di gravità, utilizzando varie sigle e denominazioni (dai Nuclei Comunisti Combattenti alle Brigate Rosse per la Formazione del Partito Comunista Combattente), ha agito sin dall’inizio per raggiungere gli stessi obiettivi dell’originaria organizzazione, che era stata “disarticolata” negli anni 1988 e 1989. Ciò è dimostrato in modo inequivocabile dal contenuto del documento che è stato trovato nel “covo” di via Montecuccoli e che è stato considerato una specie di “atto costitutivo” dell’associazione. Abbiamo riportato testualmente i passi più significativi di tale documento, dai quali risulta che i metodi usati erano sempre quelli della “lotta armata”, della “guerra di classe”, del “rilancio della guerriglia nella guerra contro la borghesia capitalista”, degli “attacchi al cuore dello Stato” e le finalità perseguite erano “l’abbattimento del regime capitalista”, la “conquista del potere politico” per instaurare la “dittatura del proletariato”. Questi stessi concetti sono stati ribaditi ripetutamente e diffusamente in altri documenti e nei vari comunicati prodotti da alcuni imputati.

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Puntuali e precise conferme si sono poi avute con le dichiarazioni rese, sia in sede di incidente probatorio (ud. 1.10.2004, p. 55 ss.) che in dibattimento (ud. 9.5.2005, p. 256 ss.), da Cinzia Banelli, la quale ha parlato di continuità e di identità di obiettivi tra N.C.C. e B.R.-P.C.C. ed ha descritto le caratteristiche del sodalizio, organizzato secondo criteri di ripartizione di competenze (con una sede centrale, con organi di coordinamento e sedi locali), compartimentazione e clandestinità (per i militanti regolari) e volto costantemente all’attuazione della strategia della lotta armata, attraverso azioni violente, preparate con grande meticolosità, precisa ripartizione di compiti e ferreo rispetto di regole di comportamento. Il fatto che prima dell’omicidio D’Antona fosse stata utilizzata una diversa denominazione e fossero state eseguite soltanto azioni non “disarticolanti”, non dirette cioè a colpire persone, non vuol dire che gli obiettivi e le strategie da perseguire fossero diverse. Non vi è stata, infatti, alcuna discontinuità organizzativa, ma solo una evoluzione ed una progressiva maturazione politica. Il rilancio dell’attività offensiva è stato graduale ed è passato attraverso tappe intermedie solo perché si è tenuto conto dei livelli man mano sostenibili nonché del numero, della preparazione e della capacità delle forze disponibili. Sia dalle dichiarazioni della Banelli che dal contenuto di alcuni documenti si può desumere che l’esiguità del numero dei militanti costituiva un problema che in alcuni casi imponeva deroghe al criterio della compartimentazione e che condizionava anche la scelta degli obiettivi da colpire (tanto è vero che si è tenuto conto del fatto che sia D’Antona che Biagi non disponevano di scorte armate). Sia nella fase precedente che in quella successiva al primo omicidio “politico”, l’organizzazione disponeva comunque degli strumenti tipici dei gruppi eversivi. Grazie ai c.d. “espropri” (le varie rapine agli uffici postali, alcune delle quali hanno fruttato ingenti somme), infatti, aveva il denaro più che sufficiente per autofinanziarsi. Era in grado, inoltre, di utilizzare esplosivi, detonatori, armi, munizioni, veicoli, radio ricetrasmittenti, materiale informatico (dotato di sistemi di criptazione) ed ogni altro strumento necessario per l’esecuzione delle varie azioni; il che è dimostrato dal materiale sequestrato, in grande quantità, presso il “covo” di via Montecuccoli. Per tutto il periodo compreso tra il 1992 e il 2003 è esistita, quindi, un’associazione con una struttura ben organizzata, dotata del necessario armamento e capace di predisporre e di attuare concreti programmi, comuni tra i partecipanti e volti al compimento di atti di violenza, con finalità eversive, così come richiesto dalle citate norme incriminatrici. Non è possibile quindi operare alcuna distinzione di responsabilità tra i militanti che hanno fatto parte dell’associazione per tutto il periodo suddetto e quelli che hanno partecipato solo alla prima fase e si sono distaccati in

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coincidenza con il “salto di qualità” rappresentato dal compimento dell’azione “disarticolante”, l’omicidio del prof. D’Antona.

2. Nadia Desdemona Lioce. La responsabilità di Nadia Desdemona Lioce, in ordine ai reati associativi di cui al primo capo di imputazione, è da ritenere del tutto pacifica. L’imputata, in quanto frequentatrice di ambienti dell’estrema sinistra a Pisa (dove allora risiedeva), era stata già coinvolta nelle indagini sull’omicidio di Lando Conti ed era stata sottoposta ad una perquisizione, disposta dall’autorità giudiziaria di Firenze. Pur non essendo stata ancora colpita da provvedimenti restrittivi, nel 1995, subito dopo l’arresto di Luigi Fuccini (al quale era legata sentimentalmente), era entrata in clandestinità, manifestando così chiaramente l’intenzione di dedicarsi interamente alle attività dell’associazione eversiva. Nel corso delle indagini per l’omicidio D’Antona, con provvedimento del G.i.p. del Tribunale di Roma in data 22 ottobre 2002, è stata disposta nei suoi confronti l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere. Tale misura non è stata subito eseguita, poiché la Lioce è riuscita a mantenere il suo stato di latitanza sino alla mattina del 2 marzo 2003, allorché è stata casualmente trovata sul treno Roma-Firenze. In tale occasione ha cercato, insieme al Galesi (anch’esso latitante), di sottrarsi alla cattura e di disarmare gli agenti della polizia ferroviaria, concorrendo nell’esecuzione dell’omicidio di Emanuele Petri (testi: Dalpiaz, Di Fronzo e Fortunato, ud. 12.5.05, p. 7 ss., p. 18 ss. e p. 22 ss.). Al momento dell’arresto è stata trovata in possesso, tra l’altro, delle chiavi dell’appartamento di via Maia 6, di due computer palmari e di una carta di identità falsa (con la sua fotografia e le generalità di Rita Bizzarri), facente parte (come quella trovata al Galesi) di un gruppo di 101 moduli in bianco rubati il 10 marzo 1999 presso il Comune di Casape. Dalla “memoria flash” di uno dei due palmari (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 173 s.) sono stati estrapolati spezzoni di documenti sicuramente riferibili all’associazione eversiva: uno conteneva una sorta di pianificazione della rapina compiuta il 6 febbraio 2003 presso l’ufficio postale di via Torcicoda a Firenze; un altro riguardava il dibattito sulla proposta di espulsione della compagna “SO” (identificata per Cinzia Banelli) e sui problemi che la stessa, con le sue inadempienze, aveva creato all’organizzazione. La stessa Banelli ha riferito (ud. 2.10.05, p. 20), in senso conforme alle risultanze di detto documento, in merito alla decisione del suo allontanamento dall’organizzazione (che era stata già adottata dalla sede centrale e che avrebbe dovuto esserle comunicata dal Galesi in un incontro fissato per il giovedì successivo al 2 marzo 2003)

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Nell’interrogatorio di garanzia conseguente all’arresto, la Lioce ha dichiarato di essere un’appartenente alle Brigate Rosse, qualificandosi come “prigioniera politica” e rifiutandosi di rispondere a qualsiasi domanda. Nella stessa occasione ha prodotto un memoriale, ribadendo la propria militanza rivoluzionaria ed esprimendo gli stessi concetti che erano stati esposti in altri documenti riferibili all’organizzazione. Analoghi atteggiamenti ha assunto in dibattimento (ud. 14.3.05, p. 20 ss.), dove ha letto e prodotto un comunicato, nel quale ha disconosciuto la legittimità della Corte chiamata a giudicarla, affermando di dover rendere conto solo <<al proletariato e alle Brigate Rosse che ne sono l’avanguardia>>; ed ha sottolineato <<il rilancio della strategia della lotta armata operato dalle B.R. con le azioni D’Antona e Biagi>>, ribadendo la <<legittimità sociale, politica e storica della strategia della lotta armata e del partito comunista combattente in costruzione che, esercitando il suo ruolo di direzione rivoluzionaria nell’unità del politico e del militare, si contrappone come autorità proletaria all’autorità dello Stato borghese>>. Il contenuto sostanzialmente confessorio di queste esternazioni renderebbe superflua ogni altra considerazione. Per completezza, peraltro, deve aggiungersi che la Banelli ha rivolto precise e circostanziate accuse nei confronti della Lioce, affermando che la stessa faceva parte della “sede centrale”, il massimo organo direttivo dell’organizzazione, e in tale veste partecipava alle decisioni riguardanti tutte le azioni e, in molti casi, dava anche il suo apporto materiale alla loro esecuzione, come ad esempio nelle due azioni “disarticolanti”, rappresentate dagli omicidi di Massimo D’Antona (nel quale ha fatto parte, con il Galesi, della “squadra operativa offensiva”) e di Marco Biagi (nel quale ha svolto funzioni di “staffetta”). L’imputata ha mantenuto questa posizione di vertice per tutto il tempo in cui la Banelli ha fatto parte dell’associazione e, quindi, tra il 1995 e il 2003, rivestendo questa carica sino alla fine del 2002 insieme a Mario Galesi e nel periodo successivo anche insieme ad altri due militanti. All’inizio del 2003 si è deciso di allargare la “sede centrale”, essendosi aperta una crisi politica, determinata da alcune divergenze tra la Lioce e il Galesi nella valutazione dell’atteggiamento del corpo militante rispetto alla strategia della lotta armata. La ristrettezza numerica dell’organo direttivo aveva reso difficile la composizione tra le due diverse posizioni politiche ed aveva reso necessario l’allargamento della sede centrale. Le circostanze riferite dalla Banelli hanno trovato conferma nella documentazione sequestrata e ciò ha dimostrato la piena attendibilità della stessa dichiarante. Diversi altri elementi probatori attestano la frequentazione, da parte della Lioce, dell’abitazione di via Maia (della quale, come si è detto, aveva il

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possesso delle chiavi) e della cantina di via Montecuccoli, che sono state certamente, in due diversi periodi, basi logistiche dell’organizzazione, servite entrambe per la custodia di tutto il materiale necessario alla vita del sodalizio e la prima anche come rifugio per i due componenti della “sede centrale”. Il teste Bergamo (ud. 11.4.05, p. 154), infatti, ha riferito che, nel settembre-ottobre del 2002, essendosi recato nello stabile di via Maia n. 6 (ove si trova l’appartamento di sua proprietà, dato in locazione al Mezzasalma) per ritirare la posta, aveva avuto modo di vedere da vicino una donna, poi riconosciuta per la Lioce in una fotografia pubblicata su una rivista. All’interno dello stesso appartamento sono state rilevate impronte digitali appartenenti a Mario Galesi, il che ha avvolarato l’ipotesi che lo stesso vi avesse clandestinamente abitato per un certo periodo proprio in compagnia della Lioce (essendo entrambi latitanti). Il fatto che in quell’immobile vi fossero i massimi dirigenti dell’organizzazione risulta confermato anche dalla circostanza che il telefono fisso ivi installato è stato contattato da molte S.T.P. nel periodo cruciale della preparazione e dell’esecuzione dell’omicidio D’Antona. Nella cantina di via Montecuccoli, inoltre, sono stati sequestrati diversi documenti direttamente riferibili all’imputata. E’ stata trovata, in primo luogo, una busta contenente una carta di identità, la patente di guida, una tessera ferroviaria e il codice fiscale della Lioce. Su questa busta vi era la scritta “RS cose personali”, il che vale a confermare che la sigla “RS” (corrispondente al nome di battaglia Rosa ed al nome operativo Roberta), risultante da documenti riguardanti la programmazione di alcune azioni offensive, si riferiva appunto all’imputata (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 179).. Sono stati poi sequestrati, nella suddetta cantina, tre faldoni contenenti pratiche mediche riguardanti tale Carla Ceci e i suoi rapporti con un laboratorio medico dell’A.I.E.D. Con una comparazione grafica effettuata dalla Polizia scientifica, si è potuto accertare che quello di Carla Ceci, al pari di Rita Bizzarri e Luisa Martini, era uno dei nominativi falsamente usati dalla Lioce (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 94). Nello stesso luogo è stato rinvenuto un quaderno scritto sicuramente di pugno in parte dal Galesi e in parte dalla Lioce, contenente la programmazione dell’omicidio del prof. Biagi ed una raccolta di suoi scritti (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 39 e p. 103). Su diversi materiali, sempre nel “covo” in via Montecuccoli, sono state rilevate, infine, impronte digitali appartenenti all’imputata, ad ulteriore dimostrazione della sua frequentazione di un luogo che rivestiva una particolare importanza per il sodalizio criminoso (teste Tintisona, ud. 31.3.05, 16).

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Si è poi accertato che la Lioce aveva la disponibilità dei cellulari considerati “di organizzazione”, dato che lei stessa ha lasciato come recapito telefonico il “233” al laboratorio medico dell’A.I.E.D. nel giugno del 1998 e il “955” al negozio di informatica della “Graphocard s.r.l.” nel gennaio del 2003 (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 6 e p. 96). Tutti questi elementi probatori consentono di affermare con certezza che ricorre per la Lioce l’ipotesi più grave, prevista dal comma 1 degli artt. 270-bis e 306 c.p., poiché la stessa si trovava in una posizione di superiorità rispetto agli altri partecipi e svolgeva, insieme agli altri membri della “sede centrale”, funzioni di guida e di direzione. L’atteggiamento che l’imputata ha tenuto in dibattimento (nel corso del quale ha fatto spesso da portavoce degli altri detenuti, dando l’impressione di dettare a tutti le regole di comportamento) è servito a rafforzare tale convincimento.

3. Michele Mazzei, Antonino Fosso, Francesco Donati e Franco Galloni.

Partendo dall’analisi del documento di rivendicazione dell’omicidio D’Antona (nel quale veniva nuovamente usata la sigla delle B.R.-P.C.C.) e ritenendo che vi fosse una continuità oggettiva con le precedenti azioni (compiute sotto la sigla N.C.C.), gli inquirenti hanno subito indirizzato le indagini nei confronti dei detenuti appartenenti alla originaria organizzazione delle Brigate Rosse. Sono state così eseguite perquisizioni presso le carceri di Trani, dove erano ristretti alcuni degli “irriducibili”. Nella cella di Michele Mazzei è stato rinvenuto un dattiloscritto di quattordici pagine, contenente una parte del volantino di rivendicazione dell’omicidio D’Antona. Il dattiloscritto era accompagnato da una legenda chiarificatrice di alcuni segni marginali apposti in fondo alle pagine e presentava aggiunte e interpolazioni vergate a mano, con grafie che sono risultate esattamente corrispondenti a quelle dello stesso Mazzei e di Franco Galloni. Si è anche accertato che il documento era stato redatto utilizzando una macchina da scrivere che si trovava della cella di Francesco Donati (teste Giannini, ud. 14.3.05, p. 151 ss). Presso lo stesso carcere, analoghi documenti, con l’intero testo del volantino di rivendicazione corredato da correzioni manoscritte e da cancellature, sono stati sequestrati all’interno delle celle di Antonino Fosso e di Francesco Donati. Tali documenti, scritti sempre con la macchina del Donati (risultato anche autore di alcune delle interpolazioni manoscritte), avevano un contenuto non corrispondente al titolo, che riguardava invece un congresso di un partito irlandese.

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Il consulente tecnico Domenico Proietti (ud. 23.5.05, p. 144 ss.), con convincenti argomentazioni, ha chiarito in dibattimento che il testo della rivendicazione rinvenuto in carcere era una stesura provvisoria e precedente rispetto a quella definitiva. Il volantino di cui è stata data diffusione risulta, infatti, più rifinito e accurato ed appare il frutto di una più attenta e completa elaborazione. Il testo sequestrato nelle celle, invece, presenta numerose abbreviazioni, non menziona la data dell’esecuzione del delitto e non riporta per intero il nominativo della vittima, ma solo le prime due lettere del cognome: tali circostanze, unite a quella della mancata corrispondenza tra il titolo e il contenuto, non troverebbero alcuna spiegazione se la rielaborazione di quel testo da parte dei detenuti fosse avvenuta ad attentato già compiuto e se non vi fosse stata l’esigenza di non far sorgere sospetti negli eventuali controllori. Deve ritenersi, pertanto, che il testo provvisorio del volantino della rivendicazione sia stato inviato ai detenuti “irriducibili” prima del 20 maggio 1999, per dare loro la possibilità di esaminarlo e di fare eventuali osservazioni e proposte e soprattutto per avere da loro la legittimazione e l’avallo in merito all’utilizzazione della sigla B.R.-P.C.C. Il fatto che le aggiunte e le correzioni apportate dai detenuti non siano state poi trasfuse nel testo definitivo della rivendicazione non vale ad escludere detta ipotesi e comunque appare irrilevante ai fini della sussistenza di un concorso dei suddetti quattro imputati nei reati associativi contestati. L’ipotesi che vi fosse uno stretto collegamento tra i brigatisti detenuti e quelli operanti all’esterno ha trovato riscontro in altre rilevanti circostanze. Si è accertato, infatti, che il cellulare “di organizzazione” con le tre cifre finali 039, alle ore 6,42 del 17 gennaio 1999 e alle ore 6,35 del 31 dello stesso mese, è stato contattato da una S.T.P., che chiamava da una cabina telefonica pubblica di Trani: una persona verosimilmente appartenente all’associazione eversiva, quindi, era presente nella città ove erano detenuti i quattro imputati, proprio nel periodo dell’omicidio D’Antona (teste Gismondi, ud. 14.4.05, p. 116 ss.). La teste Maria Lo Bascio (ud, 6,6,05, p. 24 ss.) ha riferito di aver avuto una relazione sentimentale con l’ex brigatista Michele Pegna (che all’epoca era detenuto presso il carcere di Trani, da lei frequentato nell’esercizio della sua attività di volontariato) e di avere dallo stesso appreso, pochi giorni dopo che era stato ucciso D’Antona, che l’omicidio era stato commesso dalle Brigate Rosse e che in carcere i detenuti avevano la possibilità di ricevere e nascondere facilmente documenti provenienti dai militanti esterni. Presso il “covo” di via Montecuccoli, inoltre, sono stati ritrovati diversi documenti che riportavano il “visto per censura” in originale ed erano

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sicuramente provenienti dal carcere di Trani; alcuni di questi documenti era stati redatti con la macchina da scrivere trovata nella cella del Donati. In un documento rinvenuto nello stesso “covo” e riconducibile alla Lioce, indicata con la sigla “RS”, si riconosce l’apporto concretamente fornito dagli “irriducibili”, laddove si afferma testualmente: <<il fatto che il nostro rilancio sia stato il frutto della centralizzazione politica intorno all’impianto e alla linea dell’O. è la pura verità ed è stata nostra intenzione farlo, per cui la realtà concreta è stata che grazie ai documenti usciti dal carcere che sono stati la nostra base formativa e costruttiva (in modo quasi esclusivo) noi ci siamo attivati e costruiti …>>. La stessa Banelli (ud. 2.10.04, p. 111 s.) ha sostenuto che il contributo fornito dai brigatisti detenuti era rappresentato dal materiale documentale dagli stessi prodotto, in quanto tale materiale era sempre oggetto di studio e di analisi da parte dei militanti che agivano in libertà all’esterno. La Banelli (ud. 9.5.05, p. 263) ha poi precisato che gli aderenti all’organizzazione, pur non avendo formulato alcuna esplicita richiesta, facevano affidamento su un riconoscimento della loro attività da parte degli “irriducibili” e si attendevano una legittimazione ed una autorizzazione all’uso della originaria denominazione B.R.-P.C.C., in coincidenza con il compimento dell’azione offensiva “disarticolante”. Infatti, il 23 maggio 1999, solamente tre giorni dopo l’omicidio, è stata spedita dal carcere di Trani a quello di Novara una missiva, recante le firme di Michele e di Nino (verosimilmente corrispondenti a quelle di Michele Mazzei e Antonino Fosso) e di una terza persona non individuata (teste Giannini, ud. 23.5.05, p. 21). In tale lettera si diceva testualmente: <<vi scriviamo per comunicarvi che noi da qui faremo un documento di appoggio all’azione dell’O. Riteniamo corretto intervenire da ogni singolo carcere per quanto riguarda le questioni che tratteremo, nello scritto ci atterremo nel modo più rigido ai contenuti del volantino D’Antona (ovviamente per quanto ci è noto dagli articoli di stampa)>>. Il riferimento agli articoli di stampa appare fatto per non destare sospetti e per non rivelare il fatto che il volantino era stato esaminato ancor prima dell’esecuzione del delitto. Si è potuto accertare, d’altra parte, che alla data del 23 maggio 1999 il testo della rivendicazione non era stato ancora pubblicato da alcun giornale. Il 28 maggio 1999, in osservanza all’impegno preso con la suddetta missiva, è stato reso noto un comunicato di appoggio all’omicidio D’Antona, ricalcante effettivamente il contenuto della rivendicazione e firmato dai “militanti prigionieri delle Brigate Rosse per la Formazione del Partito Comunista Combattente” Antonino Fosso, Franco Galloni e Michele Mazzei.

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Il 25 maggio 1999 Francesco Donati ha inviato, a sua volta, una lettera a “Il Bollettino”, scrivendo testualmente: <<con questo intervento intendo ribadire la mia militanza rivoluzionaria assumendomi le responsabilità che mi competono in pieno appoggio e sostegno all’attività rivoluzionaria delle B.R.-P.C.C. nell’interezza della sua storia e del suo patrimonio politico e strategico>> e firmandosi come “un militante rivoluzionario”. In questi ultimi documenti il nominativo della vittima è riportato per intero, senza abbreviazioni; il che conferma ancor più la fondatezza delle considerazioni fatte in merito ai dattiloscritti trovati nelle celle del carcere di Trani. Tutti questi elementi probatori consentono di ritenere i quattro imputati responsabili, a titolo di concorso, dei reati associativi contestati. Invero, con i loro comportamenti - consistiti nel mantenere, attraverso lo scambio di materiale documentale (che veniva fatto oggetto di analisi e di studio), continui contatti con i militanti operanti all’esterno, nonché nel manifestare in più occasioni pieno appoggio alle loro iniziative ed alle loro azioni e, soprattutto, nell’avallare ed autorizzare l’uso della originaria denominazione (nel segno di un’effettiva continuità) - essi hanno consapevolmente rafforzato i propositi criminosi degli aderenti al sodalizio, spronandoli ed incoraggiandoli a proseguire nella loro attività delittuosa e ponendosi come modelli da imitare. Gli stessi imputati, d’altra parte, quando sono stati sentiti dopo l’emissione del provvedimento applicativo della misura cautelare, hanno voluto rivendicare la loro persistente appartenenza alla organizzazione eversiva, dichiarandosi ancora militanti delle B.R.-P.C.C.; e analogo atteggiamento hanno continuato a tenere durante tutto il corso del dibattimento, allorché hanno avuto occasione di rendere spontanee dichiarazioni o di dare lettura di comunicati.

4. Paolo Broccatelli.

Paolo Broccatelli era noto agli inquirenti sin dagli anni ’80 per le sue frequentazioni con Mario Galesi e Jerome Cruciani, insieme ai quali era stato identificato in occasione di manifestazioni (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 130). Il coinvolgimento nelle indagini, relative all’omicidio D’Antona ed alle altre azioni commesse dalla stessa associazione eversiva, si è però avuto all’esito del complesso lavoro di ricostruzione del traffico dei cellulari e delle S.T.P. “di organizzazione”. Delle 25 schede per le quali si è giunti ad un abbinamento con persone identificate, ben otto sono state attribuite al Broccatelli, sulla base del solito criterio, in base al quale si è tenuto conto dei rapporti di parentela, di amicizia o

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di semplice frequentazione tra l’imputato e le persone contattate (teste Gabrielli, ud. 17.3, p. 64). La piena affidabilità di questo criterio è dimostrata dal fatto che tre delle otto S.T.P. abbinate all’imputato sono state materialmente ritrovate all’interno del suo garage, in mezzo a numerose altre schede facenti parte di una collezione (all’epoca su una delle due facce delle schede erano raffigurate serie di immagini e si era diffusa l’abitudine di farne raccolta, una volta che ne era cessata l’utilizzazione naturale). Queste otto schede sono state utilizzate in modo “promiscuo”, cioè sia per ragioni private e personali, sia per contattare i cellulari costituenti la dotazione del sodalizio. Questi contatti dimostrano con certezza la militanza del Broccatelli, poiché quei telefoni erano dedicati in via esclusiva alle esigenze dell’organizzazione ed erano impiegati solo in occasione del compimento di determinate operazioni. Elementi di prova altrettanto rilevanti sono stati ottenuti con l’esame dei documenti estrapolati dagli archivi informatici, in base ai quali è stato possibile abbinare con certezza al Broccatelli le sigle “S” e “SM”. La Banelli (ud. 2.10.04, p. 7 s. e 45 ss.) ha chiarito che ogni militante, indipendentemente dal suo livello di partecipazione all’associazione, era individuato da un “nome di battaglia” che generalmente, per motivi di compartimentazione (e cioè di segretezza interna), veniva indicato nei documenti non per esteso, ma con una sigla di una o due lettere. Nei documenti riguardanti singole operazioni da compiere, le sigle dei militanti che dovevano partecipare venivano per lo più riportate con accanto il corrispondente “nome operativo”, che ovviamente era diverso dal “nome di battaglia” e che veniva usato, ad esempio, nelle comunicazioni, per radio o per telefono, tra i componenti della squadra operativa (che potevano anche non conoscersi tra loro). In un documento estrapolato dai computer del Morandi , denominato “Sicur-S” e datato 10 agosto 2003, si parla di un militante, indicato con la sigla “S”, che era stato sottoposto a pedinamento da parte di agenti di polizia e che doveva essere “congelato” (cioè non impiegato in alcuna operazione) per un periodo di almeno sei mesi. Nello stesso documento si riportano i dati osservati dal militante riguardo alle modalità dei controlli e dei pedinamenti subiti, con indicazione delle date (da domenica 11 maggio fino alla prima settimana di agosto) e degli orari e con una precisa descrizione dei mezzi usati dai pedinatori (<<scooter Leonardo 150 grigio metallizzato-liberty; 50 blu-elettrico; SH 50 scuro; moto enduro, forse 350, bianca e rossa; moto Honda Transalp, grigia e rossa … >>). Le date indicate nel documento sono comprese nel periodo in cui il Broccatelli è stato realmente sottoposto a servizi di appostamento, di

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osservazione e di controllo da parte delle forze di Polizia, poiché già si sospettava che facesse parte dell’organizzazione. I veicoli descritti, inoltre, corrispondono esattamente a quelli utilizzati dalla Digos per espletare i suddetti servizi (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 233 ss.). Dalla lettura del “file” “smob. 2.doc”, datato 1 maggio 2003, si evince chiaramente che nella pianificazione dell’operazione di smobilizzo del “covo” di via Maia era previsto l’impiego di tre “staffette”, che avevano il compito di controllare la zona mentre altri due militanti avrebbero provveduto materialmente al trasloco. In un documento, datato 28 maggio 2003 e denominato “pian. Smob. 4” (“Bozza di pianificazione definitiva dell’azione di smobilizzo”), si legge invece che all’attività di trasferimento del materiale dell’organizzazione, dall’appartamento di via Maia al locale della “Easy box”, non poteva più partecipare il militante indicato con il nome operativo Beppe, il quale doveva essere sostituito dal militante Aldo, il cui posto doveva essere preso da Maria; le “staffette” dovevano quindi essere due anziché tre, non essendovi altra forza disponibile, data anche l’esiguità del numero complessivo dei militanti. Il militante Beppe sostituito non poteva che essere il Broccatelli, il quale proprio in quel periodo era stato “congelato” per motivi di sicurezza, essendo stato sottoposto a servizi di pedinamento. In un altro documento, rinvenuto presso l’abitazione del Mezzasalma, si legge che al trasferimento del materiale dal deposito della “Easy box” alla cantina di via Montecuccoli avevano partecipato i militanti indicati con le sigle “L” (corrispondente allo stesso Mezzasalma, visibile nelle immagini tratte dal nastro registrato con l’impianto di video-sorveglianza), “M” (attribuita alla Blefari Melazzi, visibile nelle stesse immagini) ed “S”. Quest’ultima sigla non poteva che riferirsi al Broccatelli, tenuto conto di quanto risulta dal documento “Sicur-S”. Detto trasloco è stato effettuato il 18 ottobre 2003, quando ormai il “congelamento” del Broccatelli era cessato, tenuto conto che i servizi di polizia era stati diradati e che erano state adottate, da parte dei militanti, le opportune contromisure (indicate nel documento “Sicur-S”), con attenti contropedinamenti. L’appartenenza dell’imputato all’associazione eversiva può essere desunta anche dalla accertata sua frequentazione della cantina di via Montecuccoli. Sul materiale per il mascheramento e su alcuni documenti, sequestrati all’interno del “covo”, sono state rilevate, infatti, ben 31 impronte digitali appartenenti al Broccatelli (teste Iacuitto, ud. 14.4.05, p. 70 ss.). Gli accertamenti al riguardo eseguiti dalla Polizia scientifica risultano inconfutabili, in quanto fondati su metodiche sicure ed ampiamente

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sperimentate; inconferenti ed irrilevanti appaiono, invece, le obiezioni mosse dal consulente della difesa. All’interno dello stesso locale, inoltre, sono stati trovati alcuni documenti scritti a mano con una grafia che, sulla base degli esami grafologici eseguiti dalla Polizia scientifica, è risultata esattamente corrispondente a quella dell’imputato. Analoghe corrispondenze sono state riscontrate su altri documenti, sequestrati in via Montecuccoli e riportanti alcune interpolazioni manoscritte (teste Gismondi, ud. 14.4.05, p. 145). Presso l’abitazione del Broccatelli è stato poi rinvenuto materiale informatico, contenente documenti in parte identici ad altri documenti sequestrati nella suddetta cantina e con sistemi di criptazione uguali a quelli installati nei computer trovati ad altri imputati (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 47 e p. 55 ss.). Presso l’abitazione del Mezzasalma, inoltre, è stata sequestrata la copia del certificato del ciclomotore Piaggio SI, avente il telaio n. 240680, per il quale lo stesso Broccatelli aveva presentato denuncia di furto il 30 giugno 1995 presso la Stazione dei Carabinieri di Roma San Basilio. Tale circostanza vale a dimostrare l’esistenza di contatti tra i due imputati già nel 1995, quando era in pieno svolgimento l’attività eversiva degli N.C.C.; a quell’epoca, infatti, risale la tentata rapina di via Eredia, a seguito della quale erano stati arrestati Fabio Matteini e Luigi Fuccini. Si è accertato, infine, che il Broccatelli era titolare di un teledrin, servizio telefonico che, almeno sino al 1999-2000, è stato frequentemente usato dagli aderenti all’associazione eversiva (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 73 ss.). Sulla base di queste numerose ed univoche risultanze probatorie, deve affermarsi la responsabilità dell’imputato in ordine ai reati associativi ascrittigli. L’appartenenza di Paolo Broccatelli all’associazione, del resto, ha trovato conferma nel comportamento che egli ha tenuto nel corso del dibattimento, mostrando di essere in piena sintonia con i coimputati Lioce, Mazzei, Fosso, Donati, Galloni, Mezzasalma, Morandi e Blefari Melazzi, con i quali ha voluto condividere le “gabbie” (in posizione separata rispetto agli altri imputati) ed ai quali si è uniformato negli atteggiamenti denotanti un completo disinteresse per lo svolgimento del processo. 5. Marco Mezzasalma.

Altrettanto pacifica è da ritenere la responsabilità di Marco Mezzasalma, essendosi accertato che egli svolgeva, all’interno dell’associazione, l’importante funzione di “responsabile logistico”. Dall’esame del traffico delle schede telefoniche prepagate è emersa l’esistenza dell’appartamento di via Maia n. 6, abitato per un certo periodo dalla Lioce e dal Galesi..

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Il proprietario dell’immobile, Mauro Bergamo, ha riferito (ud. 11.4.05, p. 138 ss.) di averlo dato in locazione, a partite dall’1 febbraio 1998 e sino ai primi di giugno del 2003, al Mezzasalma, contattato a seguito di un annuncio su “Porta Portese”. Il contratto di locazione dell’appartamento è stato rinvenuto presso l’abitazione dell’imputato, insieme ad alcune bollette relative alle utenze ivi installate (teste Tintisona, ud. 30.3, p. 175). Il fatto che un militante di una formazione eversiva avesse fornito le proprie vere generalità al locatore di un immobile, che doveva essere utilizzato come rifugio per due latitanti e come deposito di materiale estremamente compromettente, non può essere considerato abnorme ed illogico. La Banelli (ud. 2.10.04, p. 87) ha fornito a questo riguardo una plausibile spiegazione, precisando che <<per gestire un’abitazione dove vivevano i militanti clandestini serviva ovviamente un prestanome che si intestasse l’affitto, perché comunque doveva essere un luogo sicuro … non potevano essere utilizzati documenti falsi, perché poi c’era da gestire i rapporti con i proprietari dell’appartamento>>. Ha poi aggiunto che <<gli appartamenti dovevano essere collocati in quartieri popolosi , dove non fosse abitudine conoscersi tutti e avere rapporti con tutti, per motivi ovviamente di non esposizione>>; e l’immobile in questione, situato nella zona del Tuscolano, aveva sicuramente tali caratteristiche. Le chiavi del cancello e del portone dello stabile di via Maia n. 6 e quelle della porta di ingresso e della cassetta della posta dell’appartamento del Bergamo sono state trovate in possesso della Lioce, in occasione dell’omicidio Petri. Da documenti estrapolati dagli archivi del Morandi e della Blefari Melazzi (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 5) risulta che, a seguito della cattura della Lioce, l’organizzazione aveva deciso di cambiare la serratura della porta di ingresso e di danneggiare quelle del cancello e del portone dello stabile, in modo da evitare che le chiavi sequestrate potessero essere utilizzate per entrare nell’appartamento occupato da due componenti della “sede centrale”. Si è potuto poi constatare che effettivamente la serratura della porta era stata cambiata; e tale circostanza è stata confermata dal teste Bergamo. Si è anche appurato che quella del portone era stata rotta da ignoti e che i condomini dello stabile l’avevano però fatta sostituire con altra identica a quella del cancello; il personale della Digos era riuscito quindi ad utilizzare tutte le chiavi sequestrate, fatta eccezione per quella della porta di ingresso. Nel corso della perquisizione eseguita in detto appartamento, nel retro di un cassetto di un mobile, sono stati trovate la scrittura privata riguardante la cessione delle schede TIM-card “955” e “958” (effettuata il 6 febbraio 1999 da Biagio D’Amore e Federica Gianni) e le relative ricevute fiscali.

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Tale rinvenimento fa ritenere ancor più esatta la qualificazione dell’immobile come base logistica dell’associazione. Sulle ante di un armadio, all’interno dello stesso appartamento, sono state poi rinvenute impronte digitali del Galesi e dello stesso Mezzasalma (teste Iacuitto, ud. 14.4.05, p. 56 ss.). Ciò vale a dimostrare che quest’ultimo aveva stretti rapporti con i vertici dell’organizzazione. La sua militanza e il ruolo particolarmente rilevante che egli rivestiva all’interno del sodalizio hanno trovato conferma in altre risultanze probatorie. Presso la sua abitazione in via Pescaglia (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 226 ss.), infatti, è stato trovato un biglietto da visita della TIM riguardante il cellulare “958”, con annotati sul retro gli altri tre telefoni considerati “di organizzazione”. (“955”, “039” e “”233”). Nella stessa abitazione è stata sequestrata una fattura inviata per posta dalla “Easy box s.r.l.”, dalla quale si ricavava che il Mezzasalma aveva preso in locazione, con le proprie generalità, anche il locale-deposito sito in circonvallazione Tiburtina, dove (per superare l’emergenza causata dalla cattura della Lioce e dalla morte del Galesi) era stato trasferito il materiale precedentemente custodito in via Maia n. 6. Insieme alla fattura, c’era un assegno non incassato (perché evidentemente restituito dal creditore, a seguito del pagamento in contanti), emesso dal Mezzasalma a favore di tale Benito Aiello, titolare di una società di noleggio di furgoni avente sede in via Macedonia. Presso tale società, in due occasioni, nel maggio e nell’ottobre del 2003, l’imputato ha noleggiato un furgone, che è servito per trasferire il materiale una prima volta nel suddetto locale-deposito e una seconda volta in via Montecuccoli. Le immagini tratte dal nastro registrato con l’impianto di video-sorveglianza, installato presso il magazzino della “Easy box”, hanno consentito di accertare che le operazioni relative al secondo trasferimento erano state materialmente effettuate dal Mezzasalma, con l’aiuto della Blefari Melazzi. Il diretto coinvolgimento del Mezzasalma in entrambe le operazioni di “smobilizzo” ha trovato puntuale riscontro nei documenti tratti dal materiale informatico sequestrato. In particolare, i “files” “bilan smob prosp” e “bilan prosp M”, estrapolati dal computer della Blefari Melazzi, contengono un bilancio della “manovra di ripiegamento” dell’organizzazione, effettuata in due fasi (il 31 maggio e il 1° giugno 2003) da via Maia alla circonvallazione Tiburtina. Da tali documenti emerge che a questo “smobilizzo” hanno partecipato quattro militanti, indicati con i nomi operativi di Ugo, Maria, Andrea e Aldo: i primi due hanno fatto parte della c.d. “squadra operativa offensiva” e sono stati identificati nel Mezzasalma e nella Blefari Melazzi; gli altri due hanno svolto il

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ruolo di “staffette” e sono stati identificati nel Boccaccini e nel Morandi (provenienti entrambi da Firenze). Alle operazioni avrebbe dovuto prendere parte anche il Broccatelli, indicato con il nome operativo Beppe; si era dovuto però rinunciare al suo apporto, per motivi di sicurezza (dopo il suo “congelamento”, deciso per il fatto che era sottoposto a pedinamenti e controlli di polizia); e si erano dovute impiegare due sole “staffette”, anche in considerazione della esiguità delle forze disponibili. L’abbinamento del nome operativo Ugo con il Mezzasalma è assolutamente certo (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 31 ss.), poiché nei suddetti documenti si legge che il militante Ugo doveva affittare il magazzino e noleggiare il furgone (circostanze ampiamente riscontrate dal rinvenimento della fattura della “Easy box” e dell’assegno emesso a favore del titolare della società di noleggio, di cui si è detto) e, durante l’operazione, doveva indossare un cappello rosso con la scritta “Best Champion 65” (e un cappello con queste caratteristiche è stato poi rinvenuto in casa dell’imputato). Nel “covo” di via Montecuccoli sono stati trovati cinque cellulari, sui quali erano applicate delle targhette con i nominativi di Aldo, Maria e Andrea. Dai relativi tabulati è emerso che queste cinque utenze sono state usate solo nei giorni del primo trasloco (31 maggio e 1° giugno 2003), impegnando sempre le zone limitrofe a via Maia: è evidente, quindi, che sono state utilizzate (in modo “dedicato” all’organizzazione) dai militanti impegnati nello “smobilizzo”, per comunicazioni riguardanti gli sviluppi dell’operazione. Presso l’abitazione del Mezzasalma (teste Marotta, ud. 27.4.05, p. 174 ss.) è stato rinvenuto un documento, riguardante la dinamica del secondo trasloco (dal magazzino della “Easy box” alla cantina di via Montecuccoli), nel quale i partecipanti all’operazione sono indicati (anziché con i nomi operativi menzionati con riferimento al primo “smobilizzo”) con le sigle di battaglia “L”, “M” ed “S”. Le prime due sigle sono state usate per indicare i militanti incaricati di noleggiare un furgone, di recuperare il materiale e di portarlo dal magazzino alla cantina: corrispondono, pertanto, senza alcun dubbio, rispettivamente, al Mezzasalma ed alla Blefari Melazzi, dato che gli stessi sono facilmente riconoscibili nelle immagini registrate con l’impianto di video-sorveglianza. L’abbinamento della sigla “L” al Mezzasalma trova conferma in un altro documento, denominato “contab.1.doc” e tratto dall’archivio informatico del Morandi, laddove sono state annotate alcune spese sostenute da componenti dell’organizzazione. Tra queste spese vi è quella indicata come “affitto base pagato dal militante L”: le indagini della Digos hanno consentito di appurare che una somma esattamente corrispondente a quella annotata veniva sborsata dal Mezzasalma al proprietario dell’appartamento di via Maia.

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Le sigle “L” ed “M” sono usate, con riferimento agli stessi imputati, anche nel documento “Sicur-L”, databile 10 agosto 2003, che tratta i problemi di sicurezza riguardanti un militante, dopo che era stata arrestata la Lioce ed erano state sequestrate le chiavi dell’appartamento di via Maia. In tale documento si accenna alla questione del cambio delle serrature e si indicano le contromisure da adottare per ridurre i rischi di cattura di altri militanti: è logico ritenere che si trattasse del Mezzasalma, che era l’intestatario del contratto di locazione di quell’appartamento ed era quindi il più esposto (tanto da far ritenere prevedibile ed imminente il suo passaggio alla clandestinità). Si è anche accertato che all’imputato venivano assegnate talvolta anche le sigle “LU” o “LU2”, per distinguerlo dal Morandi, indicato con la sigla “LU1” (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 182 s.). Infatti, egli è stato trovato in possesso di diverse S.T.P. riportanti l’annotazione “LU”, che serviva evidentemente per distinguere le schede “dedicate” all’organizzazione da quelle riservate all’uso privato e personale. In un borsone contenente documentazione relativa all’appartamento di via Maia è stato poi rinvenuto un foglietto con la sigla “LU” annotata a fianco del numero del cellulare che egli aveva con sé al momento dell’arresto. Tra le S.T.P. che hanno avuto contatti con cellulari “di organizzazione”, ve ne è una che è stata attribuita con certezza al Mezzasalma, sulla base del criterio del collegamento con le persone contattate e dell’ubicazione delle cabine pubbliche utilizzate (tutte in prossimità della sua abitazione o del suo posto di lavoro). Questa scheda risulta aver chiamato il cellulare “958” alle 12,53 del 20 maggio 1999 e cioè poche ore dopo l’esecuzione dell’omicidio del prof. D’Antona. Sono state, inoltre, individuate numerosissime S.T.P., che sono attribuibili con certezza all’imputato e che risultano aver contattato il numero del telefono fisso dell’appartamento di via Maia; e ciò ad ulteriore conferma degli stretti rapporti che lo legavano ai componenti della sede centrale (con i quali egli, a differenza degli altri militanti, poteva comunicare direttamente chiamando il numero suddetto). Presso la sua abitazione è stato sequestrato il contratto per un teledrin (mezzo di comunicazione usato dai militanti) nonché materiale informatico con sistemi di criptazione uguali a quelli installati nei computer di altri imputati (teste Provenza, ud. 6.6.05, p. 80 s.). Nel “covo” di via Montecuccoli è stato rinvenuto un computer portatile che verosimilmente egli aveva acquistato da tale Ferdinando Bertini nel maggio del 2000, a seguito di una inserzione su “Porta Portese” (una S.T.P. a lui attribuita risulta, infatti, aver contattato lo stesso Bertini, i cui indirizzi di posta

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elettronica erano rilevabili dal p.c.). Tale computer risulta essere stato utilizzato per la rivendicazione dell’omicidio del prof Biagi. Impronte digitali appartenenti all’imputato sono state rilevate sullo schermo del suddetto computer, su un montante e su vari documenti (teste Iacuitto, ud. 14.4.05, p. 78 ss.). Nella stessa cantina vi erano anche documenti scritti a mano con la sua grafia (teste Gismondi, ud. 14.4.05, p. 140). Tutti questi elementi valgono a dimostrare con la massima certezza che il Mezzasalma faceva parte dell’associazione eversiva e che ricopriva al suo interno un incarico di grande rilevanza (quello di responsabile logistico), che gli consentiva di stare a contatto con i componenti della “sede centrale”, di frequentare i “covi” e di essere a conoscenza di tutto ciò che doveva essere coperto dalla massima segretezza. La sua posizione di vertice fa ritenere sussistenti le ipotesi previste dal comma 1 degli artt. 270-bis e 306 c.p.

6. Roberto Morandi.

Nei riguardi di Roberto Morandi assumono notevole importanza le dichiarazioni accusatorie rese da Cinzia Banelli, la quale ha dettagliatamente riferito in merito al ruolo di vertice che egli rivestiva all’interno dell’associazione ed al suo coinvolgimento negli omicidi D’Antona e Biagi, negli attentati alla C.I.S.L. di Milano e all’agenzia di lavoro interinale “Obiettivo Lavoro” di Firenze e nelle rapine agli uffici postali di Mezzana, Siena e Firenze. La Banelli (ud. 2.10.04, p.29 s.) ha riferito che, come referente del gruppo pisano (denominato “loc. B”), frequentava spesso il Morandi, che era il referente del gruppo fiorentino (denominato “loc. A”); entrambi facevano parte del “coordinamento centralizzato” della Toscana (denominato “C loc.”), il cui responsabile era Mario Galesi (che in tale ruolo aveva sostituito nel 1999 la Lioce). La Banelli (ud. 2.10.04, p. 25 ss. e p. 46; ud. 9.5.05, p. 269 s.) ha anche affermato che il Morandi aveva il nome di battaglia Luca e la sigla “LU-loc. A” e, nei documenti relativi alle singole azioni, veniva per lo più indicato con il nome operativo di Aldo. A partire dal gennaio del 2003, a seguito della crisi politica determinata da alcune divergenze sorte tra la Lioce e il Galesi, era entrato a far parte della “sede centrale allargata”. Tali circostanze (ad ulteriore conferma della piena attendibilità della dichiarante) hanno trovato puntuale riscontro in altre risultanze probatorie e, in particolare, nei documenti tratti dal materiale informatico, sequestrato presso

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l’abitazione dell’imputato, che è stato “decriptato” utilizzando la “pass-word” indicata dalla stessa Banelli. I numerosi “files” estrapolati da questo archivio, riportando nel dettaglio varie attività operative dell’associazione, hanno consentito di accertare specifiche responsabilità. I vari “files” decriptati contengono, ad esempio, un documento che descrive la dinamica operativa dell’omicidio D’Antona, un documento di pianificazione dell’omicidio Biagi e un documento contente l’inchiesta per l’attentato alla C.I.S.L. di Milano. Nel corso della perquisizione eseguita presso la sua abitazione di Firenze, oltre al prezioso materiale informatico (comprendente anche “files” non criptati riguardanti l’omicidio Biagi), è stata materialmente rinvenuta una scheda telefonica prepagata, attribuibile con certezza all’imputato (in ragione dei contatti con persone a lui collegate e della ubicazione delle cabine telefoniche utilizzate). Dai relativi tabulati risulta che questa S.T.P. alle ore 6,02 del 14 e del 18 maggio 1999 ha chiamato l’utenza “di organizzazione” 338-4558955 da cabine telefoniche pubbliche situate in via Castro Pretorio e in via Monzambano, nei pressi della Stazione Termini: tale circostanza dà riscontro a quanto riferito dalla Banelli, secondo cui il Morandi in quelle due occasioni era appositamente venuto da Firenze a Roma, per svolgere il ruolo che gli era stato assegnato nell’ambito dell’omicidio D’Antona. Si è poi accertato che, sia la mattina del 14 che quella del 18 maggio 1999, l’imputato era assente dal suo posto di lavoro presso l’Ospedale Careggi di Firenze, ove prestava servizio come tecnico di radiologia. I due contatti telefonici con il cellulare “955”, al di là della sua estrema rilevanza ai fini della sussistenza di un concorso nell’omicidio, valgono comunque a dimostrare la sicura militanza del Morandi, tenuto conto delle argomentazioni già esposte in ordine alle caratteristiche dei telefoni “di organizzazione” e della loro esclusiva utilizzazione per le attività svolte dall’associazione eversiva. Dai documenti, denominati “bilan smob prosp” e “bilan prosp M” (contenenti un bilancio della “manovra di ripiegamento” dell’organizzazione, effettuata il 31 maggio e il 1° giugno 2003 dal locale della “Easy box” alla cantina di via Montecuccoli) risulta che alle operazioni del primo “smobilizzo” ha partecipato anche il Morandi, indicato con il nome operativo di Aldo. Questo nominativo risulta anche annotato sulla targhetta adesiva applicata su uno dei cinque cellulari che sono stati rinvenuti nel “covo” di via Montecuccoli: questi telefoni sono stati sicuramente utilizzati dai militanti che hanno partecipato al suddetto trasloco, poiché dai relativi tabulati risulta che hanno

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avuto un traffico “dedicato”, avendo funzionato soltanto il 31 maggio e il 1° giugno 2003. L’abbinamento del nome operativo Aldo all’imputato, come si è già detto, è stato confermato anche da Cinzia Banelli. L’appartenenza del Morandi all’associazione può essere desunta anche dalle dichiarazioni del teste Stefano Benelli (ud. 26.5.05, p. 157 ss.), il quale ha riferito che l’imputato tentò una sorta di “reclutamento”, facendogli vari discorsi sulla “lotta armata” e sulle Brigate Rosse, suggerendogli la lettura di vari libri e fornendogli un “file” criptato contenente la rivendicazione dell’omicidio D’Antona. Deve rilevarsi, infine, che lo stesso imputato, nell’interrogatorio davanti al G.i.p. del Tribunale di Firenze, si è dichiarato prigioniero politico e militante delle B.R.-P.C.C. e, in sede di dichiarazioni spontanee in dibattimento, ha ribadito la sua militanza ed ha aderito al documento prodotto dalla Lioce. Questi univoci elementi probatori sono sicuramente sufficienti per affermare la responsabilità di Roberto Morandi, in ordine ai reati associativi contestati. Sussiste indubbiamente l’ipotesi prevista dal comma 1 dell’art. 270-bis e dal comma 3 dell’art. 306 c.p., essendosi accertato che, quanto meno a partire all’inizio del 2003, l’imputato è entrato a far parte della “sede centrale” ed ha svolto quindi un ruolo dirigenziale nell’ambito del sodalizio. 7. Alessandro Costa.

Ritiene la Corte che gli elementi probatori acquisiti non siano sufficienti per affermare la penale responsabilità di Alessandro Costa, in ordine ai reati associativi contestati. Da parte degli organi inquirenti, è stato dato risalto al fatto che l’imputato aveva avuto stretti rapporti con personaggi coinvolti in questo o in altri analoghi procedimenti, in quanto fin dagli anni ’80 aveva frequentato a Roma il centro sociale “Blitz” di via Ruini, insieme a Mario Galesi, Jerome Cruciani, Paolo Broccatelli, Federica Saraceni e Laura Proietti (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 34 s.). Da questi rapporti, peraltro, non può automaticamente desumersi che il Costa abbia tenuto comportamenti eguali a quelli delle persone che frequentava. Il fatto che egli si sia formato ed abbia vissuto nello stesso ambiente consente di ipotizzare una affinità di posizioni ideologiche, ma non anche una comune partecipazione ad attività criminose. Ai fini della sussistenza dei reati associativi contestati, infatti, non è sufficiente la condivisione di idee estremiste, anche di natura eversiva, ma è necessario che vi sia stato un diretto coinvolgimento nella esecuzione o quanto meno nella preparazione di concreti ed attuali progetti di atti di violenza,

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finalizzati a sovvertire l’ordinamento dello Stato ed a stravolgerne l’assetto democratico. In sede di esame dibattimentale (ud. 7.6.05, p. 18 ss.), il Costa ha dichiarato che, a partire dall’età di 16 anni, aveva frequentato il “Blitz” di “Colli Aniene”, che aveva sede in un asilo abbandonato, occupato dai ragazzi del quartiere: aveva avuto così modo di conoscere e frequentare Mario Galesi e Jerome Cruciani, partecipando alla ristrutturazione di quello stabile ed alle iniziative socio-culturali che venivano organizzate al suo interno. Dal 1989 in poi si era però dedicato alla “lotta per la casa” ed aveva frequentato solo saltuariamente quel centro sociale; intorno al 1995 aveva perso completamente le tracce del Galesi. Nello stesso centro, intorno al 1986, aveva conosciuto Federica Saraceni, con la quale era in rapporto di amicizia (per un certo periodo, prima del 1997, aveva avuto con lei una relazione sentimentale); nel 1999 era andato ad abitare in uno stabile occupato in via Ostuni, dove c’era anche Daniele Bernardini, il compagno della Saraceni, e così aveva avuto modo di frequentare entrambi più spesso. Presso il “Blitz” aveva conosciuto anche Laura Proietti e nel 1999 l’aveva sentita e vista più volte, in quanto era la ragazza di Manuel Pietrangeli, che lavorava con lui in un’impresa edile. Infine, aveva conosciuto, di vista, anche Paolo Broccatelli, che abitava nel suo stesso quartiere. In sostanza, l’imputato ha ammesso le sue frequentazioni con personaggi sicuramente coinvolti in attività delittuose, ma ha respinto decisamente l’addebito di partecipazione ad un’associazione eversiva. Tali dichiarazioni non possono essere considerate di per se stesse inattendibili, non avendo trovato valide smentite in altre risultanze del processo. La pubblica accusa ha poi evidenziato che, dall’esame del traffico delle S.T.P. entrate in contatto con telefoni “di organizzazione”, è emerso che il Costa, nei giorni prossimi all’omicidio del prof. D’Antona, è stato ripetutamente chiamato da schede attribuite con certezza a Laura Proietti; e alcune di queste telefonate sono state fatte in sequenza rispetto ad altre chiamate indirizzate a telefoni appartenenti all’organizzazione. In particolare, l’imputato ha ricevuto sul suo telefono personale le seguenti chiamate: alle 20,18 del 6 maggio 1999 da una cabina di via Bardanzellu; alle 11,39 del 13 maggio da via dell’Acqua Bullicante (alle 11,41 la stessa scheda ha contattato l’utenza “233”); alle 11,01 del 14 maggio dalla stessa strada (alle 11,02 la stessa scheda ha contattato il “233”); alle 17,08 del 15 maggio da via Bardanzellu; alle 16,17 del 16 maggio dalla stessa strada; alle 16,09 del 18 maggio da via dell’Acqua Bullicante (alle 10,34 la stessa scheda aveva chiamato il “233” dalla via Prenestina); alle 12,01 del 19 maggio da via dell’Acqua Bullicante (alle 12,02 la stessa scheda ha contattato il “233”); alle 16,08 del 19 maggio da via Prenestina; alle 16,32 del 30 maggio da via Telese.

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Secondo l’accusa, questi contatti telefonici sarebbero stati determinati da esigenze dell’organizzazione, dato che sono stati effettuati in giorni di grande importanza per l’azione omicidiaria, essendosi accertato che la stessa era stata prevista e programmata per date precedenti al 20 maggio ed era stata più volte rinviata. Questa tesi non può essere condivisa, in quanto non ha trovato sufficiente conferma in altri elementi probatori. In primo luogo, sembra contraddittorio sostenere un coinvolgimento del Costa nell’omicidio, dal momento che nessuna specifica imputazione è stata elevata a suo carico in ordine a questo delitto. Deve poi osservarsi che, secondo quanto è emerso dalle deposizioni dei funzionari della Digos che si sono occupati delle indagini, tra le regole che i militanti dovevano osservare vi era quella di non utilizzare, per le esigenze dell’organizzazione, telefoni privati e personali, ma di servirsi soltanto di S.T.P. e di telefoni “dedicati” all’uso esclusivo del sodalizio. Le comunicazioni, che si rendevano necessarie nel corso delle operazioni di preparazione o di esecuzione delle singole iniziative, quindi, dovevano essere effettuate tra S.T.P. e telefoni “di organizzazione”. Nel caso di specie, invece, i contatti tra la Proietti e il Costa sono avvenuti tra schede prepagate e il telefono personale dell’imputato e non può, quindi, con certezza affermarsi che siano serviti per comunicare notizie attinenti all’attività criminosa dell’associazione, tenuto conto che tra i due vi era comunque un rapporto di amicizia e di frequentazione. D’altra parte, le suddette telefonate sono state tutte effettuate da cabine pubbliche assai distanti dalla zona in cui è stato commesso l’omicidio e in orari diversi da quello dell’esecuzione di tale delitto. Deve poi aggiungersi che dai tabulati risulta che, durante lo stesso periodo, nel corso del mese di maggio del 1999, la Proietti ha utilizzato le S.T.P. che le sono state attribuite, telefonando anche ad altre persone (come, ad esempio, Manuel Pietrangeli) che facevano parte dello stesso giro di amicizie, ma che non sono state solo per questo incriminate. Da ultimo, deve rilevarsi che la stessa Proietti, in sede di dichiarazioni spontanee in udienza preliminare, dopo aver ammesso la propria responsabilità in ordine ai reati che le sono stati contestati, ha escluso che le telefonate fatte al Costa riguardassero in qualche modo l’attività delle Brigate Rosse. Secondo l’accusa, inoltre, il Costa avrebbe svolto una funzione di collegamento tra i N.A.C. e le B.R.-P.C.C.. Tale assunto è stato sostenuto sul presupposto che egli fosse legato da rapporti di amicizia con Raoul Terrilli (condannato in primo grado per aver fatto parte dell’associazione denominata N.A.C.) ed avesse allo stesso affittato un appartamento sito in via Zanardi n. 2 (di proprietà dei genitori del Costa), al

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cui interno era stato rinvenuto un computer (appartenente allo stesso Terilli), dal quale era stato tratto un documento contenente una sorta di plauso all’azione delle Brigate Rosse per la vicenda D’Antona e all’azione dei N.I.P.R. per l’attentato di via Brunetti a Roma (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 107 ss.). Inoltre, si è sottolineato che da un computer palmare, trovato in possesso della Lioce al momento dell’arresto, è stato tratto un documento, dal quale si evince che le B.R. seguivano con interesse il processo di primo grado pendente a carico del Terilli: in un passo di tale documento si legge, infatti, la frase <<…notizie su esito processo N.A.C.>>. E, a conferma di questo interessamento, si è richiamato un altro documento, tratto dal materiale informatico sequestrato in via Montecuccoli, dove vi sono dei commenti sul fatto che uno degli imputati (identificabile nel Terilli) era stato arrestato con molto ritardo rispetto ai coimputati. Si è poi fatto rilevare che una S.T.P., entrata in contatto con telefoni “di organizzazione” ma non attribuita ad alcuno (in assenza di traffico “promiscuo”), risulta aver effettuato a vuoto, il 28 aprile 1999, diverse chiamate ad organi di stampa: poiché proprio quel giorno è stato compiuto un attentato alla sede dei D.S. di “La Rustica” (rivendicato dai N.A.C. con telefonate all’A.N.S.A. e a “Il Tempo”), si è ritenuto che le chiamate fatte con quella S.T.P. fossero tentativi di analoga rivendicazione effettuati da una persona che militava sia nelle B.R. che nei N.A.C. L’ipotesi accusatoria non può essere ritenuta fondata, perché non ha avuto alcun concreto riscontro probatorio ed anche perché è stata basata su circostanze risultate inesatte. La Banelli (ud. 2.10.04, p. 80 s.) ha precisato che i N.A.C. erano un gruppo nato spontaneamente e separatamente, che agiva in piena autonomia rispetto alle Brigate Rosse. Pur riconoscendo che le B.R. avevano mostrato interesse alle iniziative rivendicate da questo gruppo ed avevano anche tentato di costruire un contatto, la Banelli non ha fornito alcun elemento a carico del Costa e non è stata in grado di confermare che vi fosse una persona con l’incarico di fungere da collegamento tra le due organizzazioni. L’imputato, dal suo canto, ha ammesso di conoscere bene il Terilli (perché lo stesso era amico di suo fratello e di Manuel Pietrangeli e, come lui, abitava nello stabile occupato di via Ostuni), ma ha escluso di avergli affittato l’appartamento di via Zanardi (situato in un seminterrato dotato di accesso autonomo rispetto alla sovrastante abitazione dei genitori): il Terilli aveva trattato direttamente con sua madre ed egli non si era occupato affatto della locazione di quell’appartamento, del quale non disponeva neppure delle chiavi. Tali circostanze sono state puntualmente confermate dai testi Alessandra Dominici (ud. 8.6.05, p. 18 ss.), Maria Pia Tomei (ud. 8.6.05, p. 27 ss.) e

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Lorenzo Derme (ud. 8.6.05, p. 30 ss.), oltre che dallo stesso Terilli (ud. 8.6.05, p. 36 ss.). Deve poi osservarsi che, nel procedimento relativo agli attentati incendiari rivendicati dai N.A.C. (svoltosi in primo grado davanti a questa Corte), il Costa non ha mai assunto la qualità di imputato e lo stesso Terilli, con sentenza della Corte di appello di Roma (in riforma della sentenza di primo grado che aveva ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 270-bis c.p.) è stato ritenuto responsabile soltanto di propaganda sovversiva ai sensi dell’art. 272 c.p. E’ venuto così meno il presupposto dell’ipotesi secondo cui il Costa, in quanto legato al Terilli e ai N.A.C. e contemporaneamente militante delle B.R., sarebbe stato l’elemento di congiunzione tra i due gruppi eversivi: nel processo sui N.A.C. è stata addirittura esclusa l’esistenza di una struttura organizzata qualificabile come associazione eversiva o come banda armata e comunque non c’è stata alcuna implicazione del Costa; e nel presente processo, riguardante le B.R., non risulta con sicurezza dimostrata la partecipazione dell’imputato. Come elemento a carico del Costa è stata indicata anche la circostanza del rinvenimento di un’agenda-diario, appartenente a Chiara Crespi, una ragazza che aveva avuto una relazione sentimentale con Mario Galesi e che aveva frequentato lo stesso gruppo di amici del Costa e della Saraceni. In questo diario c’è un passo in cui la Crespi, parlando di una giornata trascorsa in compagnia degli amici in una villa di S.Felice Circeo, di proprietà dei genitori di Federica Saraceni, rivolge il suo pensiero a Mario Galesi, del quale non aveva avuto più notizie da quando si era dato alla latitanza, e dice testualmente: <<…penso a Mario, il mio uomo, che non c’è e nella giornata non riesco a trattenere la fatidica domanda: tu lo sai dove sta? E nell’esatto istante in cui l’ho chiesto ho capito che avevo sbagliato. Mi manchi. Mi hai detto che non passeranno dieci anni. Mi resta un nodo in gola e ora che c’è Gibbone mi verrebbe da chiedere tue notizie, ho così bisogno di vedere te…>>. Secondo gli inquirenti, la Crespi ha pensato di chiedere proprio al Costa (conosciuto dagli amici con l’appellativo di “Gibbone”) notizie del latitante Galesi, perché riteneva che tra i due vi fosse uno stretto legame, dovuto alla comune militanza nell’associazione eversiva. Si tratta, peraltro, di una presunzione fondata su una congettura della Crespi e non su dati concreti. Dalla lettura del passo, del resto, si desume soltanto che la Crespi aveva già rivolto “la fatidica domanda” ad un’altra persona e che aveva intenzione di interpellare anche il Costa; non è detto però che poi l’abbia fatto realmente e soprattutto non può affermarsi che abbia avuto quell’intenzione pensando ad una comune appartenenza alle B.R. e non semplicemente ad un rapporto di amicizia.

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Un altro elemento indicato dall’accusa a carico del Costa (ed ancor più a carico di Federica Saraceni) è costituito dal contenuto di due telefonate intercettate. Nella prima telefonata, fatta alle ore 13,08 del 18 dicembre 2003 (mentre i due imputati erano in carcere) da Daniele Bernardini (compagno della Saraceni) a Monica D’Aversa (compagna del Costa), il primo chiedeva che fine avessero fatto i motorini che stavano nel box dello stabile di via Ostuni e se per caso fossero stati presi da qualcuno; e la seconda rispondeva rassicurando l’amico e dicendo che erano stati dati ad “uno che carica il ferro” perché li buttasse via. Nella seconda telefonata, fatta alle 22,44 dello stesso giorno dall’avv. Luigi Saraceni (padre dell’imputata) a Daniele Bernardini, il primo diceva di aver appreso dalla moglie che il motorino era stato eliminato e mostrava preoccupazione per il fatto che, essendo rimasto a lungo in quel garage, qualcuno potesse esserci andato in giro e potesse aver fatto “qualche casino”; il secondo rispondeva che aveva usato personalmente il motorino e che, avendo avuto un incidente, lo aveva lasciato nel garage, sperando di rimetterlo a posto un giorno o l’altro: erano trascorsi, invece, due anni e il motorino era rimasto fermo, sino a quando era stato portato via per essere demolito. Secondo gli inquirenti, l’interesse e la preoccupazione mostrati dal Bernardini e dal padre della Saraceni erano giustificati dal timore che quel motorino potesse essere stato utilizzato in azioni eversive e che le indagini portassero all’identificazione dei possessori con conseguente aggravamento della posizione degli indagati. Anche questo assunto appare fondato, anziché su concreti elementi, su deduzioni logiche opinabili e su interpretazioni non aderenti al contenuto testuale delle due conversazioni intercettate. Il fatto comunque può riguardare il Costa solo in modo molto indiretto, poiché non risulta che egli abbia mai avuto a che fare con quel motorino.. In sede di esame (ud. 7.6.05, p. 180 ss.), la Saraceni ha dichiarato che, mentre era detenuta, aveva detto al padre (che era anche suo difensore e poteva quindi accedere più frequentemente al carcere per i colloqui) di parlare con il Bernardini, perché mettesse una catena al motorino a lei intestato, rimasto nel garage di via Ostuni (che era in comune con gli altri numerosi occupanti dello stabile); ciò perché temeva che qualcuno potesse prendere quel motorino ed andarci in giro, malgrado fosse ormai “un ferro vecchio”. Suo padre aveva poi effettivamente parlato con il Bernardini, che in quel periodo, dovendo occuparsi della loro bambina, stava prevalentemente a casa con i genitori; il Bernardini aveva a sua volta interpellato Monica D’Aversa, dato che la stessa abitava ancora in via Ostuni. La versione fornita dall’imputata ha trovato conferma nella deposizione della teste D’Aversa (ud. 23.5.05, p. 47 ss.) e risulta comunque credibile.

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Secondo il pubblico ministero, è assurdo che la Saraceni, in carcere con gravissime imputazioni, si preoccupasse del fatto che potessero esserle rivolte accuse di ricettazione o di incauto acquisto ove quel motorino fosse stato preso da qualcuno. In realtà, dalla lettura della trascrizione delle due telefonate intercettate e dalle spiegazioni fornite dalla Saraceni, emerge che il timore era quello che qualcuno, andando in giro con quel motorino, potesse causare danni a terzi (con conseguente responsabilità civile per l’intestataria) o, più ancora, potesse impiegare il veicolo per compiere azioni illecite (con possibili coinvolgimenti di carattere penale per la stessa intestataria); e questa seconda ipotesi non era tanto peregrina, tenuto conto che quel garage era comune agli abitanti dello stabile di via Ostuni e che l’ambiente degli occupanti era verosimilmente alquanto “eterogeneo”. A carico del Costa è stata indicata anche una circostanza emersa dall’esame del traffico telefonico di un cellulare sequestrato nel gennaio del 1997 a Mario Galesi e Jerome Cruciani, in occasione del loro arresto a seguito della rapina all’ufficio postale di via Radicofani a Roma. Quel cellulare, infatti, aveva avuto contatti con un’utenza intestata a certa Romina D’Andrea, la cui patente di guida era stata rinvenuta nel “covo” di via Montecuccoli; l’utenza della D’Andrea aveva avuto contatti con altro telefono, privo di intestatario, che a sua volta era stato chiamato in due occasioni (il 15 ottobre 1996 e il 13 novembre 1996) dal cellulare di tale Luigi Francella. Quest’ultimo aveva negato di aver fatto quelle due telefonate ed aveva fatto presente che, quando era al lavoro nei cantieri edili (in compagnia del Costa), era solito lasciare il cellulare vicino alla cassetta dei ferri, sicché era possibile che l’apparecchio fosse stato usato da qualche altro. Secondo l’accusa, l’utilizzatore di questo cellulare sarebbe stato il Costa, dato che il Francella aveva precisato che qualche volta lo aveva prestato al suo compagno di lavoro (testi Macilenti e Francella, ud. 12.5.05, p. 55 ss. e p. 64 ss.) . A questo fatto non può essere attribuito un valore probatorio, poiché il Francella non è stato in grado di fornire indicazioni precise o di rivolgere accuse concrete nei confronti del Costa. Non può ritenersi, quindi, dimostrato che sia stato l’imputato ad effettuare quelle due chiamate. In ogni caso, il collegamento con Galesi e Cruciani e con la rapina dagli stessi commessa risulterebbe troppo indiretto, considerando che tra il cellulare del Francella e quello dei rapinatori c’erano di mezzo altri due telefoni e che le chiamate sono state effettuate l’una tre mesi e l’altra due mesi prima della rapina. Infine, gli inquirenti hanno riferito che, nel febbraio e nel marzo 2002, il Costa aveva fatto due telefonate (entrambe intercettate) al numero di un appartamento abitato dal brigatista Fausto Marini, dalla sua compagna Irina Verga e dai figli di quest’ultima, Roberto e Massimiliano Garau.

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L’imputato è stato in grado di fornire attendibili spiegazioni, affermando che non aveva mai conosciuto il Marini e che verosimilmente aveva avuto contatti telefonici con Massimiliano Garau, che era suo amico ed era stato anche suo compagno di lavoro. Il Maggiore dei Carabinieri Massimiliano Macilenti ha confermato che le due telefonate intercettate erano avvenute tra il Costa ed uno dei figli della compagna del Marini e che in entrambe le conversazioni i due si erano limitati a fissare un appuntamento tra loro. Una valutazione complessiva delle suddette risultanze processuali non consente di ritenere provata con certezza la responsabilità dell’imputato ed impone la sua assoluzione ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p.

8. Federica Saraceni.

Anche per Federica Saraceni, come per Alessandro Costa, gli inquirenti hanno posto in evidenza i suoi rapporti con persone per le quali si è con certezza dimostrata l’appartenenza ad associazioni eversive. A partire dal 1986 ha frequentato assiduamente il centro sociale “Blitz” di via Ruini a Roma, dove ha avuto modo di incontrare e di allacciare amicizia con Mario Galesi e più tardi anche con Laura Proietti. Lo stretto legame che la univa al Galesi ha trovato conferma in una significativa circostanza: il 13 marzo 2003, pochi giorni dopo il tragico episodio del treno Roma-Firenze, è pervenuta alla redazione romana del quotidiano “Il Messaggero” una lettera del seguente tenore:<<A Galesi Mario militante delle Brigate Rosse, non è vero che ti abbiamo lasciato solo, anche se non siamo venuti a prenderti, non è vero che eri solo, in tanti ti vogliamo bene e quante lacrime abbiamo versato e non eri solo nemmeno nella tua scelta che in tanti abbiamo ritenuto coraggiosa e coerente, hai dato la vita per sconfiggere l’ingiustizia di questo mondo, grazie dolce Mario e onore a te. Marina>>. Le indagini svolte dalla Polizia Scientifica hanno consentito di accertare che la lettera era stata spedita dalla Saraceni, poiché è stata riscontrata la corrispondenza tra il suo DNA e una traccia di materiale biologico trovata su un lembo della busta (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 143 s.). La stessa imputata, in sede di esame dibattimentale (ud. 7.6.05, p. 126 ss.), ha ammesso di aver scritto ed inviato quella lettera, affermando di essere stata spinta non da una motivazione politica, ma soltanto dalla rabbia e dal dolore provati nel constatare che i giornali, quasi con soddisfazione, avevano riferito che nessun parente o amico si era interessato per far seppellire il corpo del Galesi; ha anche sostenuto che il fatto che il Galesi fosse morto per una sua scelta, era un segno di coerenza e di coraggio.

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Il contenuto della lettera non autorizza a ritenere che l’imputata condividesse in pieno quella scelta di vita e quelle idee. E’ certo però che, da parte sua, non vi è stata alcuna presa di distanza da un uomo che si era già reso responsabile, come esecutore materiale, dell’uccisione “a sangue freddo” di Massimo D’Antona, di Marco Biagi e di Emanuele Petri e che aveva agito con la utopistica convinzione di poter attuare progetti rivoluzionari e con la presunzione di essere un “rappresentante del proletariato”, benché nessuno gli avesse mai conferito alcun mandato. Nel corso di una perquisizione, eseguita il 24 ottobre 2003 presso l’abitazione dell’imputata, è stata poi trovata una foto del Galesi, ritagliata da un giornale ed incorniciata (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 143 e ud. 11.4.05, p. 6). Questa circostanza non può avere un eccessivo rilievo, ma serve comunque a meglio comprendere la posizione ideologica dell’imputata. Pur essendo trascorsi diversi anni dall’inizio della sua esperienza “politica” e malgrado avesse avuto la possibilità di riflettere sulla inutilità e assurdità di quelle azioni violente e di acquisire la maturità sufficiente per rendersi conto dell’assoluta mancanza di un consenso popolare, la Saraceni, anziché manifestare chiaramente la sua disapprovazione per le scelte del Galesi e per i metodi dallo stesso seguiti, ha continuato nella esaltazione di quel personaggio, sentendo il bisogno di tenere sempre viva e vicina la sua immagine, come fosse un eroe. Un tale atteggiamento non può essere giustificato dalla solidità del vincolo amicale che la legava al Galesi. Come si è già detto, per essere considerati responsabili dei reati previsti dagli artt. 270-bis e 306 c.p., non basta professare idee estremiste, anche di natura eversiva, ma è necessario aver partecipato alla esecuzione o quanto meno alla preparazione di concreti ed attuali progetti di atti di violenza, finalizzati al sovvertimento dell’ordinamento statale ed allo stravolgimento dell’assetto democratico. Il diretto coinvolgimento della Saraceni nelle iniziative poste in essere dall’associazione, denominata prima N.C.C. e poi B.R.-P.C.C., è comunque ampiamente dimostrata da altre risultanze probatorie. In primo luogo, si è accertato che, alle17,31 e alle 17,36 del 7 luglio 1999, da una cabina ubicata a Roma in corso Trieste, la S.T.P. avente il numero di serie Telecom 01.61.061.61566 ha chiamato l’utenza “di organizzazione” 338/4658958. Questa scheda è stata attribuita con certezza alla Saraceni, poiché ha avuto un uso “promiscuo” ed è stata utilizzata, prima e dopo il 7 luglio 1999, per contattare persone a lei riferibili. In particolare, dall’analisi del traffico telefonico risulta che con detta S.T.P. sono state effettuate: sette chiamate ad un’utenza intestata a Cristiano Pintaldi, presso il quale lavorava Daniele Bernardini, legato sentimentalmente

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all’imputata; tre chiamate a Luigi Saraceni, padre dell’imputata; una chiamata a Silvio Saraceni, fratello dell’imputata; e una chiamata alla società SAF di Stefano Misiani, amico dell’imputata e figlio del suo difensore di fiducia. I due contatti telefonici con il “958” costituiscono un elemento molto rilevante, ai fini della prova della partecipazione della Saraceni all’associazione. Come si è visto, infatti, il cellulare con le tre cifre finali 958, al pari di quelli con le cifre finali 955 e 039, veniva usato esclusivamente per esigenze dell’organizzazione, connesse alla preparazione o alla esecuzione di azioni eversive. Coloro che, utilizzando schede telefoniche prepagate, contattavano quei cellulari non potevano non essere a conoscenza delle loro caratteristiche e della loro destinazione “dedicata” e dovevano, quindi, necessariamente essere militanti della stessa organizzazione (significativa, come si è già detto, è l’espressione usata al riguardo dal teste Gabrielli: <<chi tocca i fili muore>>). In sede di esame (ud. 7.6.05, p. 160 s.), l’imputata si è limitata a negare di aver mai effettuato chiamate a cellulari “di organizzazione”, ma non è stata in grado di fornire plausibili spiegazioni e di chiarire chi potesse aver utilizzato in quella occasione una scheda che sicuramente le apparteneva. Un altro decisivo elemento che vale a dimostrare la militanza della Saraceni è costituito dal rinvenimento, presso la sua abitazione, di un “floppy disc”, contenente un documento (che era stato cancellato e che i tecnici sono riusciti a ricuperare ed a leggere) che riguardava certamente l’attività dell’associazione. In particolare, il documento comprende una “inchiesta”, effettuata nel gennaio del 1999 e consistita in osservazioni notturne eseguite, verosimilmente a bordo di un Fiorino, sulle strade ove erano ubicate le sedi della C.G.I.L., della C.I.S.L. e della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero. Il documento contiene, oltre ai resoconti dei servizi di inchiesta, anche osservazioni e domande di chiarimenti fatte da qualcuno che rivestiva un ruolo più importante all’interno dell’organizzazione nonché le risposte dell’esecutore dei servizi. Ciò faceva capire che vi era stata una “veicolazione” per posta elettronica o ripetuti passaggi del dischetto tra la militante e gli organi superiori (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 51). La Saraceni (ud. 7.6.05, p. 132 ss.) ha negato di aver partecipato allo svolgimento di quella “inchiesta” ed alla stesura del relativo documento ed ha affermato che il dischetto le era stato consegnato da Laura Proietti, con la quale aveva avuto diversi incontri, all’inizio del 1999, per discutere di vari problemi e leggere insieme testi di Lenin e di Marx. La Proietti le aveva fornito quel materiale, per darle la possibilità di rendersi conto, ai fini di un eventuale reclutamento, del tipo di attività che veniva svolta dagli N.C.C. Dopo aver letto una parte di quel documento, aveva capito che si trattava di cose che non la interessavano che erano “più grandi di lei” e, anziché restituirlo alla Proietti,

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aveva conservato il dischetto e l’aveva utilizzato per scrivere documenti suoi personali, provvedendo prima a cancellare il compromettente “file”. Tali affermazioni sono da ritenere del tutto inattendibili. Deve, infatti, considerarsi che la Saraceni frequentava da più di un decennio quell’ambiente ed aveva avuto modo di allacciare stretti rapporti con persone del livello di Mario Galesi; non aveva quindi bisogno di leggere un documento di quel genere (né di discutere o di studiare libri insieme alla Proietti) per capire quale fosse l’attività svolta dai vari gruppi eversivi. D’altra parte, da alcuni passi del documento si può desumere chiaramente che l’inchiesta era stata svolta da una donna (dato che, nelle risposte all’organo di livello superiore, si usa il genere femminile) e, in particolare, da una donna con problemi di vista (dato che si fa espressa menzione della difficoltà di vedere da lontano): queste caratteristiche si attagliano perfettamente alla persona dell’imputata. Deve osservarsi, inoltre, che nel documento vi sono alcune frasi, attribuibili all’esecutore dell’inchiesta, che manifestano chiaramente la volontà di evitare che le azioni eversive programmate causassero danni alle persone o anche danni eccessivi alle cose. Un’analoga posizione è stata espressa dalla Saraceni in un memoriale che ha inviato all’autorità giudiziaria, mentre si trovava in stato di detenzione. In questo memoriale, infatti, si legge testualmente:<<Ribadisco la mia estraneità alla Brigate Rosse e la mia avversione verso l’omicidio politico e la lotta armata, che credo sia cosa ben diversa da incruente azioni eversive che intendono esprimere la protesta per un assetto sociale e istituzionale ritenuto ingiusto e che, come risulta dallo stesso file, si preoccupano di salvaguardare l’incolumità delle persone. Il “file” trovato nella mia abitazione non può comunque giustificare le pesanti accuse che mi vengono mosse ed appartiene in ogni caso ad una parentesi del passato che mi ero gettata alle spalle ormai da anni>>. Richiamando quel passo del documento relativo all’inchiesta, sottolineando la radicale differenza tra le azioni cruente e quelle puramente dimostrative (come gli attentati alla C.G.I.L. e alla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero) e affermando che queste ultime appartenevano comunque ad un “passato lasciato alle spalle”, l’imputata ha implicitamente ammesso di aver partecipato alla stesura del documento e alle operazioni di preparazione di futuri attentati (due dei quali sono stati poi effettivamente compiuti). Un analogo contenuto confessorio può essere attribuito al documento intitolato <<Dani+io. Riflessioni prima di partire per Cuba, più o meno novembre 1999>> (tratto sempre dal materiale informatico sequestrato alla Saraceni), dove si legge una riflessione fatta nell’aprile del 2000:

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<<effettivamente adesso mi trovo senza nulla, visto che ho dedicato gli anni precedenti a qualcosa che poi ho lasciato>>. Anche in questo caso vi è la manifestazione di una volontà di operare un radicale cambiamento rispetto al passato e di non accettare più i metodi di contestazione violenta; il che fa presumere che in precedenza quegli stessi metodi erano stati condivisi ed applicati. Dall’archivio informatico del Morandi, decriptato grazie alla “password” fornita dalla Banelli, sono stati estrapolati documenti che riproducono il contenuto della “inchiesta” registrata nel dischetto sequestrato presso l’abitazione della Saraceni (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 110 ss.). Nel suo computer, inoltre, erano installati programmi di criptazione uguali a quelli utilizzati dal Mezzasalma, dal Broccatelli e dal Badel (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 55 s.); e al riguardo le giustificazioni addotte dall’interessata sono apparse palesemente inattendibili. Tali circostanze valgono a confermare l’esistenza di stretti collegamenti tra l’imputata ed altri esponenti dell’associazione. Un altro importante elemento, idoneo a dimostrare la “militanza” della Saraceni è rappresentato dall’accertata utilizzazione del cellulare 338/9760233.. Come si è visto, questa utenza aveva caratteristiche analoghe a quelle dei telefoni che costituivano una “dotazione” dell’organizzazione. In particolare: era priva di intestatario; aveva operato, tra l’aprile del 1998 e il 15 maggio 2000, con un traffico non omogeneo (in quanto a giorni con numerose chiamate seguivano periodi di non utilizzo) e lasciando un credito residuo; era stata più volte contattata da cabine pubbliche con schede telefoniche prepagate (talvolta in contiguità temporale rispetto a contatti intervenuti tra le stesse S.T.P. e i cellulari “di organizzazione”); risultava operante nei luoghi e nel periodo della “inchiesta” su D’Antona ed anche nel giorno dell’esecuzione dell’omicidio; aveva subito un’interruzione del traffico nel periodo immediatamente successivo al 20 maggio 1999 (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 89 ss.). L’appartenenza di questo cellulare all’associazione eversiva può essere desunto anche dal fatto che, presso l’abitazione di Marco Mezzasalma, è stato sequestrato un biglietto da visita TIM del cellulare 338/4658958, che sulla facciata retrostante aveva annotati a mano il numero 338/9760233 accanto ai numeri 338/4658255, 339/4636039, corrispondenti agli altri due cellulari considerati “di organizzazione”. Inoltre, deve rilevarsi che, nel giugno del 1998, Nadia Desdemona Lioce, sotto il falso nome di Carla Ceci (usato anche in altre occasioni), ha dato lo stesso numero 338/9760233, come recapito telefonico, ad uno studio medico dell’Associazione Italiana per l’Educazione Demografica, dove si era recata per esigenze personali; tale circostanza è emersa dall’esame della documentazione esistente presso il suddetto studio e ha trovato riscontro in altri documenti

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sequestrati nella cantina di via Montecuccoli (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 139 s.). Dall’esame del traffico dell’utenza “233” è emerso che la stessa, nel corso del 1999, è entrata in contatto con telefoni riferibili a Francesco Rizzo, in più occasioni e precisamente il 26, il 27 e il 31 marzo, il 2 aprile, il 3 luglio e il 23 settembre. Si è poi accertato che, per il periodo dal 1° aprile al 30 settembre 1999, il Rizzo (ud. 11.4.05, p. 159 ss.) ha dato in locazione un appartamento di proprietà dei suoi genitori, sito in via Pelagalli di Cerveteri, a Federica Saraceni (conosciuta a seguito di un annuncio su “Porta Portese”), ricevendo come recapito telefonico proprio il 338/9760233. Tale numero, infatti, risulta annotato, a fianco alle parole “Federica (Cerveteri)”, su un’agenda rinvenuta in casa dello stesso Rizzo; le generalità dell’imputata risultano poi dal contratto di locazione trovato nello stesso luogo. Il numero 338/9760233, inoltre, risulta annotato, a fianco del nominativo “zio Ninnillo”, su una rubrica e su due agende (relative agli anni 2000 e 2001) rinvenute presso l’abitazione della Saraceni. In sede di esame (ud. 7.6.05, p. 137 ss.), l’imputata ha ammesso di aver preso in locazione l’appartamento di Cerveteri, fornendo la seguente versione. Nel marzo del 1999 aveva dovuto lasciare l’appartamento dove abitava (in uno stabile occupato, che doveva essere ristrutturato dal Comune) e si era dovuta fare ospitare dal suo compagno Daniele Bernardini in via Ostuni al Quarticciolo (in altro stabile occupato). In quel periodo, peraltro, il suo rapporto con il Bernardini era in crisi e la vita in comune con gli altri occupanti le creava problemi, anche perché non riusciva a studiare per la preparazione ad un concorso per la scuola materna. Aveva così deciso di prendere in affitto un appartamento a Cerveteri, che le risultava facilmente raggiungibile dalla via Cassia, dove tutte le mattine (all’altezza della Tomba di Nerone) si recava per lavorare come baby-sitter. In tal modo avrebbe potuto studiare e stare in pace. Aveva preso questa decisione senza dire nulla al Bernardini ed agli altri amici, poiché si rendeva conto che era incoerente dedicarsi alla lotta per la casa e occupare appartamenti e nello stesso tempo affittarne uno al mare. Avendo bisogno di lasciare un recapito telefonico al Rizzo e non volendo essere chiamata al proprio cellulare (che spesso veniva usato anche dal Bernardini e dagli altri amici) si era fatta prestare un telefono dalla sua amica Laura Proietti, alla quale aveva accennato che le serviva “per i fatti suoi”. La Proietti le aveva dato allora il cellulare “233”, dicendole che non lo usava. Questo telefono si era rivelato quasi inutile, perché lo aveva tenuto solo per circa dieci giorni e poi lo aveva restituito all’amica. Con il Rizzo si era accordata, infatti, nel senso che avrebbe pagato il canone mensile ad una scadenza fissa; mese per mese aveva sempre rispettato tale scadenza, telefonando ella stessa al Rizzo e fissando un

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appuntamento per la consegna del denaro. Qualche giorno prima della fine di settembre del 1999 aveva telefonato al Rizzo per comunicargli che voleva lasciare l’appartamento. Poiché quello era impegnato e le aveva risposto che l’avrebbe richiamata, si era dovuta far prestare di nuovo lo stesso cellulare dalla Proietti, per poter ricevere la chiamata del Rizzo. In definitiva aveva avuto a disposizione quel cellulare solo per due brevi periodi: tra la fine di marzo e i primi di aprile e poi ancora negli ultimi giorni di settembre. Sulla rubrica e sulle agende del 2000 e del 2001 aveva annotato per errore il numero di quel cellulare a fianco di altro numero appartenente ad un suo zio (deceduto nell’aprile del 2000): ciò era dipeso dal fatto che, com’era sua abitudine, aveva segnato entrambi i numeri su foglietti volanti (senza annotare a fianco l’intestatario) e nel trascriverli si era sbagliata. Queste dichiarazioni, ad avviso della Corte, sono in gran parte inattendibili, perché contrarie ad ogni logica. In primo luogo, deve osservarsi che la stessa imputata (ud. 7.6.05, p. 155 ss.) ha affermato che, nel periodo in cui aveva preso in locazione l’appartamento di Cerveteri (pagando un canone mensile di £. 700.000), lavorava tutti i giorni feriali, dalle 8,30 alle 14, come baby-sitter nell’appartamento di Alessandro Giacopini e Benedetta Crespi in località Tomba di Nerone, percependo £. 1.000.000 al mese; in più lavorava saltuariamente, di pomeriggio, come collaboratrice domestica, guadagnando in media altre 200.000 o 300.000 lire mensili. Ha poi precisato di aver utilizzato quell’appartamento (per studiare e per trovare la tranquillità necessaria per superare la propria crisi esistenziale) soltanto per due o tre volte alla settimana, rimanendovi talvolta a dormire la notte. Ha aggiunto, infine, di aver deciso di affrontare quella spesa per il canone di locazione, in quanto sapeva che presto avrebbe dovuto riscuotere una somma da una compagnia di assicurazioni, a titolo di risarcimento dei danni subiti in un incidente stradale avvenuto nel 1998 ( e nel corso dell’estate del 1999, in effetti aveva riscosso la somma di circa £. 10.000.000) e perché comunque sapeva che avrebbe potuto, in caso di necessità, essere sovvenzionata dalla madre. Non è credibile che la Saraceni fosse disposta ad impiegare una buona parte dei propri emolumenti per fare un uso così limitato e superfluo di quell’immobile. Non è pensabile, d’altra parte, che una persona che si era per tanti anni impegnata nel “sociale”, facendosi carico dei problemi e delle esigenze delle classi meno abbienti, ed era propensa ad esaltare la “coerenza” e il “coraggio”, dimostrati da coloro che erano disposti a rischiare la vita “per sconfiggere l’ingiustizia di questo mondo”, decidesse di tradire in modo così evidente le idee e i principi per i quali aveva lottato e di manifestare la massima incoerenza, spendendo (magari anche con l’aiuto della madre “borghese”) rilevanti somme di denaro per soddisfare bisogni sicuramente non impellenti.

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Non è verosimile, inoltre, che (per non essere accusata di “incoerenza”) non abbia detto nulla della decisione di prendere in locazione quell’appartamento al suo compagno Daniele Bernardini ed agli altri amici ed abbia ritenuto opportuno, invece, rivolgersi, per il prestito di un cellulare, a Laura Proietti e cioè proprio ad una persona che (come aveva potuto apprendere in occasione del tentativo di reclutamento) era una militante degli N.C.C. e che, quindi, assai più degli altri avrebbe potuto mettere in evidenza le sue contraddizioni e rivolgerle critiche. Risulta, quindi, assai più logico ritenere che la Saraceni abbia preso in locazione quell’appartamento per eseguire un incarico affidatole, tramite la Proietti, dai vertici dell’associazione; e che abbia fatto ciò non per soddisfare propri bisogni, ma per far fronte ad eventuali future esigenze dell’organizzazione. Solo così può trovare spiegazione la circostanza che le sia stato affidato un cellulare che, come si è visto, aveva caratteristiche analoghe a quelli degli altri tre telefoni più volte menzionati. Infine, deve rilevarsi che, nel corso della perquisizione eseguita nell’abitazione della Saraceni, è stata rinvenuta un’agenda, sulla quale era annotato (a fianco alle lettere VA) il numero del “teledrin” della Proietti con le prime due cifre e le ultime due cifre invertite. La stessa imputata ha riconosciuto di avere volutamente, per una “stupida” precauzione, invertito quei numeri e utilizzato la lettere “VA” (in quanto iniziali del soprannome Vanessa), evitando di scrivere il nome della sua amica; e ciò perché sapeva perfettamente che si trattava di una militante dell’organizzazione eversiva. Sulla base di tutti questi elementi probatori, deve ritenersi ampiamente provata la responsabilità della Saraceni, in ordine ai reati associativi contestati.

9. Diana Blefari Melazzi.

La prova della appartenenza di Diana Blefari Melazzi all’associazione eversiva ed alla banda armata, indicate nel primo capo di imputazione, è stata acquisita con la massima certezza a seguito della scoperta del deposito della “Easy box” e della cantina di via Montecuccoli. Come si è detto trattando la posizione del Mezzasalma, dai documenti estrapolati dal materiale informatico sequestrato al Morandi e alla Blefari Melazzi risulta che quest’ultima, con il nome operativo Maria e con la sigla di battaglia “M”, ha preso parte ad entrambi gli “smobilizzi” del materiale dell’organizzazione.

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La sua partecipazione al primo trasloco è stata confermata dal traffico generato da cinque utenze cellulari rinvenute nel “covo” di via Montecuccoli; tali utenze, infatti, sono state utilizzate prevalentemente il 31 maggio e il 1° giugno 2003 nelle zone circostanti a via Maia ed alla circonvallazione Tiburtina. Sui cinque telefoni erano applicate delle targhette con i nomi operativi dei militanti che sono stati impegnati nello “smobilizzo”: su una di queste targhette vi era il nome Maria, attribuito con certezza all’imputata. La sua partecipazione al secondo trasloco, effettuato il 18 ottobre 2003, è attestata inequivocabilmente dalle immagini riprese dalle telecamere dell’impianto di video-registrazione, installato all’interno del magazzino sito in circonvallazione Tiburtina. In via Montecuccoli è stato rinvenuto, tra l’altro, il contratto di locazione della cantina, intestato proprio a Diana Blefari Melazzi, la quale (come già aveva fatto il Mezzasalma per l’appartamento di via Maia e per il deposito della “Easy box”) ha fornito le proprie esatte generalità ed ha trattato personalmente con il proprietario Paolo Ricci, conosciuto attraverso un annuncio su “Porta Portese” (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 230). Nella stessa cantina vi erano impronte digitali appartenenti all’imputata (teste Gismondi, ud. 14.4.05, p. 138); il che dimostra che frequentava assiduamente un luogo riservato agli organi dirigenti dell’associazione, in quanto destinato alla custodia di materiale di estrema importanza e segretezza. Vi erano, inoltre, documenti che presentavano interpolazioni scritte a mano con la sua grafia (teste Tintisona, ud. 31.5.05, p. 46); e da ciò può dedursi che partecipava ai dibattiti interni della organizzazione. A seguito del ritrovamento del “covo”, è stata eseguita una perquisizione presso l’abitazione romana dell’imputata, in via del Pigneto n. 30/c, ed è stato sequestrato copioso materiale informatico, rilevatosi di grande interesse investigativo, in quanto comprendente le schede di ruolo relative alle rapine di Firenze, documenti relativi ad un dibattito interno ed alle operazioni di smobilizzo da via Maia nonché volantini di rivendicazione dell’attentato all’Istituto Affari Internazionali e dell’omicidio Biagi (teste Fossi, ud. 26.5.05, p. 196). Nella stessa occasione, è stata trovata una “ciclette” eguale a quella visibile in alcune delle immagini tratte dal nastro registrato dall’impianto della “Easy box” (teste Giannini, ud. 16.3.05, p. 132). Sono state anche sequestrate una pala e una zappa, servite verosimilmente per sotterrare le armi dell’organizzazione o altri oggetti che dovevano essere tenuti nascosti; la circostanza ha trovato conferma in un documento sequestrato in via Montecuccoli, ove si fa cenno ad un appuntamento con una militante, indicata

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con la sigla “MRT” (attribuita alla Blefari Melazzi), che avrebbe dovuto portare con sé stivali, pala e zappa (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 18 s.). Il 22 dicembre 2003 l’imputata è stata rintracciata in un appartamento del residence “Il triangolo, sito in via Etruria 131 di S.Marinella. Al momento dell’arresto è stata trovata in possesso di sei carte di identità (cinque complete di generalità, ma prive di fotografia, e una sesta in bianco) e di due patenti di guida (anch’esse con le generalità e senza le foto). Tali documenti risultavano falsificati mediante utilizzazione di moduli in bianco provenienti da furti commessi ai danni di vari Comuni e facenti parte degli “stock” di moduli trovati nella cantina di via Montecuccoli. L’imputata, inoltre, aveva con sé numerose banconote di vario taglio, per un totale di euro 43.908,23, nonché valuta estera (pesetas, yen e pound egiziani) pari a un controvalore di euro 14,41; il tutto diviso in mazzette e sigillato artigianalmente con plastica e nastro adesivo. Il possesso di questa ingente somma costituisce una conferma della rilevanza del ruolo rivestito dalla Blefari Melazzi all’interno dell’organizzazione e fa sospettare che la sua intenzione fosse quella di entrare in clandestinità. Dal documento contenente la pianificazione dell’omicidio Biagi, tratto dall’archivio informatico del Morandi, risulta che la Blefari Melazzi, in occasione di questa azione “disarticolante”, con il nome operativo di Maria (associato al nome di battaglia “MRT”), ha svolto le funzioni di “staffetta”, seguendo in bicicletta la vittima dalla stazione ferroviaria di Bologna sino all’abitazione e tenendosi in contatto radio con la Lioce e il Morandi, componenti della “squadra offensiva” (teste Marotta, ud. 27.4.05, p. 194 ss.). Tali circostanze hanno trovato puntuale riscontro nelle dichiarazioni rese da Cinzia Banelli (ud. 9.5.05, p. 12 ss.), la quale ha precisato che, nel gennaio del 2003, a seguito di una crisi determinata da alcune divergenze sorte tra la Lioce e il Galesi, si era deciso di allargare la “sede centrale”, facendovi entrare il Morandi e una militante romana, che aveva partecipato come “staffetta” all’omicidio Biagi e come componente della “squadra offensiva” alla rapina di via Torcicoda a Firenze, agendo con il nome operativo Maria e il nome di battaglia “MRT”. Ad ulteriore conferma della sua appartenenza all’associazione, deve osservarsi che la Blefari Melazzi, nell’interrogatorio del 24 dicembre 2005, davanti al g.i.p., si è definita una prigioniera politica e ha dichiarato di essere una militante delle Brigate Rosse e di rispondere solo al “proletariato” e alle stesse B.R.-P.C.C. Deve, pertanto, affermarsi la sua penale responsabilità, in ordine ai reati di cui gli artt. 270-bis e 306 c.p.

10. Simone Boccaccini.

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Simone Boccaccini era noto alla Digos di Firenze sin dai primi anni ’90, perché frequentava assiduamente il “Centro popolare autogestito Fi-Sud” ed aveva contatti con elementi dell’estrema sinistra torinese (teste Grassi, ud. 11.5.05, p. 85).. Il 28 gennaio 1993 è stato identificato mentre usciva dal suddetto centro sociale in compagnia di Fabio Matteini e Luigi Fuccini (gli stessi che il 13 febbraio 1995, a seguito di un tentativo di rapina, verranno arrestati a Roma e successivamente condannati per banda armata e associazione sovversiva, come appartenenti agli N.C.C.). Il 29 gennaio 1998 è stato identificato in via degli Olmi a Firenze, mentre si trovava insieme a Roberto Morandi su un’autovettura Ford Fiesta intestata a Loretta Pozzi, moglie dello stesso Morandi (teste Rizzi, ud. 27.4.05, p. 32 s.). Il 12 marzo 2002, in località Venturina, è stato identificato dai Carabinieri, in compagnia del Morandi, mentre percorreva la strada porrettana, che da Bologna porta a Firenze, a bordo di un’autovettura Fiat Panda di proprietà di Eleonora Giuntini, convivente dello stesso Boccaccini. In considerazione dei suoi rapporti di frequentazione con il Morandi e con le altre persone sopra indicate, il Boccaccini è stato sottoposto, in data 24 ottobre 2003, a perquisizione domiciliare. Successivamente è stata interrogata la Giuntini, la quale ha fornito rilevanti elementi indizianti a carico dell’imputato, con particolare riferimento all’omicidio del prof. Biagi. A seguito delle dichiarazioni della Giuntini, è stato emesso, nei confronti del Boccaccini, un provvedimento di fermo, che è stato convalidato dal G.i.p. presso il Tribunale di Firenze. Con contestuale applicazione della misura cautelare della custodia in carcere. Nell’interrogatorio reso il 29 ottobre 2003 presso la Procura della Repubblica di Firenze, l’imputato si è avvalso della facoltà di non rispondere e si è dichiarato “militante rivoluzionario per la costruzione del partito comunista combattente”. Il relativo verbale, peraltro, è stato redatto senza il rispetto delle disposizioni contenute nell’art. 64 comma 3 c.p.p. e, in particolare, di quella di cui alla lett. a), che prevede che, prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona sottoposta alle indagini debba essere avvertito che <<le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti>>. In dibattimento, le suddette dichiarazioni confessorie sono state dichiarate inutilizzabili da questa Corte, in applicazione del disposto dell’art. 64 comma 3-bis c.p.p. Eguale sorte hanno avuto le dichiarazioni accusatorie rese da Eleonora Giuntini nella fase delle indagini preliminari, in quanto la stessa, in

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dibattimento, nella sua qualità di convivente dell’imputato, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Malgrado la inutilizzabilità delle suddette risultanze, ritiene la Corte che sia sufficientemente provata, sulla base di altri elementi, la responsabilità di Simone Boccaccini, in ordine ai reati associativi ascrittigli. In primo luogo, deve attribuirsi un decisivo valore probatorio alla deposizione di Cinzia Banelli, la quale, in dibattimento, confermando quanto già sostenuto in precedenti interrogatori, ha riferito che un militante con il nome di battaglia Carlo aveva fatto parte, sin dal 1998, insieme al Morandi, del gruppo fiorentino dei Nuclei Comunisti Combattenti ed aveva partecipato alle rapine di Mezzana e di Siena, alla tentata rapina di via Tozzetti a Firenze, all’inchiesta relativa all’iniziativa Biagi ed alla diffusione dei volantini di rivendicazione dell’attacco incendiario alla sede della C.I.S.L. di Milano. L’attribuzione del nome di battaglia Carlo al Boccaccini è stata dimostrata, con la massima certezza, sulla base di una precisa circostanza di fatto. La stessa Banelli (ud. 1.10.04, p. 175 ss.), infatti, ha dichiarato di non avere mai conosciuto personalmente il militante Carlo, pur avendo insieme a lui partecipato ad alcune azioni di “esproprio” compiute dalle Brigate Rosse; e ciò a causa della regola della “compartimentazione”, che impediva i contatti tra i componenti dei diversi gruppi, che non avevano già avuto modo di conoscersi tra loro. Dal Morandi aveva però appreso che il militante Carlo era la persona che era stata con lui identificata dai Carabinieri il 12 marzo 2002 sulla strada porrettana. La Banelli ha anche precisato che proprio il 12 marzo si era recata con Morandi a Bologna nell’ambito dell’attività di preparazione dell’iniziativa Biagi. Nel fare ritorno in Toscana, avevano sperimentato le vie di fuga, che avrebbero dovuto poi percorrere dopo l’esecuzione dell’omicidio (programmata per il 19 marzo): lei si era recata in treno da Bologna a Pistoia, dove aveva preso la propria autovettura ed aveva raggiunto Pisa; il Morandi, invece, era andato in treno sino a Porretta Terme (o altra stazione vicina), dove era ad attenderlo l’autovettura privata del militante Carlo, che lo aveva poi accompagnato a Firenze. Durante quest’ultimo tragitto, il Morandi e il Carlo erano stati fermati ad un posto di blocco ed identificati dai Carabinieri. Il Morandi, in occasione di una riunione tenutasi tra il 12 e il 19 marzo (probabilmente il 15) con Mario Galesi, aveva riferito questa circostanza dell’avvenuta identificazione. Si era allora deciso, per non correre altri rischi, di cambiare il programma relativo alle modalità di allontanamento da Bologna: si era così escluso di utilizzare mezzi privati e si era stabilito di usare il treno sino a Porretta Terme e poi un taxi per raggiungere Pistoia. Secondo la difesa dell’imputato, la circostanza dell’identificazione del Morandi e del Boccaccini non potrebbe costituire un riscontro alle dichiarazioni

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della Banelli, poiché si tratterebbe di un fatto che era già noto alla stessa dichiarante. Tale assunto non può essere condiviso, poiché non ha trovato alcuna conferma in altre risultanze del processo: nell’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti della Banelli il 23 ottobre 2003, infatti, la circostanza non è stata affatto menzionata. La Corte ritiene, al contrario, che debba attribuirsi piena attendibilità alle dichiarazioni di Cinzia Banelli, dato che puntuali conferme sono emerse da numerosi documenti tratti dal materiale informatico sequestrato, che in gran parte è stato decriptato proprio grazie alle “password” da lei stessa fornite. Dal momento in cui ha deciso di collaborare in modo completo con la giustizia, la suddetta imputata ha dimostrato la massima coerenza e precisione, nel riferire dettagliatamente i fatti dei quali era venuta a conoscenza nel corso della sua militanza nell’associazione eversiva. Le poche incertezze manifestate durante le sue ripetute audizioni sono ampiamente giustificate dal fatto che il tempo trascorso può aver affievolito i suoi ricordi. E’ certo comunque che non sono emerse significative contraddizioni e che le sue affermazioni non hanno trovato significative smentite in altre risultanze probatorie. In particolare, la Banelli è stata in grado di dare preziose indicazioni in merito ai nomi di battaglia ed ai nomi operativi di vari componenti dell’associazione, fornendo la chiave di lettura delle “schede di ruolo” contenute nella documentazione sequestrata. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, il fatto che, in una prima fase delle indagini, sia stata erroneamente attribuita la sigla “MU” a Bruno Di Giovannangelo non può valere ad indebolire l’attendibilità delle suddette indicazioni, poiché l’errore non può certamente essere addebitato alla Banelli, la quale ha anzi provveduto a chiarire l’equivoco, trovando poi puntuale conferma nelle dichiarazioni dello stesso Di Giovannangelo. Sulla base delle indicazioni della Banelli e delle risultanze della documentazione in sequestro, può dunque ritenersi ampiamente dimostrata l’attribuibilità al Boccaccini del nome di battaglia Carlo, delle sigle “CO” e “CA” e, in alcune azioni, del nome operativo Andrea. Questo dato probatorio non può essere scalfito dal fatto che il nome operativo Andrea, in anni precedenti (rispetto a quelli in cui sono state commesse le azioni criminose contestate all’imputato), sia stato usato anche da un altro militante. La Banelli ha precisato, infatti, che <<mentre il nome di battaglia era unico per ogni militante, il nome operativo poteva cambiare nelle diverse iniziative; nell’ultimo periodo, però, dall’omicidio del professor Biagi, i nomi operativi erano rimasti uguali per alcuni militanti>>. E nelle “schede di ruolo” relative alla tentata rapina di via Tozzetti a Firenze, risulta chiaramente la partecipazione di un militante fiorentino (e l’imputato è di Firenze, come il Morandi) indicato appunto con la sigla “CO” e con il nome operativo Andrea.

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Dalle dichiarazioni della Banelli e da alcuni “files” decriptati risulta che il militante fiorentino “curato” dal Morandi (da identificarsi certamente nel Boccaccini, che aveva come referente proprio il Morandi) ha partecipato anche all’attività di “smobilizzo” del materiale dell’organizzazione dall’appartamento di via Maia al locale-deposito della “Easy box”, utilizzando sempre il nome operativo Andrea, il nome di battaglia Carlo e la sigla “CO” (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 29 e p. 36). Come si è detto trattando le posizioni del Mezzasalma e della Blefari Melazzi, il nome Andrea è annotato sulla targhetta di uno dei cellulari trovati nel “covo” di via Montecuccoli. L’analisi del traffico dei cinque cellulari che avevano le targhette adesive (con annotati i numeri di telefono ed i nomi operativi dei militanti impiegati nell’operazione) ha consentito di accertare che gli apparecchi erano stati utilizzati proprio in occasione di quel trasloco, effettuato il 31 maggio e il 1° giugno 2003. Dai documenti relativi allo “smobilizzo” si desume che i militanti Aldo e Andrea provenivano da fuori Roma, a differenza degli altri due, indicati con i nomi Ugo e Maria. E il Morandi (Aldo) e il Boccaccini (Andrea) venivano appunto da Firenze, mentre il Mezzasalma (Ugo) e la Blefari Melazzi (Maria) si trovavano già a Roma. Un ulteriore riscontro è costituito dal fatto che il 31 maggio 2003 sia il Boccaccini che il Morandi non erano presenti nei rispettivi posti di lavoro (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p.188). Il convincimento di questa Corte, in merito all’appartenenza del Boccaccini all’associazione, denominata prima N.C.C. e poi B.R., risulta rafforzato anche dal fatto che, trovandosi in stato di detenzione nel carcere di Bologna, egli ha ricevuto dal Morandi e dalla Lioce alcune cartoline, il cui contenuto fa chiaramente trasparire lo stretto rapporto di comune militanza esistente tra loro. In una prima cartolina, datata 5 marzo 2004, il Morandi gli ha rivolto, infatti, frasi come:<<Ne approfitto per farti i migliori e rivoluzionari auguri per il 2004…Quindi ti saluto con un abbbraccio rivoluzionario e comunista sempre>>. In una seconda cartolina, datata 23 marzo 2004, lo stesso Morandi ha affermato tra l’altro:<<Penso che avviare una corrispondenza fra di noi sia più che utile e producente, dato che ci hanno proprio separato con una bella distanza fisica, ma non in termini di comune identità rivoluzionaria e di classe…Con questo ti saluto con un abbraccio forte e rivoluzionario e comunisti sempre>>. In una missiva datata 12 dicembre 2003, infine, la Lioce si è espressa nei seguenti termini:<<Caro Simone, ti scrivo per darti il benvenuto, in prigione purtroppo, e a questo punto anche per augurarti un buon anno nuovo che porti

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a tutti noi e alla classe passi in avanti nel processo rivoluzionario…E con questo ti lascio con un saluto a pugno chiuso. Nadia>>. Sulla base di altri elementi, che verranno esposti più avanti, è da ritenere dimostrata la partecipazione del Boccaccini alla rapina all’ufficio postale di Siena ed alla tentata rapina di via Tozzetti a Firenze. Per le considerazioni sin qui esposte, deve affermarsi la responsabilità dell’imputato in ordine ai reati associativi di cui al capo a) della rubrica. Deve anche rilevarsi che, nel processo di primo grado che si è svolto davanti alla Corte di assise di Bologna, lo stesso imputato è stato riconosciuto colpevole anche per l’omicidio del prof. Marco Biagi.

11. Bruno Di Giovannangelo.

Pienamente provato è da ritenere, ad avviso della Corte, il concorso di Bruno Di Giovannangelo nei reati associativi contestati. A suo carico vi sono, in primo luogo, le precise e reiterate accuse che gli sono state rivolte da Cinzia Banelli, la quale è stata sentita ai sensi dell’art. 210 c.p.p. (ud. 9.5.05, p. 23 ss.), come imputata in procedimento connesso. La Banelli ha riferito, infatti, che il Di Giovannangelo, sia pure ad un livello basso, militava nei Nuclei Comunisti Combattenti già da prima che essa assumesse la responsabilità politica dell’area pisana e prendesse il posto di Giuliano Pinori, che era stato sino ad allora il referente dello stesso imputato. Il suo nome di battaglia era Matteo e la sua sigla di battaglia era “MT” (come risulta anche da alcuni documenti tratti dal materiale informatico in sequestro). Poco tempo prima della trasformazione da Nuclei Comunisti Combattenti a B.R.-P.C.C., il rapporto del Di Giovannangelo con l’associazione è mutato, nel senso che non è stato più sottoposto a vincoli organizzativi e ha dato solo dei contributi volontari, mantenendo però sempre la propria disponibilità e non interrompendo i contatti con i suoi referenti. Gli apporti dell’imputato sono consistiti nel dare, in più occasioni, le opportune informazioni riguardo agli uffici postali, che venivano individuati nelle “inchieste” preparatorie, ai fini della esecuzione delle azioni di “esproprio”, necessarie per l’autofinanziamento del sodalizio. Per dare queste informazioni, si è avvalso dell’esperienza maturata nel corso della sua attività lavorativa di impiegato delle Poste. In particolare, per la rapina all’ufficio postale di Mezzana, ha indicato il percorso che doveva compiere il furgone delle Poste, che effettuava le consegne del denaro e dei valori. In precedenza aveva partecipato alla fase preparatoria della rapina, presenziando alle prove con gli apparecchi radio.

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Per la rapina di Siena, ha dato generiche informazioni sulle caratteristiche delle casseforti e sulle date in cui era previsto un maggiore afflusso di denaro nell’ufficio postale preso di mira. Per la tentata rapina di via Tozzetti a Firenze, ha dato consigli sul modo per scardinare la grata di una finestra dell’ufficio postale ed ha provveduto ad acquistare i fumogeni che dovevano servire per spaventare gli impiegati ed indurli ad allontanarsi dal loro posto di lavoro. Per la rapina di via Torcicoda ha dato generiche informazioni sulle nuove porte blindate in uso presso gli uffici postali. In altra occasione, infine, ha fornito le opportune indicazioni per il recupero di circa 200 detonatori, ancora funzionanti, che erano stati abbandonati da suo padre in una vecchia cascina di Roccascalegna in Abruzzo. Questi detonatori sono stati poi in effetti recuperati dalla stessa Banelli e consegnati al Galesi; successivamente sono stati in gran parte ritrovati nella cantina di via Montecuccoli. La dichiarazioni rese da Cinzia Banelli hanno trovato riscontro nelle ammissioni che lo stesso imputato ha fatto nel corso dell’esame dibattimentale. Il Di Giovannangelo (ud. 6.6.05, p. 151 ss.), infatti, ha riconosciuto: di avere avuto rapporti “politici” prima con il Pinori (sin dal 1990) e poi con la Banelli (a partire dal 1998), con la consapevolezza che entrambi facevano parte dei Nuclei Comunisti Combattenti; di aver consegnato alla Banelli un elenco dei percorsi dei furgoni utilizzati per la consegna dei pacchi speciali (contenenti il denaro e gli altri valori) agli uffici postali della provincia di Pisa; di aver dato informazioni sui momenti di maggiore afflusso di denaro nei vari uffici postali e sul funzionamento delle casseforti; di aver partecipato ad una prova-radio nella fase preparatoria della rapina di Mezzana, pur senza essere a conoscenza del programma operativo; di aver appreso che i responsabili dell’associazione gli avevano assegnato il nome di battaglia Matteo e la sigla “MT”; di aver acquistato alcuni fumogeni, sapendo che sarebbero stati utilizzati per una rapina da eseguire all’interno di un ufficio postale; di aver provveduto, su incarico della Banelli, a fotografare (con una macchina fotografica di dimensioni ridotte) la cassaforte del suo ufficio ed a nascondere sul greto del fiume Arno alcuni “floppy disc”; di aver fornito i dati anagrafici (tratti da una carta di identità avuta per ragioni di ufficio), che dovevano essere utilizzati per la falsificazione di un documento, sapendo che sarebbero serviti per un latitante; di aver partecipato ad operazioni di “contropedinamento” a Pisa; di aver dato indicazioni per il prelevamento dei detonatori che si trovavano in una vecchia cascina di Roccascalegna; di aver partecipato ad un’attività preliminare di “inchiesta” riguardante due deputati; di essersi accordato per un “recupero strategico” e cioè per un incontro che si sarebbe dovuto effettuare a Livorno con

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un membro dell’associazione, che avrebbe sostituito la Banelli nell’ipotesi in cui la stessa fosse stata arrestata. L’imputato ha anche riconosciuto di aver agito essendo pienamente consapevole di dare dei contributi utili all’associazione eversiva e ovviamente anche di essere a conoscenza delle iniziative che poi venivano realmente attuate. Ciò malgrado, ha negato di avere effettivamente aderito ai Nuclei Comunisti Combattenti ed ha sostenuto che vi era stato soltanto un tentativo di reclutamento da parte della Banelli. Tale assunto, peraltro, non è attendibile, poiché non vi è dubbio che, ai fini della sussistenza del concorso, non è necessaria una formale adesione all’associazione o una qualsiasi forma di investitura. Sulla base delle suddette risultanze, è provato che l’imputato non si è limitato ad avere scambi di idee e discussioni di carattere politico con la Banelli o a ricevere dalla stessa semplici proposte di partecipazione, ma ha effettivamente fornito i contributi che nelle varie occasioni gli venivano richiesti e che erano finalizzati al compimento delle operazioni di autofinanziamento del sodalizio criminoso. In alcuni casi ha personalmente partecipato alle fasi di preparazione di singole rapine e comunque, nel corso di vari anni, pur non prendendo parte all’esecuzione delle azioni violente, ha dato la propria costante disponibilità per far fronte alle esigenze dell’associazione, avvalendosi dell’esperienza maturata con l’attività lavorativa nelle Poste. I contributi e gli apporti dati dal Di Giovannangelo erano, in diversi casi, necessari per l’attuazione delle azioni violente progettate dall’associazione eversiva. Deve, pertanto, affermarsi la sua responsabilità, a titolo di concorso, in ordine ai reati associativi contestati.

12. Fabio e Maurizio Viscido.

Da due documenti, tratti da uno dei computer palmari trovati in possesso della Lioce al momento dell’arresto, risulta che alcuni militanti pisani (aventi come referente la compagna “SO”, identificata per la Banelli) erano in grado di fornire dettagliate informazioni sulle misure di sicurezza interne e sulle modalità con le quali venivano inviati il denaro e i valori ai vari uffici postali di Firenze. Tali documenti contengono riferimenti alle sigle di battaglia “ND” e “MT”, ricorrenti anche in un’agenda sequestrata alla Banelli. In altri documenti, estrapolati dall’archivio informatico del Morandi, inoltre, risultano annotazioni relative ad una “inchiesta” su una agenzia di lavoro interinale sita in Livorno.

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L’esame della documentazione sequestrata ha fatto ritenere, sin dal primo momento, che le B.R.-P.C.C.: eseguivano rapine in uffici postali, per autofinanziarsi, utilizzando informazioni provenienti da dipendenti delle Poste; avevano individuato come bersagli uffici che si occupavano del collocamento di lavoratori interinali; mantenevano un archivio storico politico, aggiornato da una “rassegna-stampa” curata da collaboratori, cui era stato affidato lo specifico compito di raccogliere i vari giornali contenenti articoli di particolare interesse. Gli inquirenti potevano constatare che Lioce, Banelli, Fuccini e Di Giovannangelo provenivano tutti dalla stessa area pisana e si conoscevano da diversi anni, avendo frequentato gli stessi circoli politici (“Macchia nera”, “Linea rossa”, “Associazione Italia-Cuba” ecc.). Nello stesso ambiente gravitavano anche i fratelli Fabio e Maurizio Viscido, i quali avevano diversi requisiti che li rendevano compatibili con le attività dell’associazione. Infatti, entrambi: lavoravano a Pisa alle dipendenze delle Poste; avevano frequentato assiduamente il centro “Macchia nera” e la “Associazione Italia-Cuba”; avevano avuto stretti rapporti con Lioce, Banelli, Fuccini, Di Giovannangelo, Pinori ed altri esponenti della sinistra antagonista pisana. Nel corso di una perquisizione, eseguita presso la loro abitazione, inoltre, erano stati rinvenuti documenti con brani corrispondenti a quelli delle risoluzioni strategiche e delle rivendicazioni delle B.R.-P.C.C. (teste Grassi, ud. 11.5.05, p. 87, 116 s. e 140). Su un’agenda, trovata in possesso di Fabio Viscido, vi erano poi alcune annotazioni riferibili all’acquisto di quotidiani ed alla consegna degli stessi a tale Bruno e vi era, infine, l’annotazione “Obiettivo Lavoro torna in Via Gello”. Sulla base di questi elementi, gli inquirenti ipotizzavano che fosse Fabio Viscido la persona che aveva procurato i giornali a Bruno Di Giovannangelo, per la “rassegna-stampa” destinata all’archivio delle B.R., e che aveva svolto una “inchiesta” su una agenzia di lavoro interinale. Esaminando i documenti in sequestro, si giungeva alla conclusione che le sigle “MU” e “MT” dovessero essere attribuite rispettivamente a Bruno Di Giovannangelo ed a Maurizio Viscido e che quest’ultimo fosse il militante che aveva fornito alla Banelli ed alla Lioce le informazioni sui sistemi di difesa degli uffici postali, a danno dei quali le B.R.-P.C.C. avevano programmato le rapine di autofinanziamento. La sigla “MU” veniva attribuita al Di Giovannangelo, in quanto si pensava che fosse l’abbreviazione di Muctar (protagonista del film “Il leone del deserto”, per il quale lo stesso imputato aveva curato la divulgazione negli ambienti politici pisani). La sigla “MT”, invece, veniva attribuita a Maurizio Viscido, poiché i riferimenti agli orari ed ai luoghi di incontro con la militante “SO”, desumibili

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da vari documenti, rendevano verosimile l’abbinamento dello stesso imputato alla Banelli. Con il prosieguo delle indagini, si è potuto accertare che le suddette ipotesi investigative erano errate e prive di fondamento (teste Grassi, ud. 11.5.05, p. 88 ss.). Utili chiarimenti, a tale riguardo, sono emersi dalle deposizioni di Cinzia Banelli (ud. 2.10.04, p. 151 ss.; ud. 9.5.05, p. 34 ss. e 201 s.), la quale ha dichiarato che i fratelli Fabio e Maurizio Viscido, pur avendo fatto parte dell’area della sinistra antagonista pisana ed avendo avuto modo di frequentare diversi esponenti passati poi alla lotta armata, non avevano avuto niente a che fare con l’organizzazione degli N.C.C. o delle B.R.-P.C.C. In particolare, non avevano mai fornito informazioni o notizie che potessero risultare utili per le iniziative dell’organizzazione riguardanti gli uffici postali o le agenzie di lavoro interinale. Se ciò fosse avvenuto, lei stessa ne sarebbe venuta a conoscenza, dato che era la referente del gruppo pisano. In ogni caso, i Viscido svolgevano, nell’ambito delle Poste, mansioni meramente esecutive (Fabio scaricava i pacchi dai treni alla stazione di Pisa, mentre Maurizio faceva il portalettere) e non erano quindi in grado di apprendere notizie di interesse per l’associazione. Le sigle di battaglia“MU” ed “MT”, in realtà, erano state assegnate rispettivamente al Fuccini ed al Di Giovannangelo. La Banelli ha anche precisato che, secondo quanto le era stato riferito dal Di Giovannangelo, Fabio Viscido andava in giro vantandosi di aver svolto attività per conto degli N.C.C.; ciò, peraltro, non corrispondeva a verità, dato che nessun apporto era stato in concreto fornito dallo stesso imputato. Gli elementi acquisiti a carico dei fratelli Fabio e Maurizio Viscido sono, pertanto, del tutto inconsistenti. Di conseguenza, entrambi debbono essere assolti dai reati associativi loro ascritti, per non aver commesso il fatto; e ciò in conformità con le richieste del pubblico ministero (che, del resto, aveva chiesto il proscioglimento già all’esito dell’udienza preliminare).

13. Roberto Badel. Il 24 ottobre 2003, nel corso di una perquisizione eseguita presso l’abitazione di Roberto Badel, sono stati sottoposti a sequestro 41 “floppy disk”, un personal computer assemblato, un “hard disk” di marca “quantum” e 20 “cd rom”. In un uno dei “floppy disc” era registrato un “file”, denominato “Istrfile.doc” (teste Provenza, ud. 6.6.05, p. 114), contenente le istruzioni per l’uso dei programmi “bc wipe” (per la cancellazione dei “files”, mediante sovrascrittura) e “scramdisk” (per la criptazione dei “files”) nonché informazioni per l’uso del comando “cerca bat” (per cercare i “files” temporanei da eliminare). Vi erano, inoltre, i relativi “files” di installazione.

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Analizzando questa documentazione, è emerso che “Istrfile.doc” è in larga parte perfettamente sovrapponibile al “file”, denominato “scramist”, tratto dal materiale informatico rinvenuto nella cantina di via Montecuccoli (teste Giannini, ud. 11.4.05, p. 106 ss.). La criptazione dei documenti e la completa eliminazione di quelli cancellati costituivano indubbiamente un’esigenza irrinunciabile dell’organizzazione eversiva. I programmi installati nel materiale rinvenuto in casa del Badel, infatti, erano presenti anche nei supporti informatici sequestrati ad altri imputati e in quelli rinvenuti nel “covo” di via Montecuccoli (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 56). In particolare, il “file” di installazione del programma “scramdisk” è stato trovato alla Saraceni, al Mezzasalma, alla Blefari Melazzi e alla Banelli e quello relativo al “bcwipe” al Mezzasalma e alla Blefari Melazzi. Il “file” con il “cerca bat” è stato rinvenuto, con la stessa data di ultima modifica, alla Blefari Melazzi e nel “covo” (teste Provenza, ud. 6.6.05, p. 81 s. e 133). In un “floppy disk” sequestrato nell’abitazione del Badel, inoltre, sono stati rinvenuti “files” cifrati mediante l’applicativo “P.G.P. (Pretty Good Privacy)”, per i quali non è stata possibile la lettura, non avendo l’imputato fornito la relativa “password”. Lo stesso programma “P.G.P.” era presente in “files” trovati in possesso degli imputati Broccatelli, Blefari Melazzi, Mezzasalma e Morandi. Su alcuni dischetti del Badel vi erano chiavi pubbliche “P.G.P.” coincidenti con quelle di altri documenti di un cd. sequestrato in via Montecuccoli e l’imputato aveva anche le corrispondenti chiavi private; le stesse chiavi pubbliche e private erano in possesso della Blefari Melazzi (teste Provenza, ud. 6.6.05, p. 64 ss.). Da queste circostanze può desumersi che il Badel e la Blefari Melazzi avevano la possibilità di effettuare tra loro comunicazioni segrete, utilizzando il “software P.G.P.” per proteggere “files” e “mail”. Nello stesso “floppy disk” che conteneva le chiavi “P.G.P.” è stato poi recuperato, nello spazio “non allocato” (cioè precedentemente cancellato), un documento che fa riferimento al compagno “B” ed il cui testo, secondo gli inquirenti, riguarda un dibattito interno all’organizzazione, poiché riflette le problematiche che sono state effettivamente oggetto di discussione tra i militanti delle B.R.-P.C.C., come quella relativa alla opportunità o meno di continuare l’attività “disarticolante” dopo l’omicidio D’Antona. In tale documento sono presenti concetti ed espressioni riscontrabili anche nel volantino di rivendicazione dell’omicidio ed in altri testi trovati in via Montecuccoli, tanto che si è ritenuto trattarsi di una sorta di verbale-resoconto di una riunione di appartenenti ad un’organizzazione eversiva (consulente Proietti, ud. 23.5.05, p. 64 ss.).

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Dall’analisi dei tabulati del traffico telefonico relativo all’utenza del Badel sono emersi diversi contatti con gli imputati Broccatelli e Blefari Melazzi: con quest’ultima anche nei giorni 19, 20 e 21 maggio 1999 e cioè proprio in prossimità dell’esecuzione dell’omicidio D’Antona (teste Provenza, ud. 28.4.05, p. 256 ss.). Nell’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero il 17 luglio 2004, l’imputato ha respinto ogni addebito, ma non è stato in grado di precisare da chi avesse avuto il documento con i riferimenti al “compagno B”, chi ne fosse l’autore e perché fosse stato cancellato. Ha ammesso, inoltre, di aver conosciuto sia il Broccatelli che la Blefari Melazzi e di aver frequentato e contattato telefonicamente quest’ultima dal 1994 sino al 2001. Ha sostenuto, infine, di aver preso da internet i “files” riguardanti i programmi di criptazione e di cancellazione. Ad avviso della Corte, gli elementi probatori acquisiti a carico dell’imputato non sono sufficienti per un’affermazione di responsabilità in ordine ai reati associativi contestati. Una effettiva militanza di Roberto Badel nelle B.R.-N.C.C. non risulta dimostrata con certezza, anche se si considerano fondate le ipotesi prospettate dall’accusa e cioè se si ritiene che egli abbia realmente partecipato ad un dibattito interno sulle problematiche dell’organizzazione ed abbia avuto uno scambio di opinioni, comunicando per via informatica, con la Blefari Melazzi o con altri esponenti del sodalizio e manifestando la propria approvazione nei riguardi delle iniziative dallo stesso portate a compimento. Per la sussistenza delle fattispecie criminose contestate, invero, non possono bastare contatti, rapporti, scambi di opinioni che si fermino ad un piano ideologico, senza passare ad una concreta fase attuativa o anche solo programmatica e preparatoria. Come si è già detto, le norme di cui agli artt. 270-bis e 306 c.p. apprestano tutela contro i comportamenti violenti, anche se soltanto progettati, ma non contro le idee. Nel caso di specie, non sono stati acquisiti elementi dai quali possa desumersi che il Badel abbia effettivamente partecipato ad azioni eversive e non si è provato con sicurezza che egli abbia contribuito alla elaborazione di concreti e attuali progetti di violenza. Conforme a giustizia appare, pertanto, una decisione di assoluzione ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p.

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B) L’omicidio del prof. Massimo D’Antona e i reati connessi.

1. Premessa.

In dibattimento sono state sentite, in qualità di testimoni, alcune persone che, la mattina del 20 maggio 1999, erano presenti sul luogo in cui è avvenuto l’omicidio del prof. Massimo D’Antona. Il teste Andrea Caldelli (ud. 13.4.05, p. 70 ss.) ha dichiarato che, verso le ore 8,15-8,30, mentre si trovava sulla via Salaria davanti ad un negozio di tintoria sito al numero civico 129, vide, ad una distanza di circa cinquanta metri, delle persone che parlavano tra loro. Subito dopo sentì un colpo lieve (come fosse una “miccetta”) e vide un uomo che si accasciava accanto al muro. Notò, inoltre, un uomo e una donna che si allontanavano a passo svelto e poi giravano per via Adda. Entrambi avevano un abbigliamento sportivo ed indossavano pantaloni jeans, k-way e un cappelletto verde. L’uomo era più alto e magro ed aveva un “pizzetto”; la donna era più bassa e un po’ tarchiata e aveva i capelli che le uscivano dal cappello e un vistoso rossetto sulle labbra. L’uomo, mentre si allontanava, si infilò qualcosa nella cintura dei pantaloni. Egli chiamò subito il “113” e il “118” e, avvicinatosi all’uomo che era stato colpito, ebbe l’impressione che fosse ancora in vita, dato che emetteva un piccolo rantolo. Il teste Paolo Porchia (ud. 13.4.05, p. 85 ss.) ha riferito che, verso le ore 8,30, mentre percorreva la via Salaria in direzione di piazza Fiume a bordo di un motorino, sentì esplodere quattro o cinque colpi di arma da fuoco in sequenza e pensò subito che il rumore non fosse stato causato da una normale pistola, ma da un arma dotata di silenziatore. Si fermò e, accostatosi al marciapiedi, vide un uomo e una donna che si allontanavano a passo svelto e imboccavano via Adda. Entrambi indossavano “k-way” e portavano in testa cappelli impermeabili; l’uomo era alto circa mt. 1,75 ed aveva una borsa a tracolla; la donna aveva i capelli lunghi ed era alta circa mt. 1,70. In terra giaceva immobile un uomo, a breve distanza da un cartellone pubblicitario e da un furgone parcheggiato vicino al bordo del marciapiede.

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Il teste Pier Ludovico Puddu (ud. 13.5.05, p. 102 ss.) ha affermato che, mentre stava attraversando la via Salaria, sentì il rumore di un paio di spari. Si girò e vide un uomo che si accasciava in terra e vicino a lui due persone, una delle quali continuava a sparargli tenendo il braccio teso e nascondendo l’arma con la manica del giubbotto. Subito dopo vide queste due persone, vestite in modo sportivo con jeans e scarpe tipo “magnum”, allontanarsi a passo svelto e svoltare per via Adda. Il teste Giovanni Battista Vignato (ud. 13.5.05, p. 118 ss.) ha dichiarato che, mentre (in compagnia della collega di lavoro Gabriella Civollani) percorreva a piedi via Adda in direzione di via Salaria, arrivato a circa 20-30 metri dall’incrocio con tale ultima strada, sentì dei colpi secchi. Continuò a camminare normalmente e poco dopo vide sbucare dall’angolo di via Salaria due persone che imboccavano a passo svelto la via Adda: uno era sicuramente un uomo, era alto circa mt. 1,75-1,80, aveva un taglio di occhi a mandorla di tipo orientale e aveva un marsupio nel quale stava riponendo un oggetto avvolto in un panno. Arrivato all’altezza di via Salaria, vide un uomo in terra ed alcune persone che cercavano di soccorrerlo. Sentì una persona anziana che, indicando i due che si stavano allontanando per via Adda, diceva: <<quelli lì sono matti, hanno sparato>>. Si girò allora verso via Adda e vide che i due stavano montando su un motociclo. Analoghe dichiarazioni sono state rese dalla teste Gabriella Civollani (ud. 11.5.05, p. 25 ss.), la quale ha anche precisato che le due persone che si allontanarono a bordo di un motociclo indossavano jeans ed avevano in testa un cappellino: una era sicuramente una donna. Queste testimonianze sono risultate sostanzialmente conformi tra loro e sono servite ad acquisire i primi dati, che sono stati utilizzati per avviare le indagini, unitamente ai rilievi obbiettivi eseguiti dalla polizia giudiziaria sul luogo del fatto. In tal modo si sono acclarate le circostanze relative al numero, al sesso, all’abbigliamento ed alle caratteristiche fisiche delle persone che hanno materialmente eseguito il delitto, al veicolo che hanno utilizzato per attendere la vittima nonché al percorso che hanno compiuto ed al mezzo che hanno usato per allontanarsi. La precisa ricostruzione di tutte le fasi dell’attentato (la programmazione, la preparazione, l’esecuzione e la fuga) è stata poi resa possibile dalle dichiarazioni di Cinzia Banelli e dalla lettura dei documenti tratti dal materiale informatico in sequestro. Secondo quanto riferito dalla Banelli (ud. 1.10.05, p. 66 ss.), l’obiettivo dell’iniziativa “disarticolante” è stato individuato nel gennaio del 1999, a seguito di dibattiti interni e di riunioni, alle quali essa stessa ha partecipato insieme alla Lioce e al Galesi.

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Le attività preparatorie e l’inchiesta sul territorio (nei pressi dell’abitazione e dei luoghi di lavoro del D’Antona) sono state svolte prevalentemente da militanti romani e solo in parte da quelli toscani. Precedentemente, e in parte contemporaneamente, si è svolta anche l’inchiesta relativa alle sedi sindacali, situate nella zona di piazza Fiume, nei pressi dell’abitazione del D’Antona. E’ stata effettuata una prova generale dell’omicidio, con la partecipazione di tutti i militanti incaricati della fase operativa: ogni “staffetta” ha preso in consegna una radio ricetrasmittente ed un auricolare e si è posizionata nel punto prestabilito, percorrendo lo stesso tragitto che avrebbe dovuto seguire nel giorno dell’esecuzione; la Lioce, via radio, ha fatto l’appello di tutti i presenti, ricevendo da ciascuno la risposta con il rispettivo nome operativo; ognuno è rimasto al suo posto di controllo, in attesa delle comunicazioni della stessa Lioce (in merito all’uscita da casa del D’Antona) ed ha seguito alla lettera le istruzioni ricevute. Tutta l’operazione era dettagliatamente descritta in un documento di pianificazione e ad ogni militante che vi ha preso parte è stata consegnata una “scheda di ruolo” (personale ed individuale), nella quale erano minuziosamente precisati gli orari, il percorso da compiere per l’avvicinamento e l’allontanamento, il materiale in dotazione, i vestiti da indossare ed ogni altro particolare relativo ai compiti da svolgere. L’omicidio avrebbe dovuto essere compiuto circa dieci giorni prima, ma ciò non è stato possibile perché in via Salaria, proprio nei pressi dell’abitazione del D’Antona, si era installata una troupe cinematografica, con le relative attrezzature, per girare alcune riprese di un film. E’ stata quindi fissata prima la data del 18 e poi quella del 19 maggio, ma tutte e due le volte si è dovuto ancora rinviare l’esecuzione, a causa dell’assenza del professore. La Banelli, in alternativa con il Morandi, ha ricoperto il ruolo della “staffetta” che doveva posizionarsi in via Basento per controllare l’eventuale arrivo di forze di polizia e segnalare alla Lioce, via radio, possibili situazioni di pericolo. Il 18 maggio si è presentato sul posto il Morandi, mentre il 19 e il 20 è andata lei stessa. Il 19 maggio è partita da Pisa in treno verso le ore 2 di notte ed è arrivata a Roma alle 6 del mattino. Seguendo le istruzioni ricevute e servendosi di una cabina pubblica situata nei pressi della stazione Termini, ha subito chiamato con una scheda telefonica prepagata una ragazza (successivamente riconosciuta, attraverso le foto pubblicate sui giornali, per Laura Proietti), con la quale si è incontrata nel piazzale di Porta Pia verso le ore 6,30. Da questa militante (che non conosceva e che ha potuto individuare, in quanto aveva una bicicletta ed indossava una giacca chiara ed un cappellino da baseball) ha ricevuto in consegna la radio ricetrasmittente e le chiavi di un’autovettura Fiat Uno di

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provenienza furtiva, che era parcheggiata in via Basento, vicino all’incrocio con via Ofanto, e che doveva servire per l’attesa e per l’allontanamento. Era previsto che “staffette” dovessero indossare giacche e cappelli chiari, a differenza dei due componenti della “squadra operativa offensiva”, i quali dovevano vestire di scuro, per non essere immediatamente individuati. Stando nella postazione di via Basento, intorno alle 7,50 ha ricevuto l’appello radio della Lioce e verso le 8,30-8,35 ha appreso dalla stessa che l’operazione doveva essere rinviata, in quanto il D’Antona non era uscito dalla propria abitazione. Ha fatto quindi ritorno a Pisa, portandosi dietro la dotazione avuta in consegna dalla Proietti, e recandosi regolarmente al lavoro in ospedale tra le 14 e le 19. Nel corso della notte successiva ha ripreso lo stesso treno, arrivando nuovamente a Roma nelle prime ore del mattino del 20 maggio. Questa volta non ha avuto bisogno di fare il preappello telefonico, dato che aveva già il materiale in dotazione, essendosi portata con sé a Pisa la radio e le chiavi della Fiat Uno. Dalla stazione ferroviaria ha preso allora un autobus sino a piazza Fiume e poi ha raggiunto a piedi via Basento, passando per alcune strade laterali, in modo da evitare tutte le telecamere che (secondo quanto si era potuto accertare nel corso della “inchiesta”) erano piazzate nella zona. La squadra operativa era composta da due soli elementi, il Galesi e la Lioce, i quali (a partire dalle ore 5 della mattina) hanno atteso l’uscita del D’Antona, stando all’interno di un furgone Nissan (di provenienza furtiva) parcheggiato sulla via Salaria, dallo stesso lato dell’abitazione della vittima. Il furgone aveva i vetri oscurati, ma sulla parte posteriore era stata lasciata una fessura per poter vedere quanto accadeva all’esterno. Dall’altro lato della strada era parcheggiato un secondo furgone, un Fiat Ducato (anch’esso rubato), che doveva servire per l’ipotesi in cui il D’Antona avesse attraversato la carreggiata. Entrambi i furgoni avevano la funzione di riparare l’azione dell’agguato dalla vista dei pedoni e dei conducenti dei veicoli in transito. Il furgone Nissan doveva essere utilizzato anche per l’attesa dei componenti della squadra offensiva. Le “staffette” erano almeno tre ed erano posizionate una in via Basento e le altre nei due punti opposti di accesso alla via Salaria; non erano armate, ma avevano solo la radio ricetrasmittente, l’auricolare e il mezzo per allontanarsi (le altre due “staffette” non avevano un’autovettura, ma una bicicletta o un motorino).

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Al momento dell’uscita del professore, la Lioce doveva avvertire via radio, con una frase convenuta, le “staffette”, le quali dovevano lasciare la posizione di attesa e mettersi ai rispettivi incroci per controllare il territorio. Dopo l’avvistamento del D’Antona e la comunicazione alle “staffette”, il Galesi e la Lioce, entrambi armati di pistola, dovevano scendere dal furgone Nissan e affrontare la vittima. Nell’occasione dovevano entrambi portare in testa un cappellino scuro, tipo baseball, e il Galesi doveva essere camuffato con un “pizzetto” finto. Il Galesi, con una pistola munita di silenziatore, doveva sparare tenendo l’arma dentro un busta di carta (del tipo di quelle usate dalle “boutique”), in modo che si notasse di meno e in modo che i bossoli rimanessero all’interno della stessa busta. La Lioce, invece, aveva il compito di coprire le spalle al Galesi ed eventualmente di sostituirlo (sparando essa stessa, nel caso in cui ci fossero stati intoppi) e poi di guidare lo scooter nella fuga. L’orario dell’azione era previsto tra le 7,50 (momento dell’appello) e le 8,30-8,35; se il D’Antona non fosse uscito per quest’ora, l’attentato sarebbe stato rinviato, come si era già fatto nei due giorni precedenti. La mattina del 20 maggio l’operazione è stata effettivamente eseguita e, dopo aver ricevuto la comunicazione della Lioce ed aver visto passare per via Basento lo scooter con il Galesi e la stessa Lioce (entrambi vestiti con abiti scuri), si è allontanata in auto in direzione di piazza Buenos Aires e di via Tagliamento. Abbandonata la Fiat Uno in una piazzetta, ha raggiunto a piedi corso Trieste e in autobus si è recata in viale Giulio Cesare, nei pressi della fermata “Ottaviano” della metropolitana, dove si è incontrata con il Galesi, al quale ha restituito il materiale in dotazione, ricevendo notizia dell’esito dell’operazione. Dopo questo “recupero”, ha fatto ritorno a Pisa, dove si è incontrata con il Morandi e successivamente anche con il Di Giovannangelo. Le dichiarazioni della Banelli sono da ritenere pienamente attendibili, perché hanno trovato puntuale riscontro nelle deposizioni dei testimoni oculari, nei rilievi della polizia giudiziaria e, soprattutto, nella documentazione in sequestro. Nel documento contenente la pianificazione dell’omicidio è descritto, nei minimi particolari, tutto ciò che riguarda l’iniziativa “disarticolante”. Si è avuta così la conferma di numerose circostanze, riguardanti, ad esempio, l’esatto posizionamento (già alcuni giorni prima della data fissata per l’esecuzione) dei due furgoni in via Salaria e dell’autovettura in via Basento nonché dei mezzi da utilizzare per l’allontanamento dei componenti della “squadra offensiva” e delle “staffette”; gli orari da rispettare; i posti che dovevano occupare e i percorsi che dovevano compiere i vari militanti; i materiali da utilizzare; i nomi operativi; le comunicazioni via radio; le modalità

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dell’azione omicidiaria; le vie di fuga da percorrere; i successivi “recuperi”, ecc. L’omicidio del prof. Massimo D’Antona, come si è detto, è stato certamente compiuto da militanti dell’associazione, che proprio a seguito di questa operazione ha assunto la denominazione delle B.R.-P.C.C. e che in precedenza aveva agito sotto la sigla degli N.C.C. Nei volantini di rivendicazione sono diffusamente descritte le finalità di eversione dell’ordine democratico che hanno costituito il movente del delitto. Ricorrono quindi tutti gli elementi richiesti per la configurazione della fattispecie criminosa prevista dall’art. 280 c.p. e sussistono le aggravanti contestate, in considerazione del numero degli autori (superiore a cinque) e della qualità di pubblico ufficiale rivestita dalla vittima. I responsabili dell’omicidio devono essere condannati, conseguentemente e in concorso, per il porto e la detenzione dell’arma e delle munizioni usate per uccidere il prof. D’Antona nonché per i furti dei due furgoni utilizzati nell’operazione. Con la consulenza balistica si è accertato che è stata impiegata una pistola cal. 9, la stessa che è poi servita per l’omicidio del prof. Marco Biagi- In base alle dichiarazioni della Banelli e alle denunce presentate dalle rispettive parti lese, si è accertato che il Furgone Fiat Ducato tg. Roma 16565 P era stato sottratto, previa effrazione della serratura, a Luciano Capozza, tra le ore 16 del 6 e le ore 17 del 7 maggio 1999 in Roma; e che il furgone Nissan Vanette tg. VA D04735 era stato rubato, mediante effrazione, ad Alessandro Fumaselli, tra le ore 19 del 28 e le ore 7 del 29 aprile 1999 in Roma; entrambi i mezzi erano parcheggiati in strada e quindi esposti alla pubblica fede.

2. Nadia Desdemona Lioce.

In ordine all’omicidio ed ai reati connessi, deve affermarsi la responsabilità di Nadia Desdemona Lioce. A suo carico, infatti, vi sono le precise e circostanziate accuse mosse dalla Banelli, che hanno trovato, come si è detto, puntuali riscontri in numerose altre risultanze del processo. In vari documenti tratti dal materiale informatico sequestrato risulta la posizione di vertice che, nell’ambito dell’associazione, occupava la militante indicata con la sigla “RS”, da attribuirsi con la massima certezza alla Lioce, che faceva parte della “sede centrale” e cioè del massimo organo direttivo. A tale riguardo, deve farsi riferimento a ciò che è stato esposto ed argomentato nella parte relativa ai reati associativi.

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In particolare, debbono richiamarsi le risultanze dei sequestri operati al momento dell’arresto dell’imputata e nel corso delle perquisizioni eseguite nella cantina di via Montecuccoli e nelle abitazioni dei coimputati. Da ultimo, deve sottolinearsi ancora il contenuto confessorio delle dichiarazioni spontanee e dei documenti prodotti dalla stessa Lioce.

3. Marco Mezzasalma.

Pienamente provata è da considerare, in ordine agli stessi reati, anche la responsabilità di Marco Mezzasalma. Nel documento di pianificazione dell’omicidio D’Antona si legge che un militante, indicato con la sigla di battaglia “LU” e il nome operativo Franco, doveva ricoprire, in alternativa con il militante “MS”, il ruolo della “staffetta A”, in attesa alla fermata dell’autobus in via Salaria, in prossimità di piazza Fiume. Nello stesso documento si precisa che, nell’ipotesi in cui il ruolo fosse stato ricoperto da “MS”, ci sarebbe stato prima un incontro a piazzale Flaminio con la “staffetta B” (indicata con la sigla“V”, abbinata a Laura Proietti), per consultare alcuni quotidiani e controllare se risultava da qualche articolo un impegno del D’Antona fuori Roma; nel caso in cui lo stesso ruolo fosse stato ricoperto da “LU”, invece, questo incontro non sarebbe stato effettuato, per ragioni di compartimentazione, in quanto “LU” e “V” non si conoscevano tra loro. La sigla “LU” deve essere attribuita con certezza al Mezzasalma, poiché all’interno di una borsa di tela rossa, sequestrata nella sua abitazione, è stato rinvenuto un foglietto con l’annotazione “LU 03332965195 - nuovo numero 3476084636”; e al momento dell’arresto, avvenuto il 23 ottobre 2003, l’imputato aveva con sé un cellulare “GD 75” con una SIM avente proprio il numero 3476084636; l’analisi del traffico generato da questa utenza ha dimostrato che ne era stato l’utilizzatore, in quanto i contatti telefonici riguardavano suoi parenti, amici o comunque persone a lui riferibili. La stessa sigla era poi annotata su diverse schede telefoniche trovate in suo possesso. In alcuni documenti, inoltre, la sigla “LU” viene abbinata al nome di battaglia Ugo, sicuramente attribuibile al Mezzasalma. In altri documenti lo stesso militante viene indicato con la sigla “LU1”, per distinguerlo da Roberto Morandi, cui era assegnata la sigla “LU2”. In particolare, nel documento di pianificazione “PDT1LC.DOC” si indicano le modalità di un “recupero” di “LU1” presso la “base A”: tale termine era verosimilmente riferito all’appartamento di via Maia, che costituiva la base logistica principale dell’associazione e il luogo dove abitavano la Lioce e il Galesi; e “LU1” non poteva che essere il Mezzasalma, che aveva la possibilità

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di accedere in quell’appartamento senza destare alcun sospetto, essendo la persona che aveva preso in locazione l’immobile, fornendo le proprie generalità. Come si è detto nella parte della motivazione relativa ai reati associativi, il Mezzasalma rivestiva un ruolo molto importante nell’ambito dell’associazione, in quanto fungeva da responsabile logistico, avendo la disponibilità del suddetto appartamento, nella sua qualità di conduttore e firmatario del relativo contratto. Il coinvolgimento dell’imputato nella fase cruciale dell’iniziativa D’Antona può essere desunto anche dal fatto che nei giorni 18, 19 e 20 maggio 1999 egli è risultato assente dal suo posto di lavoro, perché in ferie (teste Tintisona, ud. 31.5.05, p. 83). Si è accertato, inoltre, che una S.T.P. a lui attribuita ha contattato cellulari di organizzazione proprio il giorno in cui è stato compiuto il tragico attentato (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 152). Sulla base di tali risultanze, deve ritenersi pienamente provato il concorso del Mezzasalma nell’attentato e nei reati connessi. Infatti, anche se egli non avesse effettivamente ricoperto il ruolo di “staffetta” (in quanto sostituito dal militante indicato, nel documento di pianificazione, con la sigla “MS”), è certo che il suo apporto alla realizzazione dell’attentato è stato comunque determinante, in quanto ha dato la sua disponibilità a svolgere, durante la fase operativa, quella funzione di appoggio e di copertura ed a garantire, nella fase successiva, l’accesso all’appartamento, ove gli operanti avrebbero potuto nascondersi.

4. Roberto Morandi.

Altrettanto pacifica è da considerare, in ordine all’omicidio D’Antona ed ai reati connessi, la responsabilità di Roberto Morandi. A suo carico, come si è già detto, vi sono in primo luogo le precise accuse rivoltegli da Cinzia Banelli, la quale ha dettagliatamente riferito in merito al ruolo dirigenziale che egli rivestiva all’interno dell’associazione ed al suo coinvolgimento nell’iniziativa D’Antona. In particolare, la Banelli (ud. 2.10.04, p.67 s.) ha dichiarato che la decisione di compiere l’attentato ai danni del prof. D’Antona le è stata comunicata dal Galesi, nel corso di una riunione del “coordinamento centralizzato” della Toscana, alla presenza del Morandi, che era il referente del gruppo fiorentino, denominato “loc. A” (e che poi, a partire dal gennaio del 2003, sarebbe entrato a far parte della “sede centrale allargata”). La Banelli (ud. 1.10.04, p. 74, 85 e 118) ha anche affermato che il Morandi ha partecipato ad una parte dell’attività di inchiesta relativa all’omicidio D’Antona ed è stato presente a Roma in occasione della prova generale e in quella della

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fallita esecuzione del 18 maggio 1999, in quanto, secondo la pianificazione, avrebbe dovuto ricoprire (in alternativa con lei) il ruolo della “staffetta B” in via Basento; il giorno dell’omicidio è rimasto a Pisa, ma si è regolarmente presentato ad un “recupero” programmato per le ore 13,30 (con la stessa Banelli). Tali dichiarazioni sono pienamente attendibili, poiché hanno trovato puntuale riscontro nei documenti tratti dal materiale informatico, sequestrato a Firenze presso l’abitazione dell’imputato e “decriptato” grazie alla “pass-word” indicata proprio dalla Banelli. Tra i numerosi “files” estrapolati da questo archivio, vi è anche il documento che descrive la dinamica operativa dell’omicidio D’Antona (teste Giannini, ud. 14.3.05, p. 90 s.) e che fa riferimento al militante cui erano state assegnate le sigle “LU-loc.A” o “LU2” e il nome di battaglia Luca (da identificarsi, secondo la Banelli, proprio nel Morandi). Nel corso della perquisizione eseguita presso la suddetta abitazione, inoltre, è stata trovata una scheda telefonica prepagata, appartenente sicuramente all’imputato (per le ragioni indicate nella parte riguardante i reati associativi). Dai relativi tabulati risulta che questa S.T.P. il 14 e il 18 maggio 1999, sempre alle ore 6,02, da cabine telefoniche pubbliche situate in via Castro Pretorio e in via Monzambano, nei pressi della Stazione Termini, ha chiamato l’utenza “di organizzazione” 338-4558955. Anche questa circostanza vale a confermare quanto dichiarato dalla Banelli, secondo cui il Morandi in entrambe le occasioni era appositamente venuto da Firenze a Roma, per svolgere il ruolo che gli era stato assegnato nell’iniziativa D’Antona. Sia la mattina del 14 che quella del 18 maggio 1999, l’imputato è risultato assente dal suo posto di lavoro presso l’Ospedale Careggi di Firenze. Queste risultanze sono più che sufficienti per ritenere sussistente il concorso del Morandi, essendosi dimostrata la sua adesione alla decisione presa dagli organo direttivi dell’associazione nonché la sua partecipazione alla fase preparatoria dell’attentato ed a quella successiva.

5. Paolo Broccatelli.

Ritiene, invece, la Corte che gli elementi probatori acquisiti non siano sufficienti per affermare la responsabilità di Paolo Broccatelli in ordine all’omicidio ed agli altri reati connessi. Secondo l’accusa, l’imputato avrebbe partecipato, nell’ambito dell’iniziativa D’Antona, alle operazioni di parcheggio dei due furgoni (che dovevano servire per la “squadra offensiva”) in via Salaria e dell’autovettura Fiat Uno (che doveva essere utilizzata dalla “staffetta B”) in via Basento; e avrebbe dovuto poi ricoprire, in alternativa con il militante “LU” (identificato per il

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Mezzasalma), il ruolo della “staffetta A”, incaricata di segnalare alla “squadra offensiva” l’eventuale passaggio di forze di Polizia in via Salaria. Il presupposto di tale tesi è che il militante che viene indicato con la sigla di battaglia “MS”, nei documenti informatici relativi alla pianificazione ed alla preparazione dell’attentato, sia lo stesso che viene menzionato con le sigle “SM” ed “S” nei documenti riguardanti, rispettivamente, la rapina di via Torcicoda a Firenze e lo “smobilizzo” dell’appartamento di via Maia a Roma: tutte e tre le sigle, quindi, dovrebbero essere riferite al Broccatelli. Questo abbinamento, peraltro, mentre è emerso chiaramente (per quanto si è detto nella parte della motivazione relativa ai reati associativi) con riferimento alle sigle “SM” ed “S” (collegate al nome di battaglia Beppe), non è stato sufficientemente provato per la sigla “MS”. E’ molto significativo il fatto che gli stessi inquirenti non sono stati in grado di esprimersi, a questo riguardo, in termini di certezza. La teste Tintisona (ud. 31.3.05, p. 80 s.), infatti, in risposta ad una precisa domanda del pubblico ministero (<<si può spiegare in qualche modo come mai Broccatelli diventa da “MS” di D’Antona, diventa poi “S” o “SM” delle pianificazioni successive? Abbiamo detto “S” o “SM” per la Digos di Roma e per la prospettazione accusatoria sono due sigle certe, “S” “SM” “Beppe”, uguale Broccatelli e abbiamo spiegato perché riteniamo così, ma possiamo dare una spiegazione al fatto che in un periodo precedente, quindi due anni prima, tre anni prima, “MS”, Broccatelli, anziché “S” o “SM” sia identificato come “MS”?>>) ha testualmente affermato: <<Premesso che questa identificazione, come appunto ha precisato lei, di “MS” è, insomma, siamo … si sta ancora verificando e si sta cercando di avere conferme di questo tipo, che comunque in parte si cominciano a trovare dei riscontri, però io devo dire che la sigla “MS” di fatto la si ritrova anche in quel “planning” settimanale di cui ho parlato prima, trovato all’interno del covo di via Montecuccoli, dove è riportata anche la sigla “MRT”, dove si fa riferimento a stivali, a vanghe e a pale, allora … anche lì è riportata la sigla “MS”; devo dire che, sulla base dei riscontri, della documentazione letta, io non ci vedo una grande differenza tra “SM” e “MS”, e … quindi non posso dire adesso il motivo, non mi sento di “approcciare” un motivo preciso per cui il militante in quella … cioè l’organizzazione decide in qualche modo, comunque lui stesso decida di chiamarsi con un sigla piuttosto che con un’altra, cioè potrei fare delle ipotesi che comunque sono mie ipotesi …>>. In merito alla fungibilità delle due sigle a lettere invertite, che costituisce il presupposto della tesi accusatoria, lo stesso funzionario della Digos di Roma ha manifestato, quindi, seri dubbi e perplessità, tanto da precisare correttamente che si tratta di una sua ipotesi personale.

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La sigla “MS” viene menzionata in alcuni documenti risalenti al periodo compreso tra il 1997 e il 2000. In particolare, ritroviamo la stessa sigla nel documento denominato “Iflripv.doc”, nel quale si parla di una riunione di organizzazione tenutasi il 27 ottobre 1997; così anche nel documento “Istruv.doc”, dove “MS” viene ritenuto capace di ricoprire ruoli operativi e si prospetta l’eventualità di inserirlo, insieme a “VT”, in una struttura dell’organizzazione condotta dalla militante “V” (identificata nella Proietti) ovvero in una “sede collettiva” diretta da “RS” (identificata nella Lioce); e ancora nel documento “Iflripv.doc”, dove si ipotizza che “RS” possa trovare ospitalità nell’abitazione di “MS”. Dal documento denominato “PDT1LC” risulta poi che i militanti “MS” e “V” dovevano provvedere a parcheggiare i mezzi in via Salaria e in via Basento nel periodo compreso tra il 7 e il 10 maggio 1999. Si afferma, infatti, che tale attività doveva cominciare il 7 maggio, quattro giorni prima della data di “scadenza dell’operazione”, fissata per l’11 maggio. Nel documento si precisa anche che la sera di lunedì 10 <<MS e V dovrebbero parcheggiare il furgone B>> e che <<eventualmente se ci si volesse avvantaggiare nei giorni precedenti si possono trasportare i furgoni nella zona di piazza Volsinio o sul percorso verso viale Regina Margherita>>. Dallo stesso documento si evince, inoltre, che i militanti “MS” o “LU”, in alternativa, avrebbero dovuto svolgere, il giorno dell’attentato, la funzione della “staffetta A”. Nel documento denominato “PROV30” si legge, invece, che il ruolo della “staffetta A” era assegnato esclusivamente al militante “MS”, mentre non viene affatto menzionato “LU” (e cioè il Mezzasalma). Nella cantina di via Montecuccoli, infine, è stato trovato un “planning” settimanale, con la indicazione dei soli giorni della settimana (e non anche del mese e dell’anno), a partire da un mercoledì 8 sino a una domenica 16 del mese successivo: in corrispondenza di giovedì 9 e di venerdì 10 vi sono, rispettivamente, le annotazioni <<MS. MRT. Prendi accordi x venerdì>> e <<Vai cap. (prepara: jeans, stivali, guanti, pala, cambio) fazzol.>>. Poiché il 20 dicembre 2003, presso l’abitazione della Blefari Melazzi sono stati rinvenuti una pala e un paio di stivali ancora infangati, gli inquirenti hanno ipotizzato che l’annotazione fatta nel “planning”, in corrispondenza del giorno venerdì 10, si riferisse ad un’operazione di interramento (forse delle armi dell’organizzazione) eseguita verosimilmente nell’ottobre o nel novembre del 2003. In tutti questi documenti non sono ravvisabili elementi certi che consentano di attribuire con sicurezza la sigla “MS” al Broccatelli. Secondo l’accusa, questo abbinamento dovrebbe essere desunto dalle seguenti circostanze di fatto.

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In primo luogo, nel documento “PDT1LC” si prospetta l’ipotesi che “MS” e “V” trasportino i furgoni (per “avvantaggiarsi”) già nei giorni precedenti al 10 maggio nella zona di piazza Volsinio. Inoltre, la S.T.P. n. 01.55.219.54358, attribuita al Broccatelli, risulta essere stata utilizzata, proprio da una cabina telefonica ubicata in piazza Volsinio, alle ore 21,27 e alle ore 21,28 dell’11 maggio e alle ore 17,07 del 13 maggio 1999, per chiamare persone aventi stretti rapporti con l’imputato. Infine, si è accertato che dalla stessa cabina di piazza Volsinio è stata utilizzata, alle ore 17,26 e alle ore 17,27 del 14 maggio 1999, la S.T.P. n. 01.58.005.62262, attribuita a Laura Proietti (abbinata alla sigla “V”), per chiamare persone alla medesima collegate. Queste circostanze, peraltro, non appaiono decisive e non consentono di affermare con certezza che le telefonate dalla cabina di piazza Volsinio siano state fatte dal Broccatelli e dalla Proietti proprio in occasione del trasporto dei furgoni. In primo luogo, infatti, deve rilevarsi che tutte e cinque le telefonate sono state effettuate presumibilmente per motivi personali e privati, dato che non sono state dirette a cellulari “di organizzazione”, ma ad utenze di persone legate da vincoli di parentela, di amicizia o di relazioni sentimentali con i due imputati. In secondo luogo, deve osservarsi che le suddette telefonate sono state fatte in giorni diversi (dal Broccatelli l’11 e il 13 maggio e dalla Proietti il 14 maggio), mentre dal documento risulta che i militanti “MS” e “V” avrebbero dovuto provvedere insieme alle operazioni relative allo spostamento ed al parcheggio dei veicoli. Le telefonate, inoltre, sono state effettuate in giorni diversi (e successivi) rispetto a quelli in cui, stando alle indicazioni del documento citato, sarebbe dovuto avvenire il trasporto (anticipato) dei furgoni nella zona di piazza Volsinio. Questa difformità non può essere considerata irrilevante, pur tenendo conto che le operazioni di parcheggio hanno probabilmente subito spostamenti di date, in conseguenza dei rinvii dell’esecuzione dell’attentato (determinati dalla presenza in via Salaria della troupe cinematografica nei giorni 12, 13 e 14 maggio). La mancata coincidenza delle date vale comunque ad indebolire ancor più l’ipotesi accusatoria, fondata già di per se stessa su intuizioni e su valutazioni quanto meno opinabili. A favore dell’imputato, d’altra parte, deve considerarsi che, dagli accertamenti eseguiti dalla polizia giudiziaria, è emerso che nei giorni 18, 19 e 20 maggio 1999 egli era presente, sia di mattina che di pomeriggio, nel suo posto di lavoro. Il che vale ad escludere che abbia effettivamente ricoperto il

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ruolo della “staffetta A” nel giorno dell’omicidio, come anche in quelli che erano stati precedentemente fissati per l’esecuzione dello stesso delitto (poi rinviata a causa dell’assenza della vittima). E, considerato che nel documento “PROV30” il ruolo della “staffetta A” è affidato solo al militante “MS” (senza l’ipotesi alternativa prevista dal documento “PDT1LC”), non può scartarsi l’ipotesi che con la sigla “MS” si volesse indicare una persona diversa da quella cui era stata assegnata la sigla “SM”. Nel corso delle indagini si è accertato che il furgone Nissan Vanette, utilizzato dagli autori materiali dell’omicidio, è stato rubato, nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1999, a Roma in via Donati, a circa 150-200 metri di distanza dalla cooperativa sociale “La Cacciarella”, della quale era presidente Stefania Broccatelli, sorella dell’imputato. Alla sede di questa cooperativa è stato inviato per posta uno dei volantini di rivendicazione dell’omicidio (teste Giannini, ud. 14.3.05, p. 75). Si è anche constatato che sulla portiera di guida del furgone era stato sostituito il cilindro della serratura, in quanto evidentemente era stato danneggiato al momento della sottrazione, avvenuta mediante effrazione (teste Tintisona, ud. 31.3.05, p. 77). Alle ore 17,13 e alle ore 17,17 del 29 aprile 1999, e cioè a poche ore di distanza dal furto del furgone, una S.T.P. attribuita al Broccatelli risulta aver chiamato la “Centro Italia s.r.l.”, concessionaria romana della casa automobilistica Nissan. Queste circostanze hanno valore indiziario, ma non sono sufficienti per dimostrare con certezza che il Broccatelli sia stato direttamente coinvolto nell’iniziativa D’Antona, partecipando al furto del furgone e all’acquisto del “nottolino” della serratura. Le indagini svolte presso la concessionaria della Nissan non hanno consentito di reperire alcun documento attestante l’effettività dell’acquisto; quel tipo di accessorio, infatti, non comportava alcuna registrazione e non si è potuto quindi accertarne né l’avvenuta compravendita né tanto meno le generalità dell’acquirente (teste Gabrielli, ud. 17.3.05, p. 182). In tale situazione di incertezza e di carenza di risultanze probatorie, a norma dell’art. 530 comma 2 c.p.p., deve necessariamente assolversi l’imputato dai reati indicati nei capi b), c), d) ed e).

6. Federica Saraceni.

Un’eguale pronuncia deve essere emessa, in ordine alle stesse imputazioni, nei confronti di Federica Saraceni. Nella parte della motivazione riguardante i reati associativi, sono stati esposti gli elementi probatori, sulla base dei quali si ritiene provata la partecipazione

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dell’imputata al sodalizio criminoso denominato prima N.C.C. e poi B.R.-P.C.C. Sono state sottolineate, tra l’altro, le circostanze relative al possesso del cellulare 338/9760233 ed alla locazione dell’appartamento di Cerveteri. Con riferimento specifico all’imputazione di omicidio, debbono evidenziarsi le risultanze dei documenti tratti dal materiale informatico sequestrato a Roberto Morandi, decriptati grazie alla “password” fornita da Cinzia Banelli. Il “file” denominato “PDT1LC.DOC” definisce i dettagli operativi dell’azione D’Antona e contiene alcune indicazioni riguardanti una militante cui è stata assegnata la sigla “VT”. In particolare, nel documento si leggono i seguenti passi: <<VT con V: Per VT telefonata da parte di V entro le ore 15,00 alla scheda d’o. n. … Con messaggio da definire tra V e VT (Il messaggio è di due tipi uno per effettuare l’incontro in caso di reiterazione o esito positivo, uno per effettuare l’incontro sia per motivi di sicurezza che per motivi di lavoro). Recupero tra VT e altri elementi S.C. Recupero tra VT ed elemento di rete per eventuale impiego con funzioni di supporto: Recupero strategico per A) con VT il giorno successivo all’azione 20 21 22 LGPRE, il giorno dopo ancora e poi ogni giorno della settimana corrispondente a quello dell’azione allo stesso posto e alla stessa ora>>. <<Comunicazioni di avviso su esito dell’iniziativa a LU e VT. Recupero tra loc. A) e B) e mil, ed eventuale consegna dotazioni. Nel caso la reiterazione preveda una pausa di 2 gg. in serata verso le 21,00 si organizza la sostituzione del furgone B) con i fiorini, sostituzione che coinvolge gli elementi A) e B) della sq. op. off. e le staffette A) e B)>>. Da questi passi si evince che, entro le ore 15 del giorno dell’omicidio, il militante “V” (sigla da attribuirsi sicuramente a Laura Proietti) doveva fare una telefonata al militante “VT” ad un’utenza “di organizzazione” (indicata con l’abbreviazione “scheda d’o.”). Analizzando il traffico delle 46 S.T.P. entrate in contatto con telefoni “di organizzazione” si è accertato che il 20 maggio 1999, alle ore 11,01, la scheda n. 01.60.109.63324, sicuramente appartenente alla Proietti, ha chiamato l’utenza 338/9760233; e che in quel giorno la stessa scheda non ha contattato altre utenze “di organizzazione”. Si è accertato, inoltre, che la scheda n. 01.60.043.43589, attribuita sempre alla Proietti, ha contattato il suddetto cellulare, con le ultime tre cifre 233, anche nei due giorni precedenti (nei quali si sarebbe dovuto consumare il delitto, poi rinviato) e precisamente alle ore 10,34 del 18 e alle ore 12,03 del 19 maggio. Nel citato documento vi è poi un altro passo, del seguente tenore: <<LU1 con forze di S.C. Per LU1 a tel. proprio numero nel I cassetto dell’ingresso con il messaggio da inviare (Il messaggio indica una reiterazione, un esito positivo e una richiesta d’incontro). Per LU1 alle 18,00 in base A) fino alle 19,00. In caso

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di assenza di elementi di S.C. e di messaggi, recupero strategico con forze presenti all’azione e altro resp. log. per organizzare gestione ripiegamento e smobilitazione>>. Da questo passo si può desumere che il militante “LU1” (identificato, come si è detto, nel Mezzasalma) doveva trattenersi nella base principale (verosimilmente nell’appartamento di via Maia) e, nel caso di mancato ritorno degli elementi della “sede centrale” (cioè della Lioce e del Galesi) doveva effettuare un “recupero” con l’altro responsabile logistico (“altro resp. log.”) per organizzare il “ripiegamento e la smobilitazione” (utilizzando presumibilmente un’altra base a disposizione dell’associazione). L’esame combinato di tali risultanze ha fatto ritenere al pubblico ministero che Federica Saraceni fosse la militante indicata con la sigla “VT” e fosse “l’altro responsabile logistico”, avendo preventivamente preso in locazione l’appartamento di Cerveteri (proprio per far fronte alle eventuali esigenze di ripiegamento e di fuga degli autori dell’omicidio), avendo la disponibilità del cellulare “233” (dato come recapito al locatore del suddetto appartamento), avendo ricevuto su tale utenza le telefonate della Proietti (che dovevano servire per comunicarle l’esito dell’azione ed avvertirla della eventuale necessità di utilizzare l’appartamento di Cerveteri) ed avendo ricevuto il compito di effettuare “recuperi strategici” con il Mezzasalma e con i componenti della “sede centrale”. Questa tesi accusatoria, ad avviso della Corte, non risulta fondata su elementi probatori certi, non potendo escludersi ipotesi alternative. Per quanto riguarda la locazione dell’appartamento di Cerveteri sono state esposte le ragioni per le quali non può darsi credito alle dichiarazioni difensive rese dall’imputata. L’affermazione dell’inattendibilità della versione fornita in merito a quella locazione consente, peraltro, di ritenere dimostrato soltanto che la Saraceni ha agito per conto dell’associazione nella quale era già da tempo inserita. Non può, invece, sostenersi con eguale sicurezza che l’appartamento dovesse servire proprio per far fronte alle esigenze degli autori dell’omicidio D’Antona, dato che ciò non risulta esplicitamente da alcun passo dei documenti tratti dal materiale informatico in sequestro. In ogni caso, non può darsi per pacifico che l’imputata fosse stata messa al corrente dai vertici dell’organizzazione dei motivi esatti per i quali era stato deciso di acquisire la disponibilità di una seconda sede logistica e che fosse effettivamente consapevole di un diretto collegamento con l’azione omicidiaria, tenuto anche conto che le trattative con il Rizzo per la locazione dell’immobile sono state svolte nel marzo del 1999 e cioè due mesi prima dell’esecuzione dell’attentato e che la Saraceni non rivestiva certamente un ruolo di rilievo nell’ambito dell’associazione.

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D’altra parte, la tesi dell’accusa, secondo cui la sigla “VT” deve essere attribuita alla Saraceni, è essenzialmente basata sul presupposto che il giorno dell’omicidio e nei due giorni precedenti l’imputata fosse realmente in possesso del cellulare “233”, che ha ricevuto (nella seconda parte della mattinata) le chiamate da schede telefoniche appartenenti a Laura Proietti. Questo fondamentale presupposto, peraltro, non può considerarsi acclarato, dato che la Saraceni ha ammesso di aver avuto il possesso di quel cellulare soltanto per pochi giorni, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 1999, e di averlo nuovamente avuto, per un altro periodo, tra il luglio e il settembre dello stesso anno. Ha reiteratamente e decisamente negato, invece, di averne avuto la disponibilità nel periodo intermedio e, in particolare, durante il mese maggio (e cioè nella fase cruciale dell’iniziativa D’Antona); e così anche nel periodo precedente (durante il quale si è svolta l’inchiesta per l’omicidio e il “233” risulta essere stato contattato da diverse S.T.P.). Questa versione non può essere considerata senz’altro inattendibile, poiché non ha trovato smentita nelle risultanze dei tabulati relativi al traffico telefonico della suddetta utenza. Dall’esame di questi tabulati è emerso, infatti, che il cellulare “233”, nel corso del 1999, è entrato in contatto con telefoni riferibili a Francesco Rizzo, esclusivamente il 26, il 27 e il 31 marzo, il 2 aprile, il 3 luglio e il 23 settembre. Nel periodo tra il 2 aprile e il 3 luglio (che comprende ampiamente la fase centrale dell’operazione omicidiaria), quindi, non sono intercorse telefonate tra il Rizzo e l’imputata. Di conseguenza, non può escludersi che il cellulare fosse stato restituito effettivamente alla Proietti, anche non volendo attribuire un peso probatorio alle dichiarazioni spontanee che quest’ultima ha reso (confermando l’assunto della Saraceni) nel separato procedimento svoltosi a suo carico con il rito abbreviato. A favore dell’imputata, deve anche considerarsi che, secondo quanto è stato riferito in dibattimento dal teste Alessandro Giacopini (ud. 7.6.05, p. 2 ss.), nel periodo tra il settembre 1998 e i primi di luglio del 1999, ha lavorato come baby-sitter dalle 8,30 alle 14 di tutti i giorni (tranne il sabato e la domenica) e si è assentata solo due o tre volte durante tutto l’arco del rapporto lavorativo; e nello stesso periodo era anche impegnata nello studio, dovendo prepararsi per un concorso per l’insegnamento nella scuola materna. Il che significa che era piuttosto limitato il tempo che avrebbe potuto dedicare all’attività dell’associazione eversiva. Nessun rilievo può attribuirsi, infine, al contenuto delle due conversazioni telefoniche intercettate, intercorse tra Daniele Bernardini e Monica D’Aversa e tra lo stesso Bernardini e Luigi Saraceni ed aventi per oggetto il motorino di proprietà dell’imputata. A questo riguardo deve integralmente richiamarsi ciò

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che si è detto trattando la posizione di Alessandro Costa con riferimento ai reati associativi. Per le considerazioni sin qui esposte, risultando insufficienti gli elementi probatori acquisiti, deve assolversi Federica Saraceni dalle imputazioni enunciate ai capi b), c), d) ed e), ai sensi dell’art. 530 c.p.p.

C) I reati accertati in occasione dell’omicidio Petri.

La mattina del 2 marzo 2003, come si è detto, si è verificato l’episodio che è risultato determinante ai fini delle indagini relative alle B.R-P.C.C. ed all’omicidio D’Antona e che ha però causato la tragica morte dell’agente Emanuele Petri. Sul treno n. 2304, partito dalla stazione di Roma-Tiburtina e diretto a quella di Firenze-S.Maria Novella, nei pressi di Arezzo, c’è stato un conflitto a fuoco tra una pattuglia della Polizia ferroviaria e due viaggiatori, identificati per Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce (testi Di Fronzo e Fortunato, ud. 12.5.05, p. 18 ss. e 22 ss.).. I due avevano esibito all’agente Petri carte di identità, sulle quali erano state apposte le loro fotografie, le false generalità di Domenico Marozzi e di Rita Bizzarri e il timbro contraffatto del Comune di Roma. Questi documenti erano stati falsificati, utilizzando moduli in bianco che erano stati sottratti il 10 marzo del 1999 presso gli uffici del Comune di Casape, un paese in provincia di Roma (teste Gabrielli, ud. 16.3.05, p. 140 ss.). Altri moduli provenienti dallo stesso furto sono stati successivamente rinvenuti nella cantina di via Montecuccoli (teste Tintisona, ud. 31.3.05.22). Nella sparatoria, nel corso della quale sono rimasti uccisi sia il Petri che il Galesi, quest’ultimo ha fatto uso di una pistola Beretta mod. 70 cal. 7,65, con matricola abrasa, che era in suo possesso e che è stata sequestrata, con il relativo munizionamento (teste Dalpiaz, ud. 12.5.05, p. 7 ss.). Nell’episodio Nadia Desdemona Lioce ha svolto una parte attiva, intervenendo a sostegno dell’azione del Galesi (che aveva puntato la pistola contro il Petri) e cercando di impossessarsi della pistola di ordinanza del Di Fronzo. Sulla base di tali risultanze, risulta pienamente provata la responsabilità della Lioce (in concorso con il Galesi), in ordine ai reati contestati ai capi f), g) e h)

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della rubrica, riguardanti la ricettazione del modulo della carta di identità, la falsificazione dello stesso documento (recante la sua fotografia con le false generalità di Rita Bizzarri e il timbro contraffatto del Comune di Roma) nonché il porto e la detenzione della pistola con la matricola abrasa; reati tutti aggravati dalla finalità di eversione dell’ordine democratico. Nessun dubbio può essere posto, infatti, sulla sussistenza dell’elemento soggettivo di tali reati, considerando che sia la Lioce che il Galesi erano in stato di clandestinità ed avevano quindi bisogno di documenti falsi e di armi per tenere nascosta la loro identità e per svolgere la loro attività eversiva.

D) La detenzione di esplosivo, detonatori e bombe a mano.

Nel corso della perquisizione eseguita presso la cantina di via Montecuccoli, sono stati sequestrati, tra le varie altre cose, 38 chilogrammi di esplosivo, oltre 200 detonatori e due bombe a mano (teste Giannini, ud. 11.4.05, p. 95 s.). Tale circostanza è attestata dal verbale di sequestro acquisito agli atti. Cinzia Banelli (ud. 2.10.04, p. 75 ss. e ud. 9.5.05, p. 209 ss.) ha riferito di essersi recata, in compagnia del Morandi e su incarico del Galesi, a Roccascalegna in Abruzzo, per prendere diversi detonatori che il padre del Di Giovannangelo aveva lasciato da molto tempo nel solaio di un casolare abbandonato. Lo stesso Di Giovannangelo (che era originario di quel paese), dopo avere da lei appreso che quei detonatori potevano risultare utili per l’attività dell’associazione, le aveva indicato il luogo dove avrebbe potuto trovarli. I detonatori, benché ricoperti di vari strati di polvere, erano ancora in buono stato e funzionanti. Dopo essere stata arrestata, nel vedere le immagini di un telegiornale, aveva notato e riconosciuto, tra le cose sequestrate, i contenitori di plastica che le erano serviti per trasportare i detonatori da Roccascalegna a Roma. Queste precise e dettagliate dichiarazioni sono risultate pienamente attendibili, essendo state puntualmente confermate dal Di Giovannangelo in sede dibattimentale (ud. 6.6.05, p. 265). Del reato enunciato al capo i), riguardante la detenzione e il porto del materiale esplosivo, dei detonatori e delle bombe a mano, devono essere ritenuti responsabili gli imputati Lioce, Mezzasalma, Blefari Melazzi, Morandi, Boccaccini, Broccatelli e Di Giovannangelo. Nadia Desdemona Lioce e Roberto Morandi ne devono rispondere in quanto, come componenti della “sede centrale” erano al massimo grado dirigenziale e hanno partecipato, quanto meno a livello decisionale, a tutta

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l’attività dell’associazione; e, in particolare, hanno preso parte agli attentati indicati nel capo l), nei quali sono stati utilizzati esplosivi. Il Morandi ha anche provveduto, insieme alla Banelli, a prelevare i detonatori dal casolare di Roccascalegna ed a trasportarli a Roma. Bruno Di Giovannangelo deve rispondere a titolo di concorso nella detenzione e nel porto dei detonatori, in quanto, per sua stessa ammissione, ha fornito alla Banelli le indicazioni necessarie perché gli stessi fossero messi a disposizione dell’associazione per essere impiegati in attività eversive. In base agli elementi probatori acquisiti, è da considerare pacifica la colpevolezza degli altri quattro imputati. Marco Mezzasalma e Diana Blefari Melazzi, infatti, hanno sicuramente partecipato al trasporto del materiale dell’organizzazione (comprendente quindi l’esplosivo, i detonatori e le bombe a mano) dal magazzino della “Easy box” (preso in locazione dal Mezzasalma) alla cantina di via Montecuccoli (presa in locazione dalla Blefari Melazzi), tenuto anche conto che le loro immagini sono chiaramente visibili nelle registrazioni dell’impianto di video-sorveglianza installato nel suddetto magazzino. Simone Boccaccini, secondo quanto risulta alle dichiarazioni della Banelli e da alcuni “files” decriptati, ha partecipato all’attività di “smobilizzo” del materiale dell’organizzazione (successivamente trasferito in via Montecuccoli) dall’appartamento di via Maia al locale-deposito della “Easy box”, utilizzando il nome operativo Andrea, il nome di battaglia Carlo e la sigla “CO”. A questo riguardo debbono richiamarsi le argomentazioni esposte nella parte relativa ai reati associativi. Paolo Broccatelli, infine, va ritenuto responsabile, a titolo di concorso, in quanto aveva libero accesso al “covo” di via Montecuccoli (dove si trovavano i detonatori, l’esplosivo e le bombe), dato che al suo interno sono state rilevate ben 31 impronte digitali a lui appartenenti. Lo stesso imputato, inoltre, ha dato sicuramente la propria disponibilità a partecipare alla suddetta attività di “smobilizzo” del materiale dell’organizzazione, posto che dal relativo documento di pianificazione risulta che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di “staffetta” con il nome di battaglia Beppe e che è stato poi sostituito per motivi di sicurezza, perché si era scoperto che era sottoposto a servizi di osservazione e pedinamento da parte di forze di polizia. Ritiene, invece, la Corte che, nei confronti di Roberto Badel, non siano stati acquisiti concreti elementi probatori. L’ipotesi accusatoria era fondata sul presupposto che l’imputato facesse parte dell’associazione eversiva e fosse in stretto contatto con i suoi organi dirigenti e che, di conseguenza, avesse accesso al “covo” di via Montecuccoli, ove erano custoditi l’esplosivo, i detonatori e le bombe a mano.

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Tale presupposto è venuto meno, in quanto non è stato sufficientemente provato il concorso del Badel nei reati associativi. Lo stesso pubblico ministero, all’esito del dibattimento, ha chiesto l’assoluzione dell’imputato e in tal senso si deve pronunciare questa Corte, in applicazione del comma 1 dell’art. 530 c.p.p.

E) Gli attentati rivendicati con le sigle N.I.P.R. e N.P.R.

Dell’attentato ai danni della sede della C.I.S.L. di via Tadino a Milano ha parlato diffusamente la Banelli (ud. 1.10.04, p. 116 ss.), riferendo che, con questa azione “non disarticolante”, l’organizzazione si prefiggeva un doppio obiettivo: quello di attaccare il progetto del “Patto per l’Italia” (cui avevano partecipato anche i sindacati) e quello di rafforzare e addestrare il corpo militante. Questa iniziativa offensiva è stata attuata dal gruppo toscano (che per la prima volta agiva unito, sotto la guida del Galesi) e deliberata d’intesa con la “sede centrale”. All’esecuzione dell’attentato la Banelli ha partecipato personalmente, insieme al Galesi e al Morandi. Il Galesi ha provveduto alla preparazione dei due ordigni incendiari (costituiti da taniche riempite di liquido infiammabile e nascosti in due finte fioriere di plastica) e dell’innesco (ritardato tramite un normalissimo “timer”) e al loro trasporto a Milano. La stessa Banelli ha acquistato le fioriere e il “timer” e, insieme al Morandi, ha prelevato dal bauletto di una Vespa (parcheggiata dal Galesi nei pressi della sede della C.I.S.L.) gli ordigni e li ha collocati sul davanzale di una finestra. La Lioce e il Galesi hanno poi redatto il documento di rivendicazione, con la sigla N.P.R., decidendo di non utilizzare la sigla dell’organizzazione (B.R.-P.C.C.), poiché non si trattava di una iniziativa di “livello strategico”. Tali dichiarazioni hanno trovato riscontro nei rilievi eseguiti dalla polizia giudiziaria sul luogo degli attentati e nelle deposizioni dei testi Mariotti (ud. 28.4.05, p. 5), Fabrizio (ud. 12.5.05, p. 2 ss.) e Macilenti (ud. 12.5.05, p. 39). La Banelli (ud. 1.10.04, p. 144 ss.) non è stata in grado di riferire i nomi degli autori materiali degli attentati alle sedi della Commissione per l’attuazione

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della legge sullo sciopero in via Po e dell’Istituto Affari Internazionali di via Brunetti a Roma, ma ha solo precisato che sono stati compiuti dal gruppo romano, senza la partecipazione di quello toscano: la prima iniziativa rientrava sempre nella logica della contestazione alla politica governativa nella materia del lavoro, mentre la seconda affrontava le tematiche della politica internazionale. Per l’attentato alla sede dello I.A.I. di via Brunetti sussistono indubbiamente gli estremi per la configurazione del reato di devastazione previsto dall’art. 285 c.p. Dalle deposizione dei testi Giannini (ud. 14.3.05, p. 165 s.), Mariotti (ud. 28.4.05, p. 6 ss.), Macilenti (ud. 12.5.05, p. 40) e Bonvicini (ud. 24.5.05, p. 78 ss.) e dai verbali della polizia giudiziaria risulta, infatti, che nell’occasione è stato usato un ordigno ad alto potenziale, dotato di una indiscriminata potenzialità distruttiva. I danni provocati dall’esplosione sono stati rilevanti, ma avrebbero potuto essere maggiori se la carica avesse avuto una reazione chimica completa. L’intento degli autori era indubbiamente quello di attentare alla sicurezza dello Stato, causando danni di estrema gravità, con gli effetti propri della devastazione. Dell’imputazione di cui al capo l), con riferimento a tutti e tre gli attentati, deve essere dichiarata responsabile Nadia Desdemona Lioce, in quanto era una componente della “sede centrale” e, in tale sua qualità, ha partecipato certamente prima alla decisione ed alla pianificazione e poi alla stesura del documento di rivendicazione. Deve affermarsi, inoltre, la responsabilità di Roberto Morandi in ordine all’episodio di via Tadino a Milano, essendosi dimostrata, in base alle dichiarazioni della Banelli, la sua diretta partecipazione alla fase esecutiva. Gli elementi acquisiti a carico di Marco Mezzasalma non appaiono, invece, sufficienti per una pronuncia di condanna. Il suo ruolo dirigenziale nell’ambito dell’organizzazione fa ritenere probabile che abbia partecipato alla fase decisionale delle suddette iniziative e, in particolare, a quelle attuate dal gruppo romano. Nessuna indicazione precisa è però emersa dalla deposizione della Banelli né da altre risultanze processuali; è da ritenere, pertanto conforme a giustizia una sentenza assolutoria ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p.

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F) Il danneggiamento all’agenzia di lavoro interinale di via Mariti a Firenze.

In merito all’attentato incendiario compiuto ai danni dell’agenzia di lavoro interinale “Obiettivo Lavoro”, sita in via Mariti a Firenze, ha deposto Cinzia Banelli (ud. 9.5.05, p. 8 s.), riferendo di avervi partecipato personalmente insieme a Roberto Morandi ed a Mario Galesi. La Banelli ha anche precisato che il militante conosciuto con il nome di battaglia Carlo (attribuito, come si è detto, a Simone Boccaccini), pur essendo un componente del gruppo fiorentino (cui era stata affidata la responsabilità dell’operazione) non ha preso parte a questa iniziativa, perché in quel periodo era assente da Firenze. L’attentato incendiario ha provocato danni di non rilevante entità (annerimento delle mura esterne e danneggiamento della struttura della porta di ingresso) ed è stato rivendicato con la sigla N.P.R. (Nucleo Proletario Combattente), sino ad allora sconosciuta (teste Fosssi, ud. 27.4.05, p. 231 ss.). La riconducibilità all’organizzazione delle B.R.-P.C.C. , nonché le ragioni per le quali in questa ed in altre azioni sono state utilizzate sigle diverse, sono state chiarite dalla Banelli, le cui dichiarazioni hanno trovato puntuale riscontro in un documento tratto dal materiale informatico in sequestro. Dalla lettura di questo documento (intitolato “Appunti per un breve lavoro di bilancio politico-militare e organizzativo dell’attacco all’agenzia interinale di Obiettivo Lavoro”) è emerso che l’azione è stata effettivamente compiuta da tre persone, una delle quali era in clandestinità (il Galesi) ed ha ricoperto il ruolo di “staffetta”, avvalendosi di una radio. Il riscontro documentale vale a dare piena credibilità alla chiamata in correità fatta dalla Banelli nei confronti del Morandi. Deve, pertanto, affermarsi la responsabilità di quest’ultimo, in ordine al reato enunciato al capo m) della

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rubrica, aggravato ai sensi dell’art. 1 della legge n. 15 del 1980, essendosi accertate le finalità eversive perseguite dagli autori. A norma dell’art. 530 comma 1 c.p., invece, va assolto dalla stessa imputazione Fabio Viscido, per mancanza di prove. L’unico elemento indiziario acquisito a carico del Viscido è rappresentato dal rinvenimento, presso la sua abitazione, di un’agenda, sulla quale erano annotate, alla data del 30 luglio 2001, le parole “Obiettivo Lavoro torna in via Gello”. Tale circostanza ha fatto sorgere negli inquirenti il sospetto che egli avesse partecipato all’attività di “inchiesta” per la preparazione dell’attentato, considerando che non potesse trattarsi di un appunto spiegabile con un’intenzione di rivolgersi a quell’ufficio per cercare per sé o per altri un lavoro, poiché in tal caso sarebbe stato annotato l’indirizzo vigente e non quello futuro dell’agenzia. L’ispettore Fossi ha esplicitamente escluso che siano stati raccolti altri elementi a carico dell’imputato. Un semplice sospetto non può essere posto a fondamento di una pronuncia di condanna e non avrebbe dovuto giustificare neppure il rinvio a giudizio (tenuto anche conto che lo stesso pubblico ministero aveva chiesto il proscioglimento in sede di udienza preliminare).

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G) La rapina all’ufficio postale di Mezzana e i reati connessi.

L’episodio della rapina all’ufficio postale di Mezzana è stato ricostruito in base alle precise e circostanziate dichiarazioni di Cinzia Banelli (ud. 9.5.05, p. 24 e 115 ss.; ud. 1.10.04, p. 37 ss.). L’esecuzione della rapina è stata preceduta da una approfondita attività di “inchiesta” che è consistita nello studio di tutto il territorio, delle vie di avvicinamento e di fuga, del percorso e degli orari del furgone che doveva trasportare dall’ufficio centrale di Pisa a quello di Mezzana la posta normale ed i pacchi contenenti il denaro e gli altri valori (identificabili dalla presenza di appositi tagliandi). Le notizie, in merito all’esatto percorso che doveva seguire il furgone, alle date in cui dovevano essere effettuati i pagamenti delle pensioni, al numero degli impiegati ed alle caratteristiche dei tagliandi identificativi dei sacchi con i valori, sono state fornite dal Di Giovannangelo, il quale (insieme al Galesi ed alla Banelli) ha partecipato anche alle prove, svolte con l’utilizzazione di apparecchi radio ricetrasmittenti. Nell’operazione sono state impiegate due “staffette”, composte dalla stessa Banelli e dal Morandi, i quali avevano il compito di segnalare alla squadra offensiva l’avvicinarsi del furgone. E’ stata anche usata un’autovettura Fiat Uno, che i due suddetti militanti avevano precedentemente rubato a Firenze e trasportato a Pisa. La squadra offensiva, composta dal Galesi e da due militanti del gruppo romano, ha prelevato il furgone e si è allontanata dall’ufficio postale, percorrendo un breve tragitto. I sacchi con i valori sono stati quindi caricati nel bagagliaio dell’autovettura privata della Banelli, che nel frattempo (dopo aver esaurito il compito di

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“staffetta”) si era posta in attesa in un punto prestabilito. I tre componenti della “squadra offensiva” si sono poi allontanati con delle biciclette. La Banelli, invece, si è recata a Ghezzano, dove ha lasciato la propria auto e, con un autobus, è andata a lavorare presso l’Ospedale di Pisa. Verso le ore 12,30, ha recuperato dal bagagliaio i sacchi con i valori (che erano stati riposti in un grande borsone, insieme alle armi usate nella rapina) ed è andata in taxi a Viareggio, dove era ad attenderla il Morandi. Insieme a quest’ultimo (che fungeva da scorta e da copertura) ha poi raggiunto Roma, dove si è incontrata, alla fermata “Ottaviano” della metropolitana, con il Galesi e la Lioce, ai quali ha consegnato il borsone con il denaro e le armi. La rapina di Mezzana non è stata in alcun modo rivendicata e soltanto con le rivelazioni della Banelli si è potuto accertare che era stata commessa, a scopo di autofinanziamento, dall’organizzazione, che all’epoca agiva ancora con la denominazione N.C.C. (Nuclei Comunisti Combattenti). Inequivocabili conferme si sono poi avute con il rinvenimento, presso il “covo” di via Montecuccoli, di alcuni oggetti provenienti dalla rapina: i sacchi con il logo delle Poste italiane; i cartellini dei dispacci speciali contenenti i valori, con i relativi piombi (punzonati la sera prima della rapina); quattro “speaker microphone” di marca “Lafayette”, compatibili con la radio “scanner” trovata all’interno dell’autovettura Fiat Uno utilizzata dai rapinatori (teste Coppola, ud. 24.5.05, p. 22 ss.). In dibattimento il Di Giovannangelo ha riconosciuto, come provenienti dalle Poste di Pisa, i cartellini dei pacchi portavalori. Le precise dichiarazioni della Banelli, inoltre, hanno trovato riscontro nelle deposizioni delle persone che hanno assistito alla rapina. Verso le ore 7,30 del 13 maggio 1998, la portalettere Marta Di Paco (ud. 26.5.05, p. 9 ss.), mentre si stava recando al lavoro, ha notato un’autovettura Fiat Uno, con tre giovani a bordo, in sosta a circa 20-30 metri dall’ufficio postale di Mezzana. Appena arrivato il furgone postale, è andata incontro all’autista Fabrizio Innocenti per aiutarlo a scaricare i pacchi. Subito dopo ha sentito “sgommare” ed ha visto la Fiat Uno che si poneva di traverso, con le portiere aperte, in modo da ostruire la strada. Ha anche visto un giovane , con la barba o i baffi finti, che minacciava l’Innocenti con una pistola e saliva sul furgone, impossessandosene ed allontanandosi con lo stesso insieme a due complici. L’autista Innocenti (ud. 26.5.05, p. 22 ss.), mentre stava scendendo dal furgone, si è sentito puntare contro una pistola da un giovane sui trenta anni di età, alto circa mt. 1,75, il quale ha intimato di consegnargli le chiavi del veicolo e lo ha costretto a mettersi vicino ad un muro insieme all’altro impiegato postale, che era con lui sul furgone. Contemporaneamente ha visto arrivare una Fiat Uno, che si è posta in mezzo alla strada con le portiere aperte. Il

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conducente di questa auto (della stessa altezza del primo, un po’ più magro e con il volto scavato e gli zigomi sporgenti) è salito a bordo del furgone e si è allontanato con lo stesso, insieme ai complici. Le indicazioni fornite dai due testimoni oculari corrispondono, per quanto riguarda la dinamica e le modalità del fatto, il numero dei rapinatori e l’autovettura usata, alla dettagliata ricostruzione fatta dalla Banelli. Dalle indagini svolte dalla polizia giudiziaria è emerso che l’autovettura Fiat Uno era stata effettivamente oggetto di furto, commesso a Firenze alcuni giorni prima della rapina e precisamente il 5 maggio 1998 ai danni del proprietario Fabrizio Burrini (teste Fossi, ud. 26.5.05, p. 191). Sulla base di queste risultanze, deve ritenersi pienamente provata, in ordine alla rapina, al porto e detenzione delle armi e al furto dell’autovettura, la responsabilità degli imputati Lioce, Morandi e Di Giovannangelo. Nadia Desdemona Lioce, secondo quanto precisato dalla Banelli, non ha partecipato materialmente all’esecuzione della rapina, per motivi di sicurezza, essendo molto conosciuta nella zona di Pisa. Ha però sicuramente contribuito alla ideazione ed alla programmazione dell’iniziativa, dato che faceva parte, insieme al Galesi, della “sede centrale”. D’altra parte, è intervenuta personalmente nella fase finale dell’operazione, presentandosi a Roma, con lo stesso Galesi, all’appuntamento con la Banelli, per prendere in consegna il borsone contenente la refurtiva e le armi. Roberto Morandi ha preso parte attivamente alle varie fasi, dato che ha provveduto a rubare la Fiat Uno ed a trasportarla da Firenze a Pisa, ha svolto il ruolo di “staffetta” nei pressi dell’ufficio postale di Mezzana ed ha accompagnato la Banelli in treno da Viareggio a Roma per la consegna del borsone ai due dirigenti dell’organizzazione. Bruno Di Giovannangelo, infine, avvalendosi delle conoscenze acquisite in virtù della sua attività di impiegato delle Poste nella provincia di Pisa, ha fornito informazioni (certamente indispensabili per l’attuazione del progetto criminoso) sul percorso del furgone, sulle date dei pagamenti delle pensioni e sulle caratteristiche dei cartellini identificativi dei sacchi con il denaro ed i valori; ed ha anche partecipato alle prove effettuate con le radio nella zona ove era ubicato l’ufficio postale. In sede di esame (ud. 6.6.05, p. 167 ss.), il Di Giovannangelo, dando ulteriore riscontro alla versione della Banelli, ha reso dichiarazioni sostanzialmente confessorie, ammettendo di aver dato alla sua referente un elenco con i percorsi di alcuni furgoni e un modellino dei tagliandi dei dispacci speciali, di aver ricevuto dalla stessa Banelli uno scanner (con il compito di ricercare le frequenze degli organi di polizia) e di aver partecipato alle prove radio prima della rapina (con il nome di battaglia Matteo e la sigla “MT”).

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Deve quindi rispondere, a titolo di concorso, dei reati sopra indicati, dei quali ricorrono certamente gli elementi oggettivi e soggettivi richiesti dalle rispettive norme incriminatrici. Dagli stessi reati, invece, vanno assolti, ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p., Marco Mezzasalma e Paolo Broccatelli, nei confronti dei quali nessuna precisa accusa è stata rivolta dalla Banelli (che ha affermato di non aver avuto modo di conoscere né di vedere i due militanti che avevano fatto parte della “squadra offensiva” insieme al Galesi). A carico di questi due imputati l’accusa ha indicato le seguenti circostanze: entrambi facevano parte del gruppo romano e non correvano quindi il rischio di essere riconosciuti nella zona di Pisa; entrambi erano conosciuti dal Galesi e potevano quindi far parte con lui della “squadra offensiva”, non essendoci problemi derivanti dalle regole di compartimentazione; entrambi non erano conosciuti dalla Banelli; entrambi erano assenti dai rispettivi posti di lavoro il giorno della rapina; il Broccatelli ha dei tratti somatici compatibili con quelli che il teste Innocenti ha descritto con riferimento ad uno dei rapinatori. Questi elementi hanno indubbiamente un valore indiziante, ma non sono dotati di univocità e gravità sufficienti per una pronuncia di condanna. Invero, la circostanza che fossero romani e che fossero conosciuti dal Galesi e non dalla Banelli non riguardava soltanto loro, ma sicuramente anche altri militanti del gruppo romano. Il fatto che fossero assenti dal posto di lavoro può avere un peso determinante solo se accompagnato da altri elementi di maggior valore, che nel caso di specie, invece, non sono stati acquisiti. D’altra parte, per il Mezzasalma si è appurato che la sua assenza era giustificata dal fatto che aveva subito da poco tempo un’operazione alle emorroidi (con ricovero ospedaliero dall’1 al 7 maggio 1998) e si trovava in uno stato di convalescenza poco compatibile con un’azione criminosa del tipo di quella che gli è stata contestata. E il fatto che il 13 maggio non si sia recato di persona a ritirare il certificato medico per il prolungamento della malattia (rilasciato dal sanitario senza la prescritta visita) non può essere considerato decisivo, poiché queste illecite prassi sono spesso seguite dai “medici della mutua”. Infine, le caratteristiche somatiche di uno dei rapinatori sono state descritte in modo troppo vago e generico e sono state accompagnate da un’indicazione dell’altezza che non corrisponde affatto a quella del Broccatelli

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H) La rapina all’ufficio postale di Siena e i reati connessi.

Cinzia Banelli (ud. 9.5.05, p. 136 ss. e ud. 1.10.04, p. 124 ss.) ha dettagliatamente ricostruito anche questa operazione di autofinanziamento, riferendo in parte quanto da lei stessa osservato e in parte quanto le era stato riferito dal Galesi. L’esecuzione della rapina all’ufficio postale, sito nei pressi di Porta Camollia a Siena, è stata preceduta, per circa un mese, da un’attività di osservazione preliminare, cui hanno partecipato militanti sia del gruppo toscano che di quello romano. Nei dintorni di Firenze è stato rubato un furgone “Fiorino”, che è stato poi trasportato a Siena dalla Banelli, con l’aiuto del Morandi. Su questo automezzo sono stati caricati uno scooter e un ciclomotore “Ciao”, anch’essi rubati nella zona di Firenze da militanti fiorentini, con la collaborazione del Galesi. Uno dei due motocicli è stato sottratto mentre aveva le chiavi inserite nel quadro di accensione. E’ stato scelto l’ufficio postale di Porta Camollia per la facilità dell’operazione, in quanto aveva un’unica porta di servizio, che veniva spesso utilizzata dal personale e dagli addetti alle pulizie. Il Di Giovannangelo non ha dato informazioni specifiche, riguardanti in particolare quell’ufficio postale, ma ha fornito solo indicazioni generiche sulle date in cui si poteva trovare più denaro e sul tipo di cassaforte usata. Il ruolo delle “staffette” è stato ricoperto dalla Lioce, dal Morandi, dalla Banelli, dalla Proietti e dal militante conosciuto con il nome di battaglia Carlo (attribuito al Boccaccini). Nell’ufficio postale sono entrati il Galesi ed un altro militante romano non conosciuto dalla Banelli; entrambi erano armati di pistole. All’uscita dall’ufficio, i due componenti della “squadra offensiva” avrebbero dovuto allontanarsi con uno scooter, ma non ci sono riusciti, perché un

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passante, avendo capito quanto era accaduto, ha cercato di bloccare il Galesi, che stava tentando di avviare il motore. Il militante romano ha anche sparato un colpo di pistola in aria per intimidire il passante. Entrambi sono allora fuggiti a piedi ed hanno raggiunto il furgone, che era parcheggiato ad una certa distanza, con alla guida la Banelli. I due sono saliti sul retro del “Fiorino”, si sono cambiati gli abiti, indossando divise da ciclisti, e si sono allontanati con due biciclette (che erano state parcheggiate nei pressi), lasciando all’interno del furgone un borsone con il denaro (ammontante a circa 300.000.000 di lire), le armi e gli abiti. Mentre compivano queste operazioni, la Banelli non ha potuto vederli, perché la parte anteriore dell’abitacolo del furgone era stata separata da quella posteriore con una tenda scura, in modo che venissero rispettate le regole di compartimentazione (tra la Banelli e il militante romano, da lei non conosciuto). La Banelli ha preso un autobus sino a Sinalunga, dove era ad attenderla la Lioce, alla quale ha consegnato il borsone con la refurtiva e le altre cose; ha poi fatto ritorno in treno a Siena, dove ha ripreso la propria autovettura privata. In serata ha avuto un altro “recupero” con Morandi e Galesi a Firenze, nella zona dello stadio. Il giorno dopo, il militante romano è dovuto tornare a Siena per riprendere il giaccone (con la pistola usata nella rapina), che aveva dimenticato all’interno del furgone. Anche per questo episodio criminoso, le dichiarazioni della Banelli sono da ritenere pienamente attendibili, in quanto hanno trovato conferma nelle risultanze testimoniali e documentali, in ordine alle modalità operative, ai mezzi adoperati, al numero dei partecipanti e all’ammontare della somma sottratta. L’impiegata postale Marta Betti (il cui verbale, redatto dalla polizia giudiziaria, è stato acquisito all’udienza del 21.6.05, sull’accordo delle parti), ha riferito, che mentre stava uscendo dalla porta di servizio dell’ufficio, si era sentita sbattere con violenza di lato ed aveva visto entrare i due rapinatori; ha anche precisato che quel giorno nella cassaforte vi era molto denaro, perché in quel periodo venivano pagate le tredicesime delle pensioni. Il teste Valentino Coccoletti (ud. 26.5.05, p. 33 ss.) ha confermato di aver cercato di fermare uno dei rapinatori che stava per salire su un motorino; quello però gli aveva buttato addosso il motoveicolo ed era fuggito a piedi con un complice, sparando anche un colpo di pistola. Il teste ha riconosciuto in tale Guido Piccilli (che per questo fatto è stato anche condannato in primo grado dal Tribunale di Siena) il rapinatore che egli aveva cercato di bloccare. Su questo punto, peraltro, il Coccoletti non è risultato credibile, poiché le caratteristiche fisiche del rapinatore da lui descritte, non corrispondono affatto a quelle del Piccilli (che è stato sentito come teste alla stessa udienza ed ha negato di essersi trovato quel giorno a Siena): tra l’altro, ha affermato che il rapinatore aveva

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l’aspetto di un “intellettuale di sinistra”, appellativo che può attagliarsi eventualmente al Galesi, ma non certamente al Piccilli. Dalle indagini compiute dalla polizia giudiziaria è emerso che il ciclomotore lasciato sulla strada, nei pressi dell’ufficio postale, era uno scooter Honda, che era stato sottratto, tra il 29 e il 30 settembre, alla proprietaria Gabriella Beltrami, la quale (proprio come ha riferito la Banelli) lo aveva lasciato in sosta su una strada di Firenze, con le chiavi attaccate (teste Marruganti, ud. 26.5.05, p. 97 ss.). Nel “covo” di via Montecuccoli sono stati trovati due biglietti della TIM, riportanti i numeri 339/1815741 e 339/1815747. Sono stati acquisiti i dati relativi al traffico sviluppato da queste utenze e si è così accertato che alle 9,17 del 2 dicembre 1999, e cioè pochi minuti prima della rapina, la prima utenza aveva chiamato la seconda, impegnando celle ubicate in Siena (teste Grassi, ud. 11.5.05, p. 103 ss.). Tale circostanza vale a confermare la riconducibilità dell’azione criminosa all’associazione eversiva B.R.-P.C.C. Il denaro prelevato dalla cassaforte e dai tre sportelli operanti nell’ufficio postale ammontava a lire 320.674.376 di lire (teste Campanella, ud. 6.6.05, p. 43). Sulla base di tali elementi probatori e, in particolare, delle chiamate in correità della Banelli, ampiamente riscontrate, deve affermarsi, in ordine ai reati di rapina, di porto e detenzione di armi comuni da sparo e di furto, con le aggravanti contestate, la responsabilità degli imputati Lioce, Morandi e Boccaccini, essendo stata pienamente provato il loro concorso. Nadia Desdemona Lioce, come componente dell’organo direttivo centrale dell’associazione, ha certamente partecipato alla ideazione ed alla progettazione dell’intera operazione; ha poi ricoperto il ruolo di “staffetta” ed ha preso in consegna dalla Banelli il borsone con la refurtiva e le armi. Roberto Morandi ha partecipato al trasporto del furgone e dei motorini rubati; ha svolto, insieme alla Lioce, alla Proietti, al Boccaccini ed alla Banelli, la funzione di “staffetta” durante la rapina; e si è incontrato la sera stessa a Firenze con il Galesi e con la Banelli, per il “recupero” conclusivo. Simone Boccaccini, al pari degli altri ha partecipato all’operazione, fungendo da “staffetta”, con il nome di Carlo. Le ragioni per le quali questo nome di battaglia va con certezza attribuito allo stesso Boccaccini sono state indicate nella parte relativa ai reati associativi, cui deve farsi rinvio. Sono da ritenere, invece, insufficienti gli elementi probatori acquisiti a carico degli imputati Broccatelli, Mezzasalma e Di Giovannangelo. Per quanto riguarda Paolo Broccatelli, la pubblica accusa ha posto in evidenza il fatto che, nel giorno della rapina all’ufficio postale di Siena, l’imputato era assente dal suo luogo di lavoro, così come lo era stato in

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occasione della rapina all’ufficio postale di Mezzana. Ha poi osservato che in quel periodo l’associazione aveva il grave problema dell’esiguità del numero di militanti ed aveva, quindi, la necessità di impiegare nelle operazioni di “esproprio” tutti quelli che erano disponibili. Tali argomenti non appaiono decisivi e il quadro probatorio si presenta ancora più scarso ed incerto di quello riguardante l’episodio di Mezzana. Analoga è la posizione di Marco Mezzasalma. Oltre all’accertata sua assenza dal posto di lavoro, per ferie, nei giorni 1 e 2 dicembre 1999 (teste Coppola, ud. 24.5.05, p. 30), vi è soltanto una circostanza emersa dall’analisi del traffico delle schede telefoniche entrate in contatto con cellulari “di organizzazione”: alle ore 19 del 2 dicembre 1999 la S.T.P. n. 01.11.199.57517 (attribuita con certezza all’imputato) ha chiamato, da una cabina pubblica sita in piazza S.Maria Novella a Firenze, l’utenza fissa dell’appartamento di via Maia. Secondo l’accusa, l’esistenza di questa telefonata fa ritenere che il Mezzasalma si trovasse a Firenze la sera della rapina per un “recupero” con altri partecipanti all’azione delittuosa. Questa ipotesi, peraltro, non è ancorata ad alcuna risultanza processuale ed è anche in contrasto con la versione fornita dalla Banelli, la quale ha parlato di un “recupero” avvenuto in serata a Firenze con il Morandi ed il Galesi. Per quanto concerne Bruno Di Giovannangelo, deve osservarsi che la Banelli non ha rivolto concrete accuse nei suoi confronti ed ha precisato che per la rapina di Siena, a differenza di quanto era avvenuto per quella di Mezzana, egli si era limitato a fornire informazioni generiche sulle caratteristiche della cassaforte e sulle date in cui era probabile che vi fosse più denaro nell’ufficio postale. L’imputato, dal suo canto, ha ammesso di aver dato quelle generiche indicazioni, ma ha precisato di averlo fatto senza sapere per quale specifica azione dovessero essere utilizzate. Sulla base di questi elementi, non può ritenersi dimostrato il concorso nella rapina e nei reati connessi. Pur dovendosi dare per scontato che il Di Giovannangelo, nel fornire quelle informazioni, si rendesse conto che servivano per qualche attività illecita dell’organizzazione eversiva, non è provato che egli abbia dato un contributo apprezzabile e consapevole alla commissione del reato, mediante un rafforzamento del proposito criminoso o mediante un’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti. Le indicazioni relative alle casseforti, infatti, erano probabilmente superflue, poiché non risulta che una maggiore conoscenza del loro funzionamento, da parte degli autori materiali della rapina, abbia reso più agevole l’impossessamento del denaro. Nel caso di specie, del resto, si è accertato che la cassaforte era collocata in un punto dell’ufficio postale che era visibile

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dall’esterno; è probabile, quindi, che l’attività di “inchiesta” preliminare abbia consentito l’acquisizione delle cognizioni necessarie per garantire comunque il buon esito dell’operazione. La notizia sulle date in cui venivano effettuati i pagamenti delle tredicesime ai pensionati riguardava poi gli uffici postali in genere e non quello di Siena in particolare: il contributo dato dall’imputato non era finalizzato a quella specifica azione ed è rimasto, quindi, nell’ambito del suo rapporto di generica collaborazione e disponibilità nei confronti dell’organizzazione. L’esistenza di questo rapporto è già stata valutata con riferimento ai reati associativi e, in mancanza di contributi diretti alla realizzazione di una specifica azione, non può essere considerata sufficiente per affermare la responsabilità del Di Giovannangelo in ordine a tutte le rapine compiute dall’associazione ai danni di uffici postali. Per tali considerazione, gli imputati Broccatelli, Mezzasalma e Di Giovannangelo vanno assolti dalla rapina di Siena e dai reati connessi, ai sensi del comma 2 dell’art. 530 c.p.p.

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I) La rapina all’ufficio postale di via Torcicoda a Firenze e i reati connessi.

Anche in relazione a questo episodio criminoso, deve attribuirsi rilevanza alle dichiarazioni rese dalla Banelli in sede di incidente probatorio e in dibattimento (ud. 9.5.05, p. 165 ss. e ud. 2.10.04, p. 5 ss.). La rapina all’ufficio postale di via Torcicoda a Firenze è stata preceduta, come le altre, da una “inchiesta” sul territorio, comprendente prove radio e prove generali. A questa attività preliminare ha partecipato, con il nome operativo Barbara, anche la Banelli, sia pure con minore assiduità, a causa degli impegni di lavoro. A questo “esproprio”, hanno preso parte militanti sia romani che toscani, poiché si è trattato di un’operazione “centralizzata”. Il Di Giovannangelo ha fornito alla Banelli generiche informazioni sulle nuove stanze blindate, che erano state installate negli uffici postali, in sostituzione delle normali casseforti. La rapina è stata programmata per i primi di gennaio del 2003, ma ha subito vari rinvii. La mattina del 3 gennaio la Banelli si è recata nella zona di via Torcicoda a Firenze per il “preappello”, ma non ha trovato nessuno. Dopo mezz’ora di attesa, si è presentato il Morandi, il quale le ha comunicato che l’operazione doveva essere rinviata al giorno successivo, a causa del cattivo funzionamento del motorino che doveva essere utilizzato dal Galesi. Il 4 gennaio, invece, la Banelli non si è presentata all’appuntamento, avendo deciso di non partecipare più all’attività dell’organizzazione, perché in disaccordo con i rinvii e con la gestione che era stata fatta delle forze a disposizione (già nel mese di dicembre aveva chiesto agli organi direttivi di non essere impiegata in quell’azione, non potendo assentarsi dal lavoro, ma aveva ricevuto un rifiuto). L’operazione era stata pianificata nel senso che i ruoli delle “staffette” dovevano essere ricoperti dalla Banelli e dai militanti Carlo (con il nome operativo Andrea) e Ugo (con la sigla “LU”); quest’ultimo doveva avere uno

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“scanner” per ascoltare le comunicazioni radio delle forze di Polizia e per capire se stessero arrivando nel momento in cui la rapina era in corso. La “squadra offensiva” doveva essere composta dalla Lioce, dal Galesi, dal Morandi e dalla militante Maria (con la sigla MRT). La Banelli non ha più partecipato all’esecuzione della rapina ed ha poi appreso dal Galesi che l’operazione era stata ugualmente compiuta e che era stata decisa la sua espulsione dall’organizzazione. Leggendo i documenti tratti dal materiale informatico, si è potuto constatare che il suo posto era stato preso dal militante con il nome operativo Beppe. Le dichiarazioni della Banelli hanno trovato diversi riscontri nelle risultanze delle indagini compiute dalla polizia giudiziaria, nelle deposizioni testimoniali e nella documentazione in sequestro. Si è accertato (testi: Grassi, ud. 11.5.05, p. 32 ss.; Fossi, ud. 26.5.05, p. 195 ss.), infatti, che la mattina del 6 febbraio 2003, nell’ufficio postale di via Torcicoda, sono entrate quattro persone (due uomini e due donne) armate con pistole ed un mitra, con i volti nascosti con caschi integrali o con cappelli e sciarpe. Due sono passate al di là degli sportelli ed hanno minacciato la vice-direttrice costringendola ad aprire il “caveau” (teste Cardullo, ud. 6.6.05, p.51 ss.). Dopo essersi impossessati del denaro (per un ammontare di euro 62.574), i rapinatori sono fuggiti abbandonando due motorini in una via limitrofa all’ufficio postale. Il primo motorino era un Honda SH, che era stato rubato il 15 settembre 2002 a Roma; sullo stesso era stata applicata una targa, che era stata denunciata come smarrita a Firenze nel luglio del 2002. Il secondo motorino era un Piaggio “Free”, che non risultava rubato, ma aveva un numero di telaio parzialmente abraso e una targa proveniente da un furto commesso a Firenze nel dicembre del 2002. Questo ciclomotore era stato venduto da tale Francesca Biagetti (ud. 24.5.05, p. 65 ss.), nel giugno del 2002, tramite un annuncio su “Porta Portese”, ad una donna, che è stata riconosciuta con certezza dalla stessa Biagetti in una fotografia della Lioce. Il libretto di manutenzione di questo motorino è stato poi rinvenuto presso l’abitazione della Blefari Melazzi e il documento è stato riconosciuto dalla Biagetti. Il documento di pianificazione della rapina è stato tratto dal palmare Psion trovato in possesso della Lioce al momento del suo arresto (teste Tintisona, ud. 30.3.05, p. 173). In un documento estratto dallo stesso computer è descritto dettagliatamente il percorso compiuto per lo spostamento di due motorini da Roma a Firenze. I componenti della “squadra offensiva” sono arrivati sul luogo della rapina con un furgone “Fiorino”, sul quale erano state applicate le targhe di una Fiat

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Panda, che erano state rubate a Greve in Chianti. Nella cantina di via Montecuccoli è stato rinvenuto un contrassegno assicurativo, sul quale erano scritti i numeri di targa di questa Fiat Panda. Dai documenti tratti dal materiale informatico sequestrato, si evince che, nel corso dell’attività di “inchiesta” relativa alla rapina di via Torcicoda, gli organi dirigenti dell’associazione avevano effettivamente esaminato il problema dell’espulsione della compagna “SO” (sigla assegnata alla Banelli), originato dal fatto che la stessa non aveva risposto ad alcune convocazioni adducendo motivi di lavoro. Dalle “schede di ruolo” riguardanti questa rapina risulta che il militante Ugo (identificato per il Mezzasalma) aveva il compito di utilizzare uno “scanner” per monitorare gli interventi della Polizia ed eventualmente avvisare i complici. Nel corso della perquisizione eseguita nell’abitazione del Mezzasalma è stato trovato un documento contenente proprio le istruzioni per l’utilizzo di uno “scanner”. Si è anche accertato che il 6 febbraio 2003 il Morandi ha lavorato presso l’Ospedale di Firenze dalle 13,19 alle 19,30 e che, quindi, nell’orario della rapina (consumata intorno alle 9) era libero da impegni lavorativi; il Boccaccini era in malattia (con un solo giorno di prognosi, per laringite e faringite); il Mezzasalma era libero dal lavoro. Il 30 dicembre 2002, giorno in cui (alle 16,30) è stata eseguita la prova generale della rapina, il Morandi, il Boccaccini, il Mezzasalma , la Blefari e la Banelli erano liberi dal lavoro o hanno lavorato solo di mattina. Il teste Roberto Billi (il cui verbale, redatto dalla polizia giudiziaria, è stato acquisito all’udienza del 6.6.05, sull’accordo delle parti) ha dichiarato di essersi recato nell’ufficio postale di via Torcicoda il giorno prima della rapina e di aver notato la presenza di un uomo poi riconosciuto con certezza nella fotografia del Galesi. Sulla base di queste risultanze, deve ritenersi pienamente provata, in ordine alla rapina ed ai reati connessi, la responsabilità degli imputati Lioce, Morandi, Blefari Melazzi, Mezzasalma e Broccatelli. Nadia Desdemona Lioce, in virtù della sua posizione di assoluta preminenza all’interno dell’organizzazione, ha sicuramente partecipato alla pianificazione dell’operazione. Ciò è dimostrato anche dal fatto che il relativo documento è stato estrapolato dal computer palmare che era in suo possesso al momento della cattura, in occasione dell’omicidio dell’agente Petri. Dalla suddetta documentazione (a conferma di quanto sostenuto dalla Banelli) risulta che la Lioce era una dei componenti della squadra armata che è entrata nell’ufficio postale e si è impossessata del denaro.

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Un ulteriore riscontro è rappresentato dal rinvenimento, sul luogo della rapina, di un ciclomotore Piaggio che, secondo quanto riferito dalla teste Biagetti, era stato dalla stessa Lioce acquistato alcuni mesi prima. Roberto Morandi è stato indicato dalla Banelli come altro componente della “squadra offensiva”. Una decisiva conferma è emersa dalle “schede di ruolo”, nelle quali è menzionato, tra coloro che dovevano svolgere il compito più importante, anche il militante Aldo. Come si è visto, questo è il nome di battaglia attribuito con certezza proprio al Morandi. Analoga è la posizione di Diana Blefari Melazzi, che è stata indicata dalla Banelli come componente (insieme al Galesi, alla Lioce e al Morandi) della “sede centrale allargata” nonché della “squadra offensiva” che ha agito in occasione della rapina di via Torcicoda. Tali circostanze hanno trovato conferma nelle “schede di ruolo”, laddove si parla della militante Maria, che è il nome di battaglia da attribuire con certezza proprio alla Blefari Melazzi. Altro riscontro è costituito dal rinvenimento, presso l’abitazione dell’imputata, del libretto relativo al ciclomotore Piaggio: il veicolo che è stato abbandonato nei pressi dell’ufficio postale e che era stato venduto dalla Biagetti alla Lioce. Altrettanto pacifica è la responsabilità di Marco Mezzasalma, al quale è stato assegnato il ruolo di “staffetta” con il nome operativo Ugo. A tale riguardo le affermazioni della Banelli risultano perfettamente compatibili con le risultanze della documentazione sequestrata. Un importante riscontro è costituito dal rinvenimento, nell’abitazione dell’imputato, delle istruzioni per il funzionamento di uno “scanner”, che è proprio lo strumento che era stato affidato al militante Ugo. Nello stesso modo va valutata la posizione di Paolo Broccatelli. La Banelli ha detto, infatti, di aver appreso che il suo posto, nello svolgimento del compito di “staffetta”, era stato preso da un militante cui era stato attribuito il nome operativo Beppe. E dal documento di pianificazione della rapina si desume che con questo nome veniva indicato il militante che operava con la sigle di battaglia “SM” o “S”. Nella parte relativa ai reati associativi sono state esposte le ragioni per le quali i nomi operativi Ugo (corrispondente alle sigle di battaglia “LU” e “LU1”) e Beppe (corrispondente alle sigle “SM” e “S”) vanno riferiti con certezza, rispettivamente, al Mezzasalma ed al Broccatelli. Ritiene, invece, la Corte che, in ordine alla rapina di via Torcicoda ed ai reati connessi, gli elementi probatori acquisiti non siano sufficienti per affermare la responsabilità del Boccaccini e del Di Giovannangelo. A carico di Simone Boccaccini vi sono le dichiarazioni di Cinzia Banelli (ud. 9.5.05, p. 8 e p. 171), la quale ha riferito che il militante con il nome di battaglia

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Carlo, secondo quanto era stato programmato, doveva prendere parte alla rapina con il ruolo di “staffetta”. A questa affermazione, peraltro, non può attribuirsi un valore decisivo, poiché la stessa Banelli, come si è visto, ha precisato di aver preso parte solo alla fase di “inchiesta” e non a quella esecutiva e di non potere quindi esprimersi in termini di certezza sulle persone che hanno effettivamente operato il 6 febbraio 2003 in via Torcicoda. Il ruolo che doveva essere ricoperto dal militante Andrea in occasione della rapina risulta anche dal relativo documento di pianificazione, estratto sempre dal materiale informatico sequestrato. Trattasi però di una bozza che è stata compilata in data sicuramente precedente a quella della esecuzione dell’operazione criminosa. Non può categoricamente escludersi che, come è accaduto per la Banelli, ci sia stata all’ultimo momento una sostituzione. La Banelli ha poi dichiarato che il militante con il nome operativo Andrea ha partecipato alla prova radio svoltasi il 13 dicembre 2002. Anche a questa affermazione non può riconoscersi un peso determinante, poiché la stessa Banelli (nell’incidente probatorio svoltasi davanti al G.u.p. di Firenze 1l 12.10.04), dopo aver preso atto che nel documento, avente per oggetto proprio i “Risultati della prova radio del 13.12.02”, non si parla di Carlo né di Andrea, ha precisato che per le operazioni preliminari non era necessaria la presenza di tutti gli operanti, lasciando così intendere che a quella prova radio il suddetto militante poteva anche non aver preso parte. A carico del Boccaccini è stato anche sottolineato il fatto che nel giorno della rapina e in quello della prova generale (svoltasi il 30 dicembre 2002) non era al lavoro. Questo dato, peraltro, non può valere a sanare la situazione di carenza e di incertezza probatoria e l’imputato deve, pertanto, essere assolto ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p. La stessa pronuncia deve essere emessa nei confronti di Bruno Di Giovannangelo. L’unico elemento a suo carico è rappresentato dalla circostanza riferita dalla Banelli, secondo cui egli avrebbe fornito, in relazione alla rapina di via Torcicoda, notizie sulle nuove celle blindate che erano state montate negli uffici postali, al posto delle normali casseforti. L’imputato, dal suo canto, ha fatto presente di essere rimasto del tutto estraneo a quell’azione delittuosa e di averne avuto notizia solo dai giornali. Pur dovendo considerarsi attendibili le affermazioni della Banelli, deve ritenersi che un effettivo concorso del Di Giovannangelo non sia stato dimostrato con certezza, rimanendo dubbi sulla concretezza e sulla specificità del contributo fornito alla commissione del reato, oltre che sulla consapevolezza dell’imputato.

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A questo riguardo, vanno richiamate le considerazioni fatte in relazione alla rapina all’ufficio postale di Siena.

L) La tentata rapina di via Tozzetti e i reati connessi.

Cinzia Banelli (ud. 9.5.05, p. 146 ss. e ud. 1.10.04, p. 186 ss.) ha ricostruito in modo particolareggiato anche l’episodio della tentata rapina all’ufficio postale di via Tozzetti a Firenze. Nel corso dell’attività preliminare di “inchiesta” sull’ufficio postale (consistita nel controllare l’affluenza del pubblico, l’orario di apertura e di chiusura, l’orario di arrivo del furgone portavalori ecc.), la Banelli ha consegnato al Di Giovannangelo una fotocamera digitale molto piccola (tanto da poter essere nascosta in un pacchetto di sigarette), con l’incarico di fotografare la cassaforte del suo ufficio, per capire se aveva le stesse caratteristiche di quella usata in via Tozzetti. Le fotografie non sono state però scattate perché la fotocamera aveva la batteria scarica. Riguardo alle modalità di esecuzione della rapina, si sono prospettate varie ipotesi operative: una era quella di sradicare con un automezzo pesante le grate delle finestre che erano sul retro dell’ufficio. In merito alla opportunità di adottare questa soluzione, la Banelli (su incarico della Lioce) ha chiesto informazioni al Di Giovannangelo, il quale si è limitato ad esprimere una sua opinione, non essendo esperto in materia. L’ipotesi è stata presto scartata, non essendo stato possibile rubare un idoneo automezzo, con trazione integrale. E’ stato quindi deciso di spaventare gli impiegati facendo esplodere, con un telecomando, dei pacchi contenenti fumogeni, che dovevano provocare molto rumore e molto fumo, senza arrecare danni alle persone. La Banelli ha chiesto al Di Giovannangelo se in casi del genere, per regolamento, fossero imposti determinati comportamenti ai dipendenti degli uffici postali e fosse ad esempio vietato aprire le porte e uscire senza aver ricevuto precise disposizioni. Il Di Giovannangelo ha risposto che non c’era un regolamento preciso e che le decisioni venivano prese caso per caso, discrezionalmente, dal direttore.

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La Banelli ha dato al Di Giovannangelo l’incarico di acquistare, vicino allo stadio di Pistoia, i fumogeni che dovevano essere utilizzati nell’operazione. Il Di Giovannangelo li ha acquistati in un posto diverso, non essendosi potuto recare a Pistoia; presso lo stadio di tale città ne ha però acquistati un’altra serie la stessa Banelli. I pacchi sono stati confezionati dal Galesi a Roma e poi trasportati a Firenze e depositati all’interno di un “Ape” Piaggio. La mattina della rapina il Galesi ha dato i pacchi alla Banelli, la quale, subito dopo l’arrivo del furgone portavalori, li ha portati all’interno dell’ufficio e li ha consegnati ad un’impiegata addetta alla spedizione, dicendo che contenevano stoviglie. Le distinte che accompagnavano i pacchi erano state precedentemente compilate dalla Lioce e l’impiegata vi ha aggiunto qualcosa di suo pugno con la penna. La Banelli ha avvisato quindi la “squadra offensiva” composta dal Galesi, dalla Lioce e dalla militante Maria (la stessa che ha partecipato all’omicidio Biagi e alla rapina di via Torcicoda) ed è andata a ricoprire una postazione di “staffetta” all’esterno, dove, in punti diversi, erano già posizionate le altre due “staffette”, che erano il Morandi e il militante Carlo. Le comunicazioni avvenivano in “conferenza telefonica” con quattro cellulari, tre in dotazione alle “staffette” e uno alla Lioce. Quest’ultima ha azionato il telecomando per far esplodere i pacchi con i fumogeni, in modo da indurre gli impiegati impauriti ad aprire le porte. All’apertura delle porte, i tre componenti della “squadra offensiva”, tutti armati di pistole, sarebbero dovuti entrare nell’ufficio per impossessarsi del denaro. Il tentativo però non è riuscito, perché è passato troppo tempo tra la consegna dei pacchi e l’ingresso della squadra: nel frattempo uno dei pacchi era stato messo all’interno della doppia porta “passapacchi” e, con l’esplosione, non aveva spaventato nessuno. Tutti i militanti impegnati nell’operazione si sono allora allontanati per vie diverse, ciascuno con una propria bicicletta, ed hanno raggiunto i vari punti di “recupero”, stabiliti in modo che venissero rispettate le regole di compartimentazione: gli incontri, andati tutti a buon fine, sono avvenuti tra il Morandi e Carlo, tra la Banelli, il Morandi e il Galesi e tra la Lioce e Maria. La rapina in via Tozzetti era stata già programmata per uno dei giorni precedenti al 5 dicembre 2002, ma era stata rinviata a causa di un contrattempo: quando i militanti si trovavano già ai loro posti, il Galesi aveva fatto accidentalmente esplodere i pacchi con i fumogeni che si trovavano all’interno dell’Ape Piaggio. Le dichiarazioni della Banelli, anche per questo episodio criminoso, hanno trovato puntuali riscontri nelle risultanze delle indagini eseguite dalla polizia

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giudiziaria, nella documentazione tratta dal materiale informatico sequestrato e nelle dichiarazioni rese dal Di Giovannangelo.. Con una consulenza grafica, si è accertato che la cartolina di uno dei due pacchi contenenti i fumogeni era stata scritta con una grafia attribuibile con certezza alla Lioce (testi Grassi, ud. 11.5.05, p. 65 s. e Gismondi, ud. 24.5.05, p. 75 ss.). L’esame dei documenti sequestrati alla Blefari ha consentito di individuare esattamente i militanti che hanno effettuato questo tentativo di “esproprio” (teste Fossi, ud. 26.5.05, p. 195 ss.). Nella “scheda di ruolo” del militante Paolo, infatti, sono dettagliatamente descritte le modalità dell’azione, con le sigle e i nomi di battaglia dei partecipanti e con i numeri di cinque utenze telefoniche utilizzate per le comunicazioni. Si è così accertato che i componenti della “squadra offensiva” Galesi, Lioce e Blefari Melazzi erano indicati, rispettivamente, con i nomi operativi Roberta, Paolo e Maria e le “staffette” Banelli, Morandi e Boccaccini con i nomi operativi Aldo (abbinato con le sigle “LU-loc.A”), Barbara (con la sigla “SO”) e Andrea (con la sigla “CO”). Nella “scheda di ruolo”, peraltro, le cinque utenze risultano assegnate a “SO” Barbara, a “LU.loc.A” Aldo, a “CO” Andrea, a “RS” Roberta ed a “LU” Ugo (sigla e nome di battaglia attribuito al Mezzasalma). Analizzando il traffico delle suddette utenze, si è constatato che effettivamente la mattina del 5 dicembre 2002, negli orari risultanti dalla “scheda di ruolo” si sono reciprocamente contattate, impegnando la cella della zona di via Tozzetti. Si è poi rilevato che le stesse utenze avevano avuto un traffico reciproco anche nel pomeriggio del 2 dicembre e nella mattinata del 4 dicembre (e non il 3 dicembre): ciò ha fatto ritenere che il primo tentativo fallito, cui aveva fatto riferimento la Banelli (senza, peraltro, indicare la data esatta) era stato compiuto il 4 dicembre e non nei giorni precedenti. Tale ipotesi ha trovato conferma negli accertamenti sulle presenze dei vari militanti nei rispettivi posti di lavoro. Il 2 e il 3 dicembre, infatti, sono risultati tutti impegnati in attività lavorative in orari incompatibili con quello del tentativo di rapina (effettuato intorno alle 10,40). Per il 4 e il 5 dicembre, invece, non sono stati accertati impegni incompatibili: il Morandi ha lavorato di notte sino alle 7,30 del 4 e poi è stato libero per tutto il resto della giornata e per quella successiva; il Boccaccini è stato in malattia nei giorni 4, 5 e 6; la Blefari Melazzi ha lavorato dalle 16 alle 19,30 sia il 4 che il 5; il Mezzasalma è stato libero in entrambi i giorni.

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In sede di esame, il Di Giovannangelo ha ammesso di aver acquistato, su incarico della Banelli, alcuni fumogeni, sapendo che dovevano servire per la prova di una rapina; ha ammesso, inoltre, di aver ricevuto dalla Banelli una piccola macchina fotografica per fotografare la cassaforte del suo ufficio (cosa che però non aveva fatto) nonché richieste di informazioni sulla resistenza delle grate in ferro e sulle possibili reazioni degli impiegati postali di fronte allo scoppio dei pacchi (richieste alle quali però non aveva saputo rispondere). Queste risultanze processuali consentono di ritenere pienamente provata la responsabilità degli imputati Lioce, Blefari Melazzi, Morandi, Boccaccini e Di Giovannangelo. Nadia Desdemona Lioce, secondo quanto risulta dalla documentazione (il cui contenuto corrisponde alle dichiarazioni della Banelli), ha fatto parte della “squadra offensiva” ed ha svolto, come al solito, le funzioni di capo, coordinando le comunicazioni tra gli operanti (con la c.d. “conferenza telefonica”) ed azionando il telecomando per far esplodere i pacchi. Ha anche provveduto (come può desumersi dalla consulenza grafica) a compilare manualmente il cartellino per la finta spedizione dei pacchi contenenti i fumogeni. Diana Blefari Melazzi, insieme alla Lioce e al Galesi, era tra i militanti che dovevano svolgere il compito più importante, entrando nell’ufficio postale, armati di pistole, per minacciare gli impiegati ed impossessrsi del denaro. Come per la rapina di via Torcicoda, l’importanza del ruolo che le è stato assegnato era adeguato alla posizione di preminenza che aveva assunto all’interno dell’associazione, dopo che era entrata a far parte della “sede centrale allargata”. Pacifica è anche la posizione di Roberto Morandi, il quale era un altro componente dell’organo direttivo e ha svolto, in questa operazione, il ruolo di “staffetta” con il nome operativo Aldo. Per questo imputato, le dichiarazioni della Banelli hanno un valore probatorio maggiore, poiché tra di loro c’era un rapporto di conoscenza diretto. Simone Boccaccini ha ricoperto, con il Morandi e la Banelli, il ruolo di “staffetta” con il nome operativo Andrea, abbinato alla sigla “CO” (corrispondente al nome di battaglia Carlo). L’attribuibilità all’imputato del nome operativo Andrea, del nome di battaglia Carlo e della sigla “CO” (così come quella dei nomi operativi Aldo e Maria, rispettivamente, al Morandi e alla Blefari Melazzi) è da ritenere certa per le considerazioni esposte nella parte relativa ai reati associativi, cui deve farsi rinvio. Un importante riscontro è costituito dalla accertata assenza di impegni di lavoro, per il Boccaccini, il Morandi e la Blefari Melazzi, nei giorni 4 e 5 dicembre 2002, nei quali si sono svolti i due tentativi di rapina.

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A questo riguardo, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore del Boccaccini, non può darsi rilievo al fatto che la Banelli abbia sostenuto che il primo tentativo di rapina era stato posto in essere in uno dei giorni precedenti al 5 dicembre e probabilmente il 2 o il 3 dello stesso mese (giorni in cui il suddetto imputato si trovava sicuramente al lavoro nelle ore della mattina). La stessa Banelli, infatti, ha onestamente precisato di non ricordare bene la data e deve ritenersi, quindi, che sia incorsa in errore nell’indicare le date del 2 e del 3 dicembre, posto che in questi due giorni, nelle ore mattutine, non vi è stato traffico tra le utenze impegnate nell’operazione (traffico che, invece, vi è stato sicuramente il 4 e il 5, in orari perfettamente coincidenti con quelli indicati nella “scheda di ruolo”). Da un documento contenente una bozza di preparazione del tentativo di “esproprio” di via Tozzetti, inoltre, può trarsi la conferma del fatto che la rapina era stata effettivamente programmata per il 4 dicembre. In tale documento, infatti, sono indicate, a fianco a questa data, alcune attività (come quella del controllo dei motorini e delle vie di fuga) che dovevano essere compiute, intorno alle 6,15, dai militanti impegnati nell’operazione (teste Fossi, ud. 26.5.05, p. 209). Bruno Di Giovannangelo, infine, ha fornito un apporto rilevante, provvedendo ad acquistare, su ordine della Banelli, una parte dei fumogeni utilizzati per il tentativo di rapina, essendo pienamente consapevole dell’uso illecito che ne avrebbero fatto altri militanti dell’organizzazione; ha mostrato, inoltre, la propria completa disponibilità nel rispondere alle richieste di informazioni rivoltegli dalla Banelli e nel ricevere dalla stessa la fotocamera che gli sarebbe dovuta servire per fotografare una cassaforte. A differenza di quanto è accaduto per le rapine agli uffici postali di Porta Camollia a Siena e di via Torcicoda a Firenze, in questo caso il contributo dell’imputato è stato concreto e consapevole ed effettivamente finalizzato al conseguimento dei risultati che l’organizzazione voleva raggiungere. Deve, quindi, ritenersi sussistente il concorso nel tentativo di rapina e nei reati connessi. Appaiono, invece, insufficienti gli elementi probatori acquisiti nei confronti di Marco Mezzasalma. A suo carico, vi è il fatto che nei citati documenti, tratti dal materiale informatico in sequestro, è indicato, con il nome di battaglia Ugo e la sigla “LU”, il militante che doveva avere in dotazione una delle cinque utenze necessarie per effettuare la “conferenza telefonica”, in occasione del tentativo di rapina. Dall’analisi del traffico sviluppato dalle suddette utenze è risultato, inoltre, che quella assegnata al militante Ugo è effettivamente entrata in contatto con le altre utenze la mattina del 5 dicembre 2002.

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Si è poi accertato che il 5 dicembre, come anche nel giorno precedente, il Mezzasalma era libero dal lavoro. A queste circostanze non può attribuirsi un valore decisivo, poiché deve tenersi conto che i suddetti documenti sono stati redatti precedentemente all’esecuzione dell’operazione ed hanno riguardato la progettazione e pianificazione del delitto, sicché non può teoricamente escludersi che vi siano state delle variazioni. D’altra parte, non può sottacersi che la Banelli (sulla cui piena attentibilità non possono essere sollevati dubbi di sorta), pur essendo stata impegnata personalmente nell’iniziativa ed avendo avuto modo di esaminare la relativa documentazione, non ha affatto menzionato il Mezzasalma tra i militanti che hanno partecipato alla preparazione ed all’esecuzione del tentativo di rapina. Per tali considerazioni, l’imputato va assolto, a norma dell’art. 530 comma 2 c.p.p., dai reati contestatigli in relazione a questo episodio criminoso.

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Le sanzioni.

Nadia Desdemona Lioce e Roberto Morandi sono responsabili di tutti i reati che sono stati loro contestati. Tali reati vanno uniti sotto il vincolo della continuazione, essendo apparsa evidente l’unicità del disegno criminoso. Le numerose azioni criminose sono state commesse, infatti, per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti dall’associazione eversiva, con il fine diretto (nel caso degli attentati) o indiretto (nel caso dei c.d. “espropri”) di sovvertire l’ordine democratico dello Stato. La Lioce e il Morandi hanno ricoperto, nell’ambito dell’associazione, il ruolo di organizzatori e di componenti del massimo organo direttivo e non sono meritevoli di alcuna attenuante, non avendo dimostrato alcun segno di ravvedimento. Due dei reati loro ascritti, quelli previsti dagli artt. 280 e 285 c.p., sono puniti con il massimo della pena detentiva. A norma dell’art. 72 comma 1 c.p., pertanto, deve essere irrogata ad entrambi la pena dell’ergastolo, cui deve aggiungersi l’isolamento diurno per un periodo di mesi sei. Conseguentemente, per entrambi deve essere disposta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ai sensi dell’art. 29 comma 1 c.p., nonché l’interdizione legale e la decadenza dalla potestà dei genitori, ai sensi dell’art. 32 commi 1 e 2 c.p. Deve, inoltre, ordinarsi, a norma dell’art. 36 commi 2 e 3 c.p. la pubblicazione della presente sentenza per una volta e per estratto sul quotidiano “Corriere della Sera”. Michele Mazzei, Antonino Fosso, Francesco Donati e Franco Galloni sono responsabili soltanto dei reati di associazione eversiva e di banda armata, previsti dagli artt. 270-bis e 306 c.p., da unirsi ai sensi dell’art. 81 c.p.

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Non ricorrono circostanze che possano essere valutate favorevolmente ai fini dell’applicazione delle attenuanti generiche, considerato che hanno tutti dimostrato di voler persistere nel loro atteggiamento di rifiuto e di disconoscimento delle regole dell’ordinamento statale. Il loro concorso nell’associazione è stato, peraltro, di importanza più ridotta rispetto agli altri partecipanti, tenuto conto che, al momento della consumazione dei reati, si trovavano in stato di detenzione. Tenendo presenti i criteri indicati nell’art. 133 c.p., la pena per ciascuno dei suddetti quattro imputati va fissata in anni cinque e mesi sei di reclusione, partendo da una pena base di anni cinque per il reato di cui all’art. 270-bis c.p., aumentata di mesi sei per l’altro reato. Consegue per tutti l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ai sensi dell’art. 29 comma 1 c.p., nonché l’interdizione legale e la sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione della pena, ai sensi dell’art. 32 comma 3 c.p. Diana Blefari Melazzi viene riconosciuta colpevole dei due reati associativi, della detenzione e porto di esplosivi, detonatori e bombe a mano, nonché della rapina di via Torcicoda e della tentata rapina di via Tozzetti con i reati connessi. Tali reati vanno unificati nel vincolo della continuazione, per le stesse ragioni esposte a proposito della Lioce e del Morandi. Non sono emersi elementi valutabili a suo favore, avendo tenuto nel corso del procedimento un atteggiamento analogo a quello degli imputati sopra indicati. La posizione di rilievo assunta nell’ultimo periodo nell’ambito dell’associazione impone anzi l’applicazione di una sanzione più severa, rispetto ad altri imputati. Si ritiene conforme a giustizia la pena di anni nove e mesi sei di reclusione e di euro duemilacinquecento di multa, calcolata partendo da una pena base di anni sei e di euro 1.400 per la rapina aggravata consumata, aumentata di sei mesi e 200 euro per la tentata rapina, di un anno per l’associazione eversiva, di otto mesi per la banda armata, di quattro mesi e 200 euro per la detenzione di esplosivo, detonatori e bombe, di tre mesi e 200 euro per ciascuna delle ipotesi di detenzione e porto di armi, di due mesi e 100 euro per la ricettazione e di un mese e 50 euro per ciascuno dei furti. Consegue per legge l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ai sensi dell’art. 29 comma 1 c.p., nonché l’interdizione legale e la sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione della pena, ai sensi dell’art. 32 comma 3 c.p. Paolo Broccatelli è responsabile dei due reati associativi, della detenzione e porto di esplosivi, detonatori e bombe a mano, nonché della rapina di via Torcicoda con i reati connessi.Tutti i reati vanno uniti ai sensi dell’art. 81 c.p., per i motivi già esposti.

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L’imputato non è meritevole di alcuna attenuante, poiché il suo comportamento processuale è stato in piena sintonia con quello degli imputati sopra indicati. Tenendo conto delle indicazioni fornite dall’art. 133 c.p., va irrogata la pena di anni nove di reclusione e di euro duemila di multa, calcolata partendo da una pena base di anni sei e di euro 1.400 per la rapina aggravata, aumentata di un anno per l’associazione eversiva, di otto mesi per la banda armata, di quattro mesi e 200 euro per la detenzione di esplosivo, detonatori e bombe, di sei mesi e 200 euro per la detenzione e il porto di armi, di due mesi e 100 euro per la ricettazione e di due mesi e 50 euro per ciascuno dei furti. Consegue per legge l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ai sensi dell’art. 29 comma 1 c.p., nonché l’interdizione legale e la sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione della pena, ai sensi dell’art. 32 comma 3 c.p. Marco Mezzasalma viene riconosciuto colpevole dei reati associativi, dell’attentato con morte del prof. D’Antona, della detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe a mano nonché della rapina di via Torcicoda con i reati connessi: ai sensi dell’art. 81 c.p. ne va disposta l’unificazione. Non sussistono elementi valutabili favorevolmente ai fini dell’applicazione delle attenuanti generiche, per gli stessi motivi che sono stati indicati per gli imputati già esaminati. A norma dell’art. 72 comma 2 c.p. deve irrogarsi la pena dell’ergastolo, con l’isolamento diurno per un periodo di mesi tre. Di conseguenza, va disposta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ai sensi dell’art. 29 comma 1 c.p., nonché l’interdizione legale e la decadenza dalla potestà dei genitori, ai sensi dell’art. 32 commi 1 e 2 c.p. Deve, inoltre, ordinarsi, a norma dell’art. 36 commi 2 e 3 c.p. la pubblicazione della presente sentenza per una volta e per estratto sul quotidiano “Corriere della Sera”. Federica Saraceni risponde solo di partecipazione all’associazione eversiva e alla banda armata, da unificarsi ai sensi dell’art. 81 c.p. A favore dell’imputata deve considerarsi che è del tutto immune da precedenti penali e giudiziari e che ha tenuto un comportamento processuale diverso dagli imputati sin qui esaminati. Ha mostrato, infatti, segni di ravvedimento ed ha affermato espressamente di non condividere i metodi di lotta seguiti dai militanti dell’associazione dalla quale si è distaccata già da alcuni anni. Possono, quindi, essere concesse le attenuanti generiche, al fine di contenere la pena in limiti che consentano all’imputata un reiserimento nella vita sociale e familiare. Tenuto conto dei criteri di valutazione indicati dall’art. 133 c.p., si ritiene conforme a giustizia la pena di anni quattro e mesi otto di reclusione, calcolata

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partendo da una pena base di anni sei di reclusione per il reato di cui all’art. 270-bis c.p., ridotta ad anni quattro e mesi due ai sensi dell’art. 62-bis c.p. ed aumentata di sei mesi per il reato di cui all’art. 306 c.p. Consegue, ai sensi dell’art. 29 c.p., l’interdizione dai pubblici uffici per il periodo di anni cinque. Simone Boccaccini è responsabile dei reati associativi, della detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe a mano nonché della rapine di Siena e della tentata rapina di via Tozzetti a Firenze con i reati connessi. Anche a questo imputato possono essere concesse le attenuanti generiche, tenendo conto che, pur avendo rinunciato a comparire davanti a questa Corte, non si è uniformato ai comportamenti tenuti dalla Lioce, dal Mezzasalma, dal Morandi, dalla Blefari Melazzi, dal Broccatelli e dai quattro “irriducibili”. Deve anche considerarsi che nelle azioni criminose alle quali ha partecipato ha svolto sempre ruoli di secondo piano, sicché può presumersi che nell’ambito dell’associazione egli occupasse una posizione di scarso rilievo. Previa unificazione dei reati ai sensi dell’art. 81 c.p. e ritenute le suddette attenuanti prevalenti sulle contestate aggravanti, deve irrogarsi la pena di anni cinque e mesi otto di reclusione ed euro duemiladuecento di multa, calcolata partendo da una pena base di anni sei per l’associazione eversiva, ridotta ad anni quattro per le attenuanti generiche, aumentata di quattro mesi per la banda armata, di sei mesi e 600 euro per la rapina di Siena, di due mesi e 300 euro per la tentata rapina, di tre mesi e 400 euro per la detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe a mano, di un mese e 300 euro per ciascuna delle ipotesi di detenzione e porto di armi e di un mese e 100 euro per ciascuno dei furti. Deve, inoltre, disporsi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici nonché l’interdizione legale e la sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione. Bruno Di Giovannangelo, infine, viene ritenuto responsabile dei due reati associativi, della detenzione dei detonatori nonché della rapina di Mezzana e della tentata rapina di via Tozzetti a Firenze con i reati connessi. Possono essere applicate le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, considerando che l’imputato ha reso dichiarazioni sostanzialmente confessorie ed ha ricoperto, nell’ambito dell’associazione, un ruolo di scarsa rilevanza. Unificati i reati ai sensi dell’art. 81 c.p., deve irrogarsi la pena di anni cinque e mesi sei di reclusione ed euro duemila di multa, calcolata partendo da una pena base di anni sei per l’associazione eversiva, ridotta ad anni quattro per le attenuanti generiche, aumentata di quattro mesi per la banda armata, di cinque mesi e 600 euro per la rapina di Mezzana, di due mesi e 300 euro per la tentata rapina, di tre mesi e 350 euro per la detenzione e porto di detonatori, di un mese

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e 300 euro per ciascuna delle ipotesi di detenzione e porto di armi e di venti giorni e 50 euro per ciascuno dei furti. Tutti gli imputati suddetti vanno condannati al pagamento delle spese processuali, in via solidale, e di quelle di custodia cautelare, “pro capite”. Gli imputati Lioce e Morandi, essendo stati riconosciuti colpevoli dell’attentato di cui al capo i) ai danni della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sul diritto di sciopero, devono essere condannati, in solido, al risarcimento dei danni subiti dalla stessa Commissione, costituita parte civile, nella misura da liquidarsi in separata sede. Gli imputati Lioce, Mazzei, Fosso, Donati, Galloni, Broccatelli, Mezzasalma, Morandi, Saraceni, Blefari Melazzi, Boccaccini e Di Giovannangelo, ritenuti responsabili dei reati associativi, vanno condannati, in solido, in favore della parte civile Presidenza del Consiglio dei Ministri, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in complessivi euro 2.220.000,00, comprensivi di euro 400.000,00 a titolo di rimborso per le speciali elargizioni corrisposte in applicazione delle leggi sulle vittime del terrorismo, di euro 820.000,00 per gli oneri sostenuti dall’erario per finanziare il servizio straordinario del personale della Digos (per attività riferibili alle indagini, risultate di enorme complessità, soprattutto con riferimento all’analisi del traffico telefonico) e di euro 1.000.000,00 per danni non patrimoniali. A tale riguardo vanno accolte le argomentazioni esposte dalla difesa della suddetta parte civile nella memoria depositata il 21.6.2005. Gli stessi imputati sono tenuti, in solido, a rifondere le spese di costituzione e difesa, sostenute dalla Presidenza del Consiglio e dalla suddetta Commissione di garanzia, da liquidarsi in complessivi euro 25.000,00. Debbono, inoltre, essere condannati, in via solidale, al risarcimento dei danni, nella misura da liquidarsi in separato giudizio, e al pagamento delle sottoindicate provvisionali immediatamente esecutive (corrispondenti alle somme sottratte in ciascun ufficio postale) in favore delle Poste Italiane s.p.a., i seguenti imputati: Lioce, Morandi e Di Giovannangelo, per la rapina di Mezzana, con una provvisionale di euro 85.215,00; Lioce, Morandi e Boccaccini, per la rapina di Siena, con una provvisionale di euro 165.614,00; Lioce, Mezzasalma, Morandi e Blefari Melazzi, per la rapina di Firenze-via Torcicoda, con una provvisionale di euro 62.774,53; Lioce, Morandi, Blefari Melazzi, Boccaccini e Di Giovannangelo, per la tentata rapina di Firenze-via Tozzetti. I suddetti imputati sono poi tenuti, in solido, a rifondere le spese di costituzione e difesa subite dalla stessa parte civile Poste Italiane s.p.a., nella misura di complessivi euro 15.350,00 oltre IVA e CAP. Gli imputati Lioce, Mazzei, Fosso, Donati, Galloni, Broccatelli, Mazzasalma, Morandi, Saraceni, Blefari Melazzi, Boccaccini e Di Giovannangelo, responsabili dei reati associativi, vanno altresì condannati, in solido, in favore

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delle parti civili Alma Broccolini, Angelo Petri e Leopoldo Petri, al risarcimento dei danni, nella misura da liquidarsi in separata sede, nonché al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 30.000,00 e alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, da liquidarsi in complessivi euro 20.000,00 oltre I.V.A. e CAP; Gli imputati Lioce, Mezzasalma e Morandi, in quanto responsabilie dell’omicidio di Massimo D’Antona, vanno condannati, in solido, al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili Valentina D’Antona e Olga Di Serio, nella misura da liquidarsi in separata sede, al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 150.000,00 per ciascuna parte e alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, da liquidarsi per ognuna in complessivi euro 25.000,00 oltre IVA e CAP. Il numero e degli imputati e delle imputazioni e la quantità degli atti processuali giustifica la fissazione di un termine di novanta giorni per il deposito della motivazione.

P.Q.M.

Visti gli artt. 533, 535, 536, 538, 539, 541 c.p.p.; dichiara Nadia Desdemona Lioce, Michele Mazzei, Antonino Fosso, Francesco Donati, Franco Galloni, Roberto Morandi e Diana Blefari Melazzi colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti; condanna Lioce e Morandi alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno per mesi sei, interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale, decadenza dalla potestà dei genitori e pubblicazione della sentenza per estratto e per una volta sul quotidiano “Corriere della Sera”; condanna Mazzei, Fosso, Donati e Galloni alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione ciascuno e Blefari Melazzi, previa unificazione dei reati ex art. 81 c.p., alla pena di anni nove e mesi sei di reclusione ed euro 2.500 di multa, e i cinque suddetti imputati all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, all’interdizione legale e alla sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione; dichiara Paolo Broccatelli colpevole dei reati di cui ai capi a), indicato nel decreto del G.i.p. del 19.10.2004 (associazione eversiva, banda armata), i) (detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe a mano), A1), B1), C1), D1), E1) (rapina di Firenze-via Torcicoda e delitti connessi), contestati dal p.m. in udienza e, uniti i reati ex art. 81 c.p., lo condanna alla pena di anni nove di reclusione ed euro 2.000 di multa, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione; dichiara Marco Mezzasalma colpevole dei reati di cui ai capi a), b), c), d), e), i) indicati del decreto del G.i.p. del 19.10.2004 (associazione eversiva, banda

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armata, attentato terroristico e delitti connessi, detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe a mano) e ai capi G), H, I), L), M), indicati nel decreto del G.i.p. del 19.3.2005 (rapina di Firenze-via Torcicoda e delitti connessi) e, uniti i reati ex art. 81 c.p., lo condanna alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per mesi tre, interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale, decadenza dalla potestà dei genitori e pubblicazione della sentenza per estratto e per una volta sul “Corriere della Sera”; dichiara Federica Saraceni colpevole del reato di cui al capo a) (associazione eversiva e banda armata) e, con attenuanti generiche, la condanna alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione, con interdizione dai pubblici uffici per anni cinque; dichiara Simone Boccaccini colpevole dei reati di cui ai capi a), indicato nel decreto del G.i.p. del 19.10.2004 (associazione eversiva e banda armata), i) contestato dal p.m. in udienza (detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe a mano), D), E), F) (rapina di Siena e delitti connessi), N, O), P), Q) (tentata rapina di Firenze-via Tozetti e delitti connessi), indicati nel decreto del G.i.p. del 19.3.2005 e, con attenuanti generiche, uniti i reati ex art. 81 c.p., lo condanna alla pena di anni cinque e mesi otto di reclusione ed euro 2.200 di multa, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione; dichiara Bruno Di Giovannangelo colpevole dei reati di cui ai capi a), indicato nel decreto del G.i.p. del 19.10.2004 (associazione eversiva, banda armata), i) contestato dal p.m. in udienza (detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe a mano), A), B), C) (rapina di Mezzana e delitti connessi), N), O), P), Q) (tentata rapina di Firenze-via Tozzetti e delitti connessi) indicati nel decreto del G.i.p. del 19.3.2005 e, con attenuanti generiche, uniti i reati ex art. 81 c.p., lo condanna alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione ed euro 2.000 di multa, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e sospensione dalla potestà dei genitori durante il periodo di espiazione; condanna i suddetti imputati, in solido, al pagamento delle spese processuali e, pro capite, di quelle di custodia cautelare; condanna Lioce e Morandi al risarcimento dei danni subiti dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sul diritto di sciopero, nella misura da liquidarsi in separata sede; condanna Lioce, Mazzei, Fosso, Donati, Galloni, Broccatelli, Mezzasalma, Morandi, Saraceni, Blefari Melazzi, Boccaccini e Di Giovannangelo, in solido, in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al risarcimento dei danni, che liquida in complessivi euro 2.220.000,00 nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, sostenute dalla stessa Presidenza del Consiglio e dalla suddetta Commissione di garanzia, che liquida in complessivi euro 25.000,00;

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condanna al risarcimento dei danni in favore delle Poste Italiane s.p.a., nella misura da liquidarsi in separata sede: Lioce, Morandi e Di Giovannangelo, in solido, per la rapina di Mezzana, con una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 85.215,00; Lioce, Morandi e Boccaccini, in solido, per la rapina di Siena, con una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 165.614,00; Lioce, Mezzasalma, Morandi e Blefari Melazzi, in solido, per la rapina di Firenze-via Torcicoda, con una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 62.774,53; Lioce, Morandi, Blefari Melazzi, Boccaccini e Di Giovannangelo, in solido, per la tentata rapina di Firenze-via Tozzetti; condanna tutti i suddetti imputati, in solido, alla rifusione delle spese di costituzione e difesa subite dalla stessa parte civile, che liquida in complessivi euro 15.350,00 oltre IVA e CAP; condanna Lioce, Mazzei, Fosso, Donati, Galloni, Broccatelli, Mazzasalma, Morandi, Saraceni, Blefari Melazzi, Boccaccini e Di Giovannangelo, in solido, al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili Alma Broccolini, Angelo Petri e Leopoldo Petri, nella misura da liquidarsi in separata sede, con una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 30.000,00, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa dalle stesse sostenute, che liquida in complessivi euro 20.000,00 oltre I.V.A. e CAP; condanna Lioce, Mezzasalma e Morandi, in solido, al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili Valentina D’Antona e Olga Di Serio, nella misura da liquidarsi in separata sede, al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 150.000,00 per ciascuna parte e alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, che liquida per ognuna in complessivi euro 25.000,00 oltre IVA e CAP. Visto l’art. 530 comma 1 c.p.p.; assolve Fabio Viscido e Maurizio Viscido dai reati loro rispettivamente ascritti e Roberto Badel dal reato di cui al capo i) (detenzione e porto di esplosivo, detonatori e bombe) per non aver commesso il fatto. Visto l’art. 530 comma 2 c.p.p.; assolve Paolo Broccatelli, Marco Mezzasalma, Alessandro Costa, Federica Saraceni, Simone Boccaccini, Bruno Di Giovannangelo e Roberto Badel dagli altri reati loro rispettivamente ascritti per non aver commesso il fatto; ordina l’immediata liberazione di Alessandro Costa e Roberto Badel se non detenuti per altra causa. Fissa in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.Roma, 8 luglio 2005 IL PRESIDENTE EST. (dr. Mario Lucio D’Andria)

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Depositata in Cancelleria in data 6 ottobre 2005

MOTIVAZIONE

I fatti criminosi commessi dall’organizzazione eversiva nella sua evoluzione dagli N.C.C. alle B.R.-P.C.C. 1

Le indagini ed il rinvio a giudizio. 17

Le responsabilità in ordine alle varie imputazioni. 30

A) I reati associativi) . 301. Premessa. 302. Nadia Desdemona Lioce. 323. Michele Mazzei, Antonino Fosso, Francesco Donati e Franco Galloni. 364. Paolo Broccatelli. 395. Marco Mezzasalma. 426. Roberto Morandi. 477. Alessandro Costa. 498. Federica Saraceni. 569. Diana Blefari Melazzi. 6310. Simone Boccaccini. 6511. Bruno Di Giovannangelo. 7012. Fabio e Maurizio Viscido. 7213. Roberto Badel. 74

B) L’omicidio del prof. Massimo D’Antona e i reati connessi. 771. Premessa. 77

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2. Nadia Desdemona Lioce. 823. Marco Mezzasalma. 824. Roberto Morandi. 845. Paolo Broccatelli. 856. Federica Saraceni. 89

C) I reati accertati in occasione dell’omicidio Petri. 93

D) La detenzione di esplosivo, detonatori e bombe a mano. 94

E) Gli attentati rivendicati con le sigle N.I.P.R. e N.P.R. 96

F) Il danneggiamento all’agenzia di lavoro interinale di via Mariti a Firenze. 98

G) La rapina all’ufficio postale di Mezzana e i reati connessi. 100

H) La rapina all’ufficio postale di Siena e i reati connessi. 104

I) La rapina all’ufficio postale di via Torcicoda a Firenze e i reati connessi. 109

L) La tentata rapina di via Tozzetti e i reati connessi. 114

Le sanzioni. 120

Condanne 125

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