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Jules Verne - La Casa a Vapore

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 JULES VERNE

LA CASA A VAPOREViaggio attraverso

l'India settentrionale

Disegnidi Leon Benett

incisi da Ch. Barbant, Th. Delangle, Th. HildibrandCopertina di Giuseppe Laganà

U. MURSIA & C.MILANO

TITOLO ORIGINALE DELL'OPERALA MAISON À VAPEUR VOYAGE À TRAVERS L'INDE SEPTENTRIONALE

(1879)

Traduzione integrale dal francese di Giuseppe MinaProprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy

© Copyright 1970 U. MURSIA & C. 1040/ACU. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29

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 PRESENTAZIONE

Questo è forse uno dei più insoliti romanzi di Jules Verne. Sembraquasi che lo scrittore abbia voluto offrire qui un saggio di tutti glielementi che solitamente concorrono ad animare le sue narrazioni eche abbia voluto mostrarci tutte le risorse di cui è ricca la sua fantasia, facendo appello all'ambiente geografico, ricorrendo avicende storiche complesse che si arricchiscono di motivi persinoleggendari, sfruttando quel gusto per la scienza e per la tecnica che

caratterizza tanti suoi libri e dando libero corso a quella suastraordinaria inventiva romanzesca che sa conferire realtà anche a personaggi e a intrecci imprevedibili.

C'è, prima di tutto, il suo culto per la tecnica e per il progresso(quel culto che ha fatto di lui un pioniere della fantascienza), ma chequi si presenta quasi in tono minore, non senza una punta dicompiacente malizia, nella costruzione di un gigantesco giocattolo:

il Gigante d'Acciaio. Adeguandosi all'ambiente favoloso in cui sisvolge l'azione del racconto anche la tecnica sembra qui porsi alservizio della fiaba. E in realtà, questo Gigante d'Acciaio è unmostro ingenuo e innocuo. Non a caso è stato costruito per la gioia e per il divertimento di un fantasioso rajah, che però è passato amiglior vita prima di poterlo usare. Il Gigante d'Acciaio in questioneè un treno che corre sulle strade comuni, senza bisogno di rotaie; ècostituito da due grandi carrozze a forma di bungalow e di pagoda,

trainate da una locomotiva a vapore, che il costruttore hagenialmente rivestito delle forme dì un gigantesco elefante. Più cheun treno è dunque una strana, pittoresca casa che viaggia: la Casa avapore. 

 L'ingegner Banks, che l'ha costruita su commissione del rajah,alla morte di questi resta in possesso dello straordinario giocattolo e progetta di fare con esso un viaggio attraverso l'India settentrionale,da Calcutta a Bombay. 

Già questo viaggio, insolito per il mezzo di locomozione eavventuroso per i luoghi che attraversa, introduce il secondo

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elemento che contribuisce a rendere avvincente il romanzo:l'elemento geografico che qui si identifica con l'India misteriosa delsecolo scorso, con il suo paesaggio sconfinato, estremamente vario esuggestivo, con la sua civiltà millenaria, la sua gente, i suoi usi e

costumi.  Né poteva mancare un terzo elemento, che caratterizza tanti libri

di Verne: quello storico. L'idea del viaggio sorge nell'ingegner Banks per un vivo sentimento umanitario: egli vuol distrarre un suoamico, il colonnello sir Edward Munro, dallo stato di profondadepressione morale in cui è piombato per la scomparsa della suagiovane moglie, Laurence, avvenuta durante i gravi disordini provocati dalla rivolta dei Sepoys (o Cipays, come scrive  Verne).Egli pensa che Laurence sia  stata uccisa dal capo dei ribelli, iltristemente famoso Nana Sahib, e in cuor suo ha giurato vendetta (elo stesso ha fatto del resto anche Nana Sahib, la cui compagna èstata uccisa in battaglia e proprio per mano di Munro). 

 Ma come vendicarsi se il capo dei Sepoys, dopo la clamorosasconfitta, si è reso irreperibile? Qualcuno dice sia morto, altriraccontano che, come un eroe da leggenda, continui ad apparire ora

in questa ora in quella regione, per cercar di suscitare nuovi incendidi distruzione e di morte. Per distrarre il colonnello Edward Munro dalla sua cupa

ossessione, l'ingegner Banks progetta dunque il suo viaggio; ma iltragico antecedente offre a Verne il pretesto per ricostruire a grandilinee la rivolta dei Sepoys. Un episodio sanguinoso, realmenteaccaduto nel 1857, quando appunto i Sepoys, i soldati indigeni checostituivano l'esercito nazionale indiano, aizzati e guidati dal

nababbo Dandu-Pant, divenuto famoso appunto con il nome di NanaSahib, insorsero contro il dominio inglese. Pagine di storia che, peressere rivissute da personaggi vivamente compromessi nella vicenda,risentono del calore e 'della passione dei loro stessi protagonisti. 

Tutti questi motivi, nella fantasia dello scrittore, si intrecciano esì congiungono in quell'unica, singolare realtà che è l'operanarrativa. Ed è proprio su questo terreno che Verne si rivela ancora

una volta molto abile nel tessere i fili della vicenda, nel

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caratterizzare situazioni e personaggi, nel costruire un intreccio chetiene avvinto il lettore fino alla fine. 

Sulla Casa a vapore, insieme con l'ingegner Banks e il colonnello Munro, ci sono anche altri viaggiatori, come il giovane francese

 Maucler, il capitano Hod e il suo attendente Fox, appassionati edesperti nella caccia alla tigre, l'ameno signor Parazard, lo chefnegro che regna sulla cucina e sulla dispensa della Casa a vapore, iltaciturno sergente Mac Neil; e poi ecco Mathias Van Guitt, anch'eglicacciatore, ma che vuol catturare vive le belve per poter rifornire gli zoo di Londra e di Amburgo, l'indù Kâlagani, coraggioso mamisterioso e infido. 

 Il gruppo, nel suo complesso, è vario e pittoresco quanto basta per movimentare il viaggio, e sembra messo insieme con arte proprio per permettere a Verne di toccare tutti i registri (daldrammatico, all'umoristico e al grottesco) che caratterizzano il suomodo di raccontare. Tra le scene più drammatiche, basteràricordare la fuga precipitosa della Casa a vapore davanti a unamandria di elefanti infuriati (e veri!), lanciati al galoppo in prossimità del lago Puturia. Tra gli episodi più divertenti, la strana

caccia a... Mathias Van Guitt, caduto in una delle sue innumerevolitrappole.  Il viaggio, secondo un piano calcolato, conduce il colonnello

 Munro nella regione in cui è stata segnalata la ricomparsa del suonemico, il ribelle Nana Sahib, e qui si ha lo scontro frontale, conagguati, fughe, inseguimenti reciproci, ma avviene anche il colpo discena finale, che svela all'improvviso il mistero della scomparsa dilady Laurence Munro, mistero su cui poggia la tensione psicologica

dell'intero romanzo. Un libro, come si vede, orchestrato con straordinaria abilità, in

uno scenario grandioso e affascinante, e in un periodo tra i piùcontrastati e turbolenti della storia dell'India. La fantasia tecnicadell'elefante d'acciaio che trascina due pittoresche carrozze non èche un ingegnoso pretesto cui si intrecciano motivi storici egeografici, ma su cui si innesta soprattutto una vicenda patetica,

estremamente mossa e avventurosa, raccontata con quelladisinvoltura e con quella varietà di toni in cui Verne è maestro. 

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Pubblicato nel 1880, quando lo scrittore era già affermato, vennesubito riconosciuto come uno dei suoi libri più curiosi ecaratteristici; né il giudizio è mutato a distanza di tanti anni, i quali,anzi, ancora una volta hanno confermato le qualità anticipatrici dei

romanzi di Verne. L'elefante d'acciaio, visto oggi, sembra infatti un fantasioso modello dei moderni automi; come Casa a vapore, poi,sembra un prototipo delle moderne roulottes. E il fatto che fosse piùingombrante non ha certo importanza se si pensa che veniva«parcheggiato» ai piedi dell'Himalaya. 

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JULES VERNE nacque a Nantes, l'8 febbraio 1828. A undici anni,tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsiclandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo ericondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiarelegge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondointellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre,dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari.Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie elibretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercareun'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi.Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava incontatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava ilromanzo Cinque settimane in pallone. 

La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, sidedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro - in base

a un contratto stipulato con l'editore Hetzel - venne via via pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei«Viaggi straordinari - I mondi conosciuti e sconosciuti» e checostituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio alcentro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto imari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, MicheleStrogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua operacompleta comprende un'ottantina di romanzi o racconti lunghi, e

numerose altre opere di divulgazione storica e scientifica.Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne,

nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suolavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata,una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbetermine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasetteanni, il 24 marzo 1905.

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IndicePRESENTAZIONE................................................................................................3  

LA CASA A VAPORE ...........................................................11 

PARTE PRIMA ......................................................................13 

Capitolo I...............................................................................................................13 UNA TAGLIA SU UNA TESTA......................................................................13 

Capitolo II .............................................................................................................24 IL COLONNELLO MUNRO............................................................................24 

Capitolo III ...........................................................................................................38 LA RIVOLTA DEI CIPAY...............................................................................38 

Capitolo IV............................................................................................................52  NELLE GROTTE DI ELLORA........................................................................52 

Capitolo V .............................................................................................................63 IL GIGANTE D'ACCIAIO ...............................................................................63 

Capitolo VI............................................................................................................74 PRIME TAPPE..................................................................................................74 

Capitolo VII ..........................................................................................................87 I PELLEGRINI DEL PHALGU........................................................................87 

Capitolo VIII.......................................................................................................101 ALCUNE ORE A BÉNARES.........................................................................101 

Capitolo IX..........................................................................................................114 ALLAHABAD ................................................................................................ 114 

Capitolo X ...........................................................................................................124 VIA DOLOROSA ........................................................................................... 124 

Capitolo XI..........................................................................................................134 IL CAMBIAMENTO DI MONSONE ............................................................134 

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Capitolo X ...........................................................................................................327 IL LAGO PUTURIA.......................................................................................327 

Capitolo XI..........................................................................................................341 A FACCIA A FACCIA ...................................................................................341 

Capitolo XII ........................................................................................................354 ALLA BOCCA DI UN CANNONE ...............................................................354 

Capitolo XIII.......................................................................................................365 IL GIGANTE D'ACCIAIO .............................................................................365 

Capitolo XIV.......................................................................................................373 LA CINQUANTESIMA TIGRE DEL CAPITANO HOD..............................373 

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PARTE PRIMA

C  APITOLO I  

UNA TAGLIA SU  UNA TESTA

«Si PROMETTE un premio di duemila sterline a chi consegnerà,vivo o morto, uno degli ex capi della rivolta dei Cipay,1  la cui presenza è stata segnalata nella presidenza di Bombay, il nababboDandu-Pant, più noto sotto il nome di...»

Ecco la notizia che gli abitanti di Aurangabad potevano leggere lasera del 6 marzo 1867.

L'ultimo nome, nome esecrato, per sempre maledetto dagli uni,segretamente ammirato dagli altri, mancava al manifesto che erastato recentemente affisso sul muro di un bungalow in rovina, in rivaal Dudhma.

Se quel nome mancava, era perché l'angolo inferiore delmanifesto, dove era stampato a grossi caratteri, era stato strappatodalla mano d'un fachiro che nessuno aveva potuto scorgere sulla rivaallora deserta. Con quel nome era pure scomparso quello del

governatore generale della presidenza di Bombay, controfirmantequello del viceré delle Indie.

Quale era stato mai l'intento del fachiro? Strappando il manifestosperava forse che il ribelle del 1857 potesse sfuggire alla pubblicavendetta e alle conseguenze del decreto emanato contro di lui?Poteva credere che una così terribile celebrità dovesse svanire con iframmenti di quel pezzetto di carta ridotto in polvere?

1  Si conserva qui e altrove la grafia di Verne, pur facendo notare che la grafiaesatta sarebbe sepoys. (N.d.T.) 

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Sarebbe stata pazzia.Infatti, altri manifesti, sparsi a profusione, campeggiavano sui

muri delle case, dei palazzi, delle moschee, degli alberghi diAurangabad. Inoltre, un banditore percorreva le vie della città,

leggendo ad alta voce il decreto del governatore. Gli abitanti delle più miserabili borgate della provincia sapevano già che un'interafortuna era promessa a chiunque avesse consegnato quel Dandu-Pant.Il suo nome, inutilmente soppresso, sarebbe corso prima di dodici ore per tutta quanta la presidenza. Se le informazioni erano esatte, se ilnababbo aveva veramente cercato rifugio in quella partedell'Indostan, non c'era alcun dubbio che sarebbe caduto entro pocotempo in mani fortemente interessate a operarne la cattura.

A quale sentimento aveva dunque obbedito il fachiro, nel lacerareun manifesto già stampato in molte migliaia d'esemplari?

A un sentimento di collera senza dubbio, forse a un qualche pensiero di disprezzo. Ad ogni modo, dopo essersi stretto nellespalle, egli si cacciò nel quartiere più popoloso e più malfamato dellacittà.

Si chiama Deccan quell'ampia parte della penisola indiana

compresa fra i Ghati occidentali ed i Ghati del mare del Bengala. È ilnome che vien dato comunemente alla parte meridionale dell'India,di qua dal Gange. Questo Deccan, il cui nome sanscrito significa«Sud», comprende, nelle presidenze di Bombay e di Madras, un certonumero di province. Una delle principali è la provincia diAurangabad, la cui capitale fu un tempo persino quella dell'interoDeccan.

 Nel secolo XVII, il celebre imperatore mongolo Aurangzeb

trasferì la sua corte in questa città, che era conosciuta agli inizi dellastoria dell'Indostan sotto il nome di Kirkhi. Essa aveva alloracentomila abitanti. Oggi non ne ha che cinquantamila, sotto ladominazione degli inglesi, che l'amministrano per conto del Nizamdell'Haiderabad. Tuttavia, è una delle città più sane della penisola,risparmiata finora dal tremendo colera asiatico, e che non è maivisitata nemmeno dalle epidemie di febbri, così temute nell'India.

Aurangabad ha conservato magnifici resti del suo anticosplendore. Il palazzo del Gran Mogol, eretto sulla riva destra del

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Dudhma, il mausoleo della sultana favorita dello Shah Jahan, padredi Aurangzeb, la moschea copiata dall'elegante Tadje di Agra, cheinnalza i suoi quattro minareti intorno ad una cupola graziosamentearrotondata, e ancora altri monumenti artisticamente costruiti,

riccamente decorati, attestano la potenza e la grandezza del piùillustre dei conquistatori dell'Indostan, che portò quel regno, al qualeaggiunse il Cabul e l'Assam, ad un incomparabile grado di prosperità.

Benché, dopo questo periodo, la popolazione di Aurangabad fossestata considerevolmente ridotta, come si è detto, un uomo potevafacilmente nascondersi ancora in mezzo ai tipi tanto differenti che lacompongono. Il fachiro, vero o falso, mescolato a tutta quella folla,non se ne distingueva in nessun modo. I suoi simili abbondano inIndia. Essi formano con i sayed una corporazione di mendicantireligiosi, che chiedono l'elemosina a piedi o a cavallo, e sanno pretenderla, quando non viene loro fatta spontaneamente. Nonsdegnano neppure la parte di martiri volontari, e godono di grandecredito presso le caste inferiori del popolo indù.

Il fachiro di cui si parla era un uomo di alta statura che misurava più di cinque piedi e nove pollici inglesi. Se egli aveva passato la

quarantina, poteva essere di un anno o due, al massimo. Il suo voltoricordava il bel tipo maharajto, soprattutto per lo scintillio degli occhineri sempre all'erta; ma si sarebbero difficilmente ritrovati ilineamenti tanto fini della sua razza sotto le mille cicatrici del vaioloche gli crivellavano le guance. Quell'uomo, ancora nel pieno dell'età,sembrava agile e robusto. Segno particolare, gli mancava un dito allamano sinistra. Con i capelli tinti di rosso, procedeva seminudo, senzacalzature ai piedi, con un turbante in capo, coperto appena da una

malconcia tunica di lana a righe, stretta alla cintola. Sul suo pettoapparivano a vivi colori gli emblemi dei due principi, conservatore edistruttore, della mitologia indù, la testa di leone della quartaincarnazione di Vishnu, i tre occhi e il tridente simbolico del feroceSiva.

Frattanto, un turbamento reale e ben comprensibile agitava le viedi Aurangabad, più in particolare quelle in cui si affollava la

 popolazione cosmopolita dei quartieri bassi. Là essa formicolavafuori delle catapecchie che le servono come abitazione. Uomini,

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donne, fanciulli, vecchi, europei o indigeni, soldati dei reggimentireali o dei reggimenti locali, mendicanti di ogni tipo, contadini deidintorni, si avvicinavano, discorrevano, gesticolavano,commentavano la notizia, calcolavano le probabilità di guadagnare

l'enorme premio promesso dal governo. La sovreccitazione deglianimi non avrebbe potuto essere maggiore in occasionedell'estrazione di una lotteria, il cui primo premio avesse avuto unvalore di duemila sterline. Si può anzi aggiungere che, questa volta,non c'era nessuno che non potesse prendere un buon biglietto con buone probabilità: quel biglietto, era la testa di Dandu-Pant. Però bisognava essere tanto fortunati da incontrare il nababbo, e tantoaudaci da impadronirsene.

Il fachiro, evidentemente l'unico fra tutti che non fosse tentatodalla speranza di guadagnare il premio, passava in mezzo ai gruppiarrestandosi talvolta, per ascoltare quello che si diceva, da personache potrebbe forse approfittarne. Ma se egli non si mescolava affattoai discorsi degli uni e degli altri, se la bocca rimaneva muta, i suoiocchi e le sue orecchie erano attenti.

 — Duemila sterline per scoprire il nababbo! — esclamava uno

alzando al cielo le mani adunche. — Non per scoprirlo, — rispondeva un altro, — ma per prenderlo,che è ben differente!

 — Infatti non è tipo da lasciarsi prendere senza difendersirisolutamente!

 — Ma, non si diceva, ultimamente, che era morto di febbre nelle jungle del Nepal?

 — Niente di tutto ciò è vero! L'astuto Dandu-Pant ha voluto farsi

credere morto per vivere in maggior sicurezza. — Era persino corsa voce che fosse stato sepolto al centro del suo

accampamento alla frontiera! — Falsi funerali per ingannare meglio.Il fachiro non aveva battuto ciglio udendo affermare quest'ultimo

fatto in modo che non ammetteva dubbi. Tuttavia, la sua fronte sicorrugò involontariamente, quando udì un indù, uno dei più accesi

del gruppo a cui si era mescolato, dare i seguenti particolari, troppo precisi per non essere veritieri:

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 — Quel che è certo, — diceva l'indù, — è che nel 1859 il nababbosi era rifugiato con suo fratello Balao Rao e con l'ex rajah di Gonda,Debi-Bux-Singh, in un campo ai piedi di una montagna del Nepal.Là, stretti da vicino dalle truppe inglesi, decisero tutti e tre di varcare

la frontiera indocinese. Ora, prima di superarla, il nababbo e i suoidue compagni, perché venisse dato maggior credito alla voce dellaloro morte, si sono fatti fare il funerale; ma quanto di essi è statosepolto è unicamente un dito della mano sinistra, che si sono tagliatoal momento della cerimonia.

 — E come lo sapete? — domandò uno degli ascoltatori aquell'indù, che parlava con tanta sicurezza.

 — Ero presente ai funerali, — rispose l'indù. — I soldati diDandu-Pant mi avevano fatto prigioniero, e sono riuscito a fuggiresoltanto sei mesi dopo.

Mentre l'indù parlava in modo tanto deciso, il fachiro non lo perdeva d'occhio. Un lampo gli accendeva gli occhi. Egli aveva prudentemente nascosto la mano mutilata sotto il lembo di lana chegli copriva il petto. Ascoltava senza dire parola, ma le sue labbrafremevano scoprendo i denti aguzzi.

 — Dunque, voi conoscete il nababbo? — domandò qualcunoall'ex prigioniero di Dandu-Pant. — Sì, — rispose l'indù. — E lo riconoscereste senza esitare, se il caso vi mettesse faccia a

faccia con lui? — Così come riconoscerei me stesso! — Allora avete qualche probabilità di guadagnare il premio di

duemila sterline! — ribatté uno degli interlocutori, non senza un

sentimento d'invidia poco dissimulato. — Forse... — rispose l'indù, — se è vero che il nababbo ha avuto

l'imprudenza di avventurarsi nella presidenza di Bombay, il che misembra molto inverosimile!

 — E che cosa ci sarebbe venuto a fare? — Senza dubbio per tentare di provocare una nuova sollevazione,

 — disse uno degli uomini del gruppo — se non fra i Cipay, almeno

fra le popolazioni delle campagne del centro.

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 — Poiché il governo afferma che la sua presenza è stata segnalatanella provincia, — riprese uno degli interlocutori appartenente allacategoria di coloro che pensano che l'autorità non può mai sbagliare, — è segno che il governo è bene informato in proposito.

 — Sia! — rispose l'indù. — Voglia Brahma che Dandu-Pant passisul mio sentiero, e la mia fortuna è fatta!

Il fachiro arretrò di alcuni passi, ma non perdette d'occhio l'ex prigioniero del nababbo.

Era notte buia, eppure l'animazione delle vie di Aurangabad nondiminuiva. Sul conto del nababbo circolavano dicerie sempre piùnumerose. Qui si diceva che era stato visto addirittura in città; là cheormai era lontano. Si affermava pure che una staffetta, mandata dalnord della provincia, avesse appena portato al governatore la notiziadell'arresto di Dandu-Pant. Alle nove di sera, i meglio informatisostenevano che egli era già chiuso nelle prigioni della città insiemecon alcuni Thug che vi vegetavano da oltre trent'anni, e che sarebbestato impiccato l'indomani all'alba, senza tante formalità, come si erafatto con Tantia-Topi, suo celebre compagno di ribellione, sulla piazza di Sipri. Ma, alle dieci, un'altra notizia contraddittoria. Si

spargeva la voce che il prigioniero aveva potuto fuggire quasi subito,il che rese un po' di speranza a quanti erano allettati dal premio diduemila sterline.

In realtà, tutte quelle varie dicerie erano false. I meglio informatinon ne sapevano più di chi era informato meno bene o assolutamentemale. La testa del nababbo valeva sempre la sua taglia. Era sempreda prendere.

Frattanto l'indù, per il fatto che conosceva personalmente Dandu-

Pant, era in grado meglio di chicchessia di guadagnare il premio.Pochi, soprattutto nella presidenza di Bombay, avevano avutooccasione d'incontrare il feroce capo della grande insurrezione. Più anord e più al centro, nel Sindhia, nel Bundelkund, nell'Oudh, neidintorni di Agra, di Delhi, di Cawnpore, di Lucknow, sul teatro principale delle atrocità commesse dietro suo ordine, le popolazioniintere si sarebbero sollevate contro di lui e lo avrebbero consegnato

alla giustizia inglese. I parenti delle sue vittime, sposi, fratelli, figli,mogli, piangevano ancora quelli che il nababbo aveva fatto trucidare

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a centinaia. I dieci anni passati non erano bastati a spegnere i piùlegittimi sentimenti di vendetta e di odio. Perciò non era possibileche Dandu-Pant fosse stato tanto imprudente da arrischiarsi in quelle province in cui il suo nome era votato all'esecrazione di tutti. Se

dunque, come si diceva, egli aveva ripassato la frontiera indocinese,se qualche motivo ignoto, progetto d'insurrezione o altro, lo avevaindotto ad abbandonare il rifugio introvabile, il cui segreto sfuggivaancora alla polizia anglo-indiana, non c'erano che le province delDeccan che potessero, con il campo libero, permettergli una qualchesicurezza.

Si vede, tuttavia, che il governo aveva avuto sentore della suaapparizione nella presidenza, e aveva messo subito una taglia sullasua testa.

Tuttavia, bisogna far osservare che ad Aurangabad gliappartenenti alle classi più elevate, magistrati, ufficiali, funzionari,dubitavano un po' delle informazioni raccolte dal governatore. Si eragià sparsa troppe volte la voce che l'inafferrabile Dandu-Pant erastato visto, e anche preso! Erano corse sul suo conto tante notiziefalse, che si era formata una specie di leggenda sul dono dell'ubiquità

 posseduto dal nababbo e sulla sua abilità nell'ingannare i più abiliagenti della polizia; il popolino, invece, non aveva nessun dubbio.Fra i meno increduli figurava, naturalmente, l'ex prigioniero del

nababbo. Quel povero diavolo d'indù, illuso dall'esca del premio,animato d'altra parte da un bisogno di rivincita personale, non pensava che a mettersi in campo, e considerava quasi come certa lariuscita. Il suo piano era semplicissimo. Fin dal giorno seguente eglisi proponeva di offrire i propri servigi al governatore; poi, dopo aver

appreso esattamente quanto si sapeva di Dandu-Pant, ossia, su checosa si basavano le informazioni date dal manifesto, si proponeva direcarsi sul luogo stesso in cui il nababbo fosse stato veduto.

Verso le undici di sera, dopo aver udito tante dicerie diverse, che, pur confondendosi nel suo animo, lo facevano più saldo nel proposito, l'indù pensò finalmente di andare a riposarsi un poco.Aveva come unica abitazione una barca ormeggiata ad una delle rive

del Dudhma, e si diresse da quella parte, fantasticando, con gli occhisemichiusi.

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Senza che egli se ne avvedesse, il fachiro non lo aveva lasciato;gli si era messo dietro, facendo in modo di non richiamare la suaattenzione, e seguendolo solamente nell'ombra.

Verso l'estremità di quel popoloso quartiere di Aurangabad, a

quell'ora, le vie erano meno animate. La sua arteria principale portava a dei terreni abbandonati il cui limitare formava una dellerive del Dudhma. Era come una specie di deserto alla periferia dellacittà. Alcuni passanti tardivi lo superavano ancora, non senzaaffrettarsi, e rientravano nelle zone più frequentate. Il rumore degliultimi passi non tardò a farsi udire; ma l'indù non si rese conto diessere rimasto solo nel seguire la riva del fiume.

Il fachiro lo seguiva sempre e sceglieva le parti più scure delterreno, ora al riparo degli alberi, ora camminando rasente alle tetremura delle abitazioni in rovina sparse qua e là.

La precauzione non era inutile. Era sorta la luna, che gettava unaluminosità incerta nell'atmosfera. L'indù avrebbe dunque potutoaccorgersi d'essere spiato, anzi seguito da vicino. Quanto a udire i passi del fachiro, sarebbe stato impossibile. Questi, a piedi nudi,scivolava piuttosto che camminare. Nessun rumore rivelava la sua

 presenza sulla riva del Dudhma.Passarono così cinque minuti. L'indù ritornava, macchinalmente per così dire, alla miserabile barca nella quale soleva passare la notte.Il percorso che egli seguiva non poteva spiegarsi altrimenti. Eglicamminava da uomo abituato a frequentare ogni sera quel luogodeserto; era completamente assorto nel pensiero di quel passo che si proponeva di fare il giorno seguente, presso il governatore. Lasperanza di vendicarsi del nababbo, che non era certamente stato

tenero con i suoi prigionieri, unita al bramoso desiderio diguadagnarsi il premio, lo rendevano contemporaneamente cieco esordo.

Perciò non aveva coscienza del pericolo che le sue paroleimprudenti gli facevano correre.

 Non vide il fachiro avvicinarsi a poco a poco.Ma, all'improvviso, un uomo gli si avventò addosso come una

tigre, con un lampo in mano. Era un raggio di luna che si riflettevasulla lama di un pugnale malese.

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L'indù, colpito al petto, cadde pesantemente a terra.Tuttavia, benché il colpo fosse stato dato da un braccio sicuro, il

disgraziato non era morto. Qualche parola smozzicata sfuggiva dallesue labbra con un fiotto di sangue.

L'assassino si curvò, afferrò la vittima, la sollevò, e mettendo il proprio viso in piena luce lunare:

 — Mi riconosci? — disse. — Lui! — mormorò l'indù.E il terribile nome del fachiro stava per essere la sua ultima

 parola, quando egli spirò in un convulso soffocato.Un istante dopo, il corpo dell'indù spariva nella corrente del

Dudhma, che non doveva mai più restituirlo.Il fachiro aspettò che il rumore delle acque fosse cessato. Allora,

ritornando indietro, riattraversò i terreni abbandonati, poi i quartieriche incominciavano a spopolarsi, e, con passo rapido, si diresse versouna delle porte della città.

Ma, nel momento in cui egli vi giungeva, quella porta venivachiusa. Alcuni soldati dell'esercito reale occupavano il posto diguardia che ne difendeva l'ingresso. Il fachiro non poteva più lasciare

Aurangabad, come aveva pensato di fare. — Eppure bisogna che ne esca, e questa notte stessa... o non neuscirò più! — mormorò.

Perciò ritornò sui suoi passi, seguì il cammino di ronda, all'internodelle mura, e, duecento passi più in là, si arrampicò sulla scarpa, inmodo da raggiungere la parte superiore del bastione.

La cresta, esternamente, si elevava una cinquantina di piedi al disopra del livello del fossato, scavato fra la scarpa e la controscarpa.

Era un muro a picco, senza tiranti sporgenti o asperità adatte a fornireun punto d'appoggio. Sembrava assolutamente impossibile che unuomo potesse lasciarsi scivolare sulla superficie del suo rivestimento.Una corda avrebbe, senza dubbio, permesso di tentarne la discesa,ma la cintura che cingeva i fianchi del fachiro misurava solo pochi piedi, e non poteva permettergli di giungere al piede della scarpata.

Il fachiro si fermò un istante, gettò uno sguardo intorno a sé e

rifletté a quanto doveva fare.

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Sulla cresta del bastione si arrotondavano alcune scure cupole diverzura formate dal fogliame dei grandi alberi che circondanoAurangabad come con una cornice vegetale. Da quelle cupole si proiettavano fuori lunghi rami flessibili e resistenti di cui sarebbe

stato forse possibile servirsi per giungere, non senza grande pericolo,in fondo al fossato.

Il fachiro, appena gli venne tale idea, non esitò. Si portò sotto unadi quelle cupole, e riapparve poco dopo, all'esterno del muro, sospesoa un terzo d'un lungo ramo che si piegava a poco a poco sotto il suo peso.

Quando il ramo si fu curvato tanto da toccare l'orlo superiore delmuro, il fachiro si lasciò scivolare lentamente, come se avesse tenutofra le mani una corda. Poté così scendere fino a mezza altezza dellascarpa; ma una trentina di piedi lo separavano ancora dal suolo chedoveva raggiungere per assicurarsi la fuga.

Egli era dunque là, dondolante, sospeso per le braccia, cercandocon il piede qualche fessura che gli potesse dare un puntod'appoggio...

Ad un tratto, alcuni lampi solcarono il buio. Si udirono degli spari.

Il fuggitivo era stato scorto dai soldati di guardia. Questi gli avevanofatto fuoco addosso, ma senza colpirlo. Tuttavia una pallottola colpìil ramo che lo sorreggeva, a due pollici sopra la testa di lui, e loscalfì.

Venti secondi dopo, il ramo si rompeva, e il fachiro piombava nelfossato... Un altro si sarebbe ucciso, egli rimase sano e salvo.

Rialzarsi, risalire il pendio della controscarpa, in mezzo a unaseconda grandinata di proiettili che non lo colpirono, sparire nel

 buio, non fu che un gioco per il fuggitivo.Due miglia più in là, egli rasentava, non visto, l'accantonamento

delle truppe inglesi, acquartierate fuori Aurangabad.A duecento passi da quel luogo si arrestava, si voltava, la sua

mano mutilata si tendeva verso la città, e dalla bocca gli uscivanoqueste parole:

 — Disgrazia a quanti cadranno ancora nelle mani di Dandu-Pant!

Inglesi, non l'avete ancora finita con Nana Sahib!

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 Nana Sahib! Quel nome di battaglia, il più temuto fra quanti eranodiventati sanguinosamente famosi nella rivolta del 1857, venivagettato ancora una volta dal nababbo come una sfida suprema aiconquistatori dell'India.

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C  APITOLO II

 IL COLONNELLO  MUNRO

 — EBBENE, caro Maucler, — mi disse l'ingegner Banks — non ci parlate del vostro viaggio! Si direbbe che non abbiate ancora lasciatoParigi! Come trovate l'India?

 — L'India! — risposi — ma per parlarne con un certofondamento, bisognerebbe almeno averla vista. — To'! — ribatté l'ingegnere, — ma se avete attraversato la

 penisola da Bombay a Calcutta, e a meno di esser cieco... — Non sono cieco, caro Banks, ma, durante questa traversata, ero

accecato. — Accecato?... — Sì, accecato dal fumo, dal vapore, dalla polvere, e, meglio

ancora, dalla rapidità del mezzo di trasporto. Non voglio dir maledelle ferrovie, poiché il vostro mestiere è costruirne, caro Banks, maficcarsi nello scompartimento di un vagone, non avere altro campovisivo che il vetro degli sportelli, correre giorno e notte a unavelocità media di dieci miglia l'ora, ora su viadotti, in compagniadelle aquile o dei gipeti, ora sotto gallerie in compagnia dei topi o deiratti, fermarsi solo alle stazioni, che si assomigliano tutte, delle cittàvedere solo l'esterno delle mura o le sommità dei minareti, passare inquell'incessante fracasso dei muggiti della locomotiva, dei fischidella caldaia, dello stridore delle rotaie e del gemito dei freni, sichiama forse viaggiare?

 — Ben detto! — esclamò il capitano Hod. — Rispondete un po',se vi riesce, Banks! Che cosa ne pensate, colonnello?

Il colonnello, al quale il capitano Hod si era rivolto, chinòleggermente il capo e si accontentò di dire:

 — Sarei curioso di sapere che cosa potrà rispondere Banks alnostro ospite signor Maucler.

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 — La cosa non mi imbarazza minimamente, — risposel'ingegnere, — e confesso che Maucler ha ragione in tutto e per tutto.

 — Allora, — esclamò il capitano Hod, — se la cosa sta così, perché mai costruite ferrovie?

 — Per permettervi di andare in sessanta ore da Calcutta aBombay, quando avete fretta, capitano.

 — Io non ho mai fretta! — Ebbene, allora, prendete il Great Trunk Road, — rispose

l'ingegnere. — Prendetelo, Hod, e andate a piedi. — È precisamente quello che voglio fare! — Quando? — Quando il colonnello acconsentirà a seguirmi in una bella

 passeggiata di otto o novecento miglia attraverso la penisola.Il colonnello si accontentò di sorridere, e ricadde in una di quelle

lunghe fantasticherie da cui i suoi migliori amici, tra i quali anchel'ingegner Banks e il capitano Hod, facevano tanta fatica a strapparlo.

Ero giunto in India da un mese, e, avendo preso il Great IndianPeninsular, che collega Bombay a Calcutta via Allahabad, nonconoscevo assolutamente nulla della penisola.

Ma era mia intenzione percorrerne prima di tutto la partesettentrionale, al di là del Gange, visitarne le grandi città, studiarne i principali monumenti, e dedicare a questa esplorazione tutto il temponecessario a farla completa.

Avevo conosciuto l'ingegner Banks a Parigi. Da alcuni annieravamo legati da un'amicizia che un'intimità più profonda non poteva che aumentare. Gli avevo promesso di venirlo a trovare aCalcutta non appena il completamento del tronco dello Scind Punjab

and Delhi, di cui egli era incaricato, lo avesse lasciato libero. Ora, ilavori erano stati ultimati. Banks aveva diritto a un riposo di alcunimesi, e io ero venuto a chiedergli di riposarsi affaticandosi a correre per l'India. Egli aveva accettato la mia proposta con entusiasmo, siintende! Perciò dovevamo partire entro poche settimane, appena lastagione fosse divenuta favorevole.

Al mio arrivo a Calcutta, nel mese di marzo 1867, Banks mi aveva

fatto fare conoscenza con uno dei suoi bravi compagni, il capitano

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Hod; poi, egli mi aveva presentato al suo amico, colonnello Munro,in casa del quale avevamo passato la serata.

Il colonnello, che aveva allora quarantasette anni, abitava una casa piuttosto isolata, nel quartiere europeo, e, di conseguenza, lontano

dal movimento che è caratteristico di quella città mercantile e diquella città nera da cui è composta in realtà la capitale dell'India.Quel quartiere è stato chiamato a volte la «Città dei palazzi» e,infatti, i palazzi non vi mancano, se pure si può dare questo nome adegli edifici che di un palazzo hanno solo i portici, le colonne e leterrazze. Calcutta è il punto d'incontro di tutti gli ordini architettonicidei quali il gusto inglese generalmente si giova nelle sue città dei duemondi.

Quanto all'abitazione del colonnello, era il bungalow in tutta lasua semplicità, un edificio eretto su una base di mattoni, provvistosolamente di un pianterreno, coperto da un tetto a forma di piramide.Una veranda o varanga, sorretta da leggere colonnine, ne faceva ilgiro. Sui lati, cucine, rimesse, dipendenze ne formavano le due ali. Iltutto era situato in un giardino con begli alberi e cintato di muri pocoalti.

La casa del colonnello era quella di un uomo che gode di grandeagiatezza. La sua servitù era numerosa, come comporta il serviziodelle famiglie indo-inglesi nella penisola. Arredamento, materialed'uso, sistemazioni interne ed esterne, tutto era ben disposto e inottimo stato di manutenzione. Ma si sentiva che a quelle variedisposizioni era mancata la mano di una donna.

Per la direzione della servitù, per il governo generale della casa, ilcolonnello si affidava completamente a uno dei suoi vecchi

compagni d'arme, uno scozzese, un conductor dell'esercito reale, ilsergente Mac Neil, con il quale aveva fatto tutte le campagnedell'India, uno di quei bei cuori che sembrano battere nel petto dicoloro ai quali si sono votati.

Mac Neil era uomo di quarantacinque anni, robusto, alto, barbuto,come gli scozzesi delle montagne. Tanto per gli atteggiamenti e lafisionomia, quanto per il costume tradizionale, egli era rimasto un

highlander anima e corpo, benché avesse lasciato il servizio militarecontemporaneamente al colonnello Munro. Entrambi si erano ritirati

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dal servizio fin dal 1860, ma invece di ritornarsene presso i glens del paese, fra i vecchi clans dei loro avi, erano rimasti entrambi in India,e vivevano a Calcutta, in una specie di riservatezza e di solitudineche occorre spiegare.

Quando Banks mi presentò al colonnello Munro, mi fece una solaraccomandazione:

 — Non fate nessuna allusione alla rivolta dei Cipay, — mi disse, — e soprattutto non pronunciate mai il nome di Nana Sahib!

Il colonnello Edward Munro apparteneva a una vecchia famigliadella Scozia, i cui antenati si erano distinti nella storia del RegnoUnito. Fra i suoi avi era quel sir Hector Munro che comandaval'esercito del Bengala nel 1760, e che dovette appunto domare unaribellione che i Cipay, un secolo più tardi, dovevano riprendere per proprio conto. Il maggiore Munro represse la rivolta con spietataenergia, e non esitò a far legare lo stesso giorno ventotto ribelli alle bocche dei cannoni, spaventoso supplizio, rinnovato spesso durantel'insurrezione del 1857, e di cui l'avo del colonnello era stato forse ilterribile inventore.

All'epoca della rivolta dei Cipay, il colonnello Munro comandava

il 93° reggimento di fanteria scozzese dell'esercito reale. Fece quasitutta la campagna sotto gli ordini di sir James Outram, uno degli eroidi quella guerra, colui che meritò il nome di «Baiardo dell'esercitodelle Indie», come lo proclamò sir Charles Napier. Il colonnelloMunro si trovò perciò con lui a Cawnpore; prese parte alla secondacampagna di Colin Campbell, in India; prese parte all'assedio diLucknow, e lasciò quell'illustre soldato solo quando Outram funominato a Calcutta membro del Consiglio dell'India.

 Nel 1858, il colonnello sir Edward Munro era cavaliere maestrodell'ordine della Stella dell'India, «the Star of India (K. C. S. I.)».Veniva nominato baronetto, e sua moglie avrebbe portato il titolo dilady Munro,2  se, il 27 giugno 1857, la sventurata non fosse morta

2 Una donna non titolata, che sposi un baronetto o un cavaliere, prende il titolo di

lady davanti al nome del marito. Ma tale titolo di lady non può precedere il nomedi battesimo, poiché, in questo caso, è riservato unicamente alle figlie dei pari.(N.d.A.) 

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nello spaventoso eccidio di Cawnpore, eccidio compiuto sotto gliocchi e per ordine di Nana Sahib.

Lady Munro — gli amici del colonnello non la chiamavano maialtrimenti, — era adorata dal marito. Aveva solo ventisette anni

quando scomparve con le duecento vittime di quell'orrendacarneficina. Mistress Orr e miss Jackson, salvate quasimiracolosamente dopo la presa di Lucknow, erano sopravvissute almarito e al padre. Lady Munro, invece, non aveva potuto essererestituita al colonnello Munro. Era stato impossibile ritrovare i suoiresti, confusi con quelli di tante vittime nel pozzo di Cawnpore, e darloro sepoltura cristiana.

Sir Edward Munro, disperato, ebbe allora un solo, unico pensiero,ritrovare Nana Sahib che il governo inglese faceva cercare dovunque,e spegnere, con la propria vendetta, una specie di sete di giustizia chelo divorava. Per essere più libero delle proprie azioni, si ritirò dalservizio. Il sergente Mac Neil lo seguì in ogni suo passo ed azione.Quei due uomini, animati dallo stesso spirito, vivendo d'uno stesso pensiero, mirando all'identico scopo, si lanciarono su tutte le piste, presero in esame tutte le tracce, ma non furono più fortunati della

 polizia anglo-indiana. Il Nana sfuggì a tutte le loro ricerche. Dopo treanni di sforzi inutili, il colonnello e il sergente dovettero sospenderetemporaneamente le loro investigazioni. Del resto, a quell'epoca eracorsa per tutta l'India la voce della morte di Nana Sahib, e sotto untale aspetto di veridicità, quella volta, che non c'era motivo permetterla in dubbio.

Sir Edward Munro e Mac Neil allora tornarono a Calcutta, dove sisistemarono in quel bungalow isolato. Là, senza leggere libri o

giornali, che avrebbero potuto ricordargli il tempo sanguinosodell'insurrezione, senza lasciare mai la propria abitazione, ilcolonnello visse da uomo la cui vita è senza scopo alcuno. Pure, il pensiero di sua moglie non lo abbandonava mai. Sembrava che iltempo non avesse nessun potere sopra di lui e non potesse mitigare ilsuo rimpianto.

Bisogna aggiungere che la notizia della ricomparsa del Nana nella

 presidenza di Bombay, notizia che circolava da alcuni giorni,

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sembrava essere sfuggita alle ricerche del colonnello. Ed era un bene,altrimenti egli avrebbe lasciato immediatamente il bungalow.

Ecco quanto mi aveva detto Banks, prima di presentarmi in quellacasa, da cui qualsiasi gioia era bandita per sempre. Ecco perché

 bisognava evitare ogni allusione alla rivolta dei Cipay e al piùcrudele dei suoi capi, Nana Sahib.

Due amici soltanto, due amici provati, frequentavanoassiduamente la casa del colonnello. Erano l'ingegner Banks e ilcapitano Hod.

Banks, come ho detto, aveva appena terminato i lavori di cui erastato incaricato per la costruzione della ferrovia Great IndianPeninsular. Era un uomo di quarantacinque anni, nel pieno vigoredell'età. Doveva avere una parte importante nella costruzione delMadras Railway, destinato a collegare il mare Arabico con il golfodel Bengala, ma non era probabile che i lavori potessero cominciare prima di un anno. Nel frattempo egli si riposava a Calcutta, puroccupandosi di vari progetti di meccanica, perché era uno spiritoattivo e fecondo, continuamente alla ricerca di qualche nuovainvenzione. Dedicava tutto il suo tempo che esulava dalle

occupazioni al colonnello, cui era legato da una ventennale amicizia.E così trascorreva quasi tutte le serate sotto la veranda del bungalow,in compagnia di sir Edward Munro e del capitano Hod, che avevaallora ottenuto una licenza di dieci mesi.

Il capitano apparteneva al 1° squadrone dei fucilieri dell'esercitoreale e aveva fatto tutta la campagna del 1857-1858, inizialmente consir Colin Campbell nello Oudh e nel Rohilkhand, poi con sir H. Rosenell'India centrale, campagna che finì con la presa di Gwalior.

Il capitano Hod, cresciuto a quella dura scuola dell'India, uno deimembri più notevoli del Club di Madras, di capelli e barba biondo-rossicci, non aveva più di trent'anni. Benché appartenesse all'esercitoreale, lo si sarebbe preso per un ufficiale di quello indigeno, tanto siera indianizzato durante la sua permanenza nella penisola. Se vi fossenato non avrebbe potuto essere più indù di quel che era. L'India gli pareva il paese per eccellenza, la terra promessa, il solo posto dove

un uomo potesse e dovesse vivere. Là, infatti, egli trovava dasoddisfare tutti i suoi gusti. Soldato nell'anima, gli si presentavano

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continuamente le occasioni per battersi. Cacciatore emerito, non sitrovava forse nel paese in cui la natura sembra aver riunito tutte lefiere della creazione e tutta la selvaggina grossa e piccola dei duemondi? Scalatore impavido, non aveva forse a portata di mano quella

grandiosa catena del Tibet che possiede le più alte vette del globo?Viaggiatore intrepido, chi gli impediva di porre il piede là dovenessuno lo aveva ancora messo, nelle regioni inaccessibili dellafrontiera dell'Himalaya? Maniaco arrabbiato per le corse dei cavalli,gli sarebbero forse venuti meno quei campi di corse dell'India, che aisuoi occhi valevano quelli della Marche o di Epsom? A questo proposito, poi, Banks e lui erano in disaccordo completo.L'ingegnere, nella sua qualità di meccanico puro sangue, siinteressava ben poco alle prodezze ippiche dei Gladiator e delleFille-de-l'air. 

Anzi, un giorno che il capitano Hod insisteva su questo punto,Banks gli rispose che, secondo lui, le corse sarebbero state veramenteinteressanti a una sola condizione.

 — Quale? — domandò Hod. — Che fosse bene stabilito, — rispose serio Banks — che il

 jockey ultimo arrivato fosse fucilato al palo della partenza, sedutastante. — È un'idea!... — replicò semplicemente il capitano Hod.Senza dubbio egli sarebbe stato uomo da correre quel rischio di

 persona.Questi erano i due commensali assidui al bungalow di sir Edward

Munro. Al colonnello piaceva sentirli discutere su ogni cosa, e le loroeterne discussioni richiamavano a volte una specie di sorriso sulle

sue labbra.Desiderio comune di quei due bravi compagni era indurre il

colonnello a un qualche viaggio che potesse distrarlo. Molte volte gliavevano proposto di partire per il nord della penisola, di andare atrascorrere qualche mese nei dintorni di quei sanitarium nei quali laricca società anglo-indiana si rifugia volentieri durante la stagionedei grandi caldi. Il colonnello aveva sempre rifiutato.

A proposito del viaggio che Banks e io ci proponevamod'intraprendere, gli si era già detto qualcosa. Anche quella sera venne

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 — Il meglio, — dissi io allora, — sarebbe senza dubbio portare lacasa con sé!

 — Lumaca! — esclamò Banks. — Amico mio, — risposi, — una lumaca che potesse lasciare il

suo guscio e rientrarvi a piacere, non sarebbe forse tanto dacompiangere! Viaggiare nella propria casa, una casa che cammina,sarà probabilmente l'ultima parola del progresso in fatto di viaggi!

 — Forse, — disse allora il colonnello Munro; — muoversi purrestando in mezzo al proprio «home», portare con sé il proprioambiente e tutti i ricordi che lo costituiscono, mutaresuccessivamente il proprio orizzonte, modificare il proprio panorama, l'atmosfera, il clima, senza cambiare nulla della propriavita... si... forse!

 — Niente più quei bungalow destinati ai viaggiatori! — rispose ilcapitano Hod, — nei quali il comfort lascia sempre a desiderare, enei quali non si può soggiornare senza un permessodell'amministrazione locale!

 — Niente più orrende locande, dove, moralmente e fisicamente, siè scorticati in tutti i modi! — feci osservare io, non senza le mie

 buone ragioni, — Il carrozzone dei saltimbanchi! — esclamò ilcapitano Hod, — ma un carrozzone modernizzato. Che sogno!Fermarsi quando si vuole, partire quando pare e piace, camminare al passo quando si vuole passeggiare, correre di galoppo appena lo sidesideri, portare con sé non solo la camera da letto, ma anche ilsalotto, la sala da pranzo, la sala da fumo, e soprattutto la cucina e ilcuoco: ecco il progresso, amico Banks! Questo è cento volte megliodelle ferrovie! Osate smentirmi, ingegnere che siete, osatelo!

 — Eh! eh! amico Hod! — rispose Banks, — sarei assolutamentedel vostro parere, se...

 — Se?... — fece il capitano crollando il capo. — Se, nel vostro slancio verso il progresso, non vi foste

 bruscamente fermato per via. — C'è dunque ancora qualcosa di meglio da fare? — Giudicate voi. Voi trovate la casa che cammina molto

superiore al vagone, anche al wagon-salon, persino allo sleeping-cardelle ferrovie. Avete ragione, capitano, se si ha tempo da perdere, se

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 — Supero, ed ecco come. Caro Munro, tutti i motori di cui ilcapitano ha parlato, camminano, trascinano, tirano, ma si stancanoanche. Sono restii, si ostinano, e, soprattutto, mangiano. Ora, nonappena i pascoli vengono a mancare, siccome non è possibile tirarsi

dietro cinquecento acri di praterie, il tiro sì arresta, si stanca, cade,muore di fame, la casa viaggiante non si muove più, e rimaneimmobile come il bungalow nel quale discutiamo in questomomento. Ne consegue dunque che questa casa sarà pratica solo ilgiorno in cui diventerà una casa a vapore.

 — Che correrà su delle rotaie! — esclamò il capitano alzando lespalle.

 — No, su delle strade, — rispose l'ingegnere, — e trascinata daqualche locomotiva stradale perfezionata.

 — Bravo! — esclamò il capitano, — bravo! Dal momento che lavostra casa non correrà più su delle rotaie e che si potrà dirigerla a piacere, senza seguire la vostra imperiosa linea di ferro, ci sto.

 — Ma, — feci osservare a Banks, — se muli, asini, cavalli, buoied elefanti mangiano, anche una macchina mangia, e, se mancherà ilcombustibile, si fermerà per strada.

 — Un cavallo-vapore — rispose Banks, — eguaglia in forza tre oquattro cavalli naturali, e questa forza può essere aumentata ancora.Un cavallo-vapore non va soggetto né alla stanchezza né allamalattia. Con qualunque tempo, sotto tutte le latitudini, sotto il sole,la pioggia, la neve, cammina sempre, senza stancarsi mai. Non devenemmeno temere gli assalti delle fiere né il morso dei serpenti né la puntura dei tafani e d'altri temibili insetti. Non ha bisogno del pungolo né della frusta del conduttore. Il riposo gli è inutile, non ha

mai sonno. Il cavallo-vapore, uscito dalla mano dell'uomo, è, dato ilsuo scopo, e purché non ci si aspetti da lui che possa un giorno esserecotto allo spiedo, superiore a tutti gli animali da tiro che laProvvidenza ha messo a disposizione dell'uomo. Un po' d'olio o digrasso, un po' di carbone o di legna, ecco quanto esso consuma. Ora,lo sapete, amici miei, non sono le foreste che mancano nella penisolaindiana, e la legna vi appartiene a tutti.

 — Ben detto! — esclamò il capitano Hod. — Evviva il cavallo-vapore! Vedo già la casa viaggiante dell'ingegner Banks, trascinata

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sulle strade principali dell'India, che penetra attraverso le jungle, sicaccia sotto le foreste, si arrischia fino nei covi dei leoni, delle tigri,degli orsi, delle pantere, dei leopardi, e noi che, al riparo delle suemura, facciamo ecatombi di belve da far rabbia a tutti i Nemrod,

Anderson, Gerard, Pertuiset, Chassaing del mondo! Ah! Banks, miviene l'acquolina in bocca, e voi mi fate rimpiangere parecchio dinon poter nascere fra una cinquantina d'anni!

 — E perché mai, capitano? — Perché fra cinquantanni, il vostro sogno sarà realizzato, e la

carrozza a vapore si farà. — È fatta, — rispose semplicemente l'ingegnere. — Fatta! e fatta da voi, forse?... — Da me, e, a dir la verità, dovrei temere una sola cosa per lei,

cioè che non debba superare il vostro sogno... — In viaggio, Banks, in viaggio! — esclamò il capitano Hod, che

si alzò come sotto l'effetto di una scarica elettrica. Egli era pronto a partire.

L'ingegnere lo calmò con un cenno; poi, con voce più grave,rivolgendosi a sir Edward Munro:

 — Edward, — gli disse, — se metto a tua disposizione una casaviaggiante, se, fra un mese, quando la stagione sarà adatta, verrò adirti: «Ecco la tua camera che si muoverà e andrà dove tu vorraiandare, ecco i tuoi amici, Maucler, il capitano Hod e io, che nondomandiamo altro che di accompagnarti in un'escursione nel norddell'India», mi risponderai: «Partiamo, Banks, partiamo, e il Dio deiviaggiatori ci protegga»?

 — Sì, amici, — rispose il colonnello Munro, dopo aver riflettuto

un istante. — Banks, metto a tua disposizione tutto il denaronecessario. Mantieni la tua promessa! Procuraci quest'ideale di casa avapore che supererebbe i sogni di Hod, e noi attraverseremo l'interaIndia!

 — Hurrah! hurrah! hurrah! — esclamò il capitano Hod, — e guaialle belve delle frontiere del Nepal!

In quel momento, il sergente Mac Neil, attirato dagli hurrah del

capitano, apparve sulla soglia della casa.

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 — Mac Neil, — gli disse il colonnello Munro, — fra un mese si parte per il nord dell'India. Sarai dei nostri?

 — Necessariamente, colonnello, poiché ci andate voi! — risposeil sergente Mac Neil.

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C  APITOLO III

 LA  RIVOLTA  DEI  CIPAY

POCHE parole faranno conoscere che cosa era l'India al tempo incui comincia questo racconto, e più particolarmente che cosa fuquella terribile insurrezione dei Cipay, di cui bisogna narrare qui i

fatti principali.Fu nel 1600, sotto il regno di Elisabetta, in piena razza del sole, inquella Terra Santa dell'Aryavarta, in mezzo a una popolazione diduecento milioni d'abitanti, centododici milioni dei qualiappartenevano alla religione indù, che venne fondatal'onorevolissima Compagnia delle Indie, nota sotto il nomignoloinglese di «Old John Company».

Inizialmente, era una semplice «associazione di mercanti, che

facevano il traffico con le Indie orientali», alla testa della quale fu posto il duca di Cumberland.

Già verso quel tempo la potenza portoghese, dopo essere statagrande nelle Indie, cominciava a declinare. Perciò gli inglesi,approfittando di questo stato di cose, fecero un primo tentativo diamministrazione politica e militare in quella presidenza del Bengala,la cui capitale, Calcutta, sarebbe diventata il centro del nuovogoverno. Prima di tutto venne ad occupare la provincia il 39°reggimento dell'esercito reale, mandato dall'Inghilterra. Da ciò derivail motto che esso porta ancora sulla bandiera: Primus in Indiis. 

Frattanto, pressappoco nel medesimo periodo, si era fondata, sottoil patronato di Colbert, una compagnia francese. Essa aveva lo stessoscopo della compagnia dei mercanti di Londra. Da questa rivalitàdovevano nascere conflitti d'interesse. Ne seguirono lunghe lotte con

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successi e insuccessi, che diedero lustro ai Dupleix, aiLabourdonnais, ai Lally-Tollendal.6

Alla fine, i francesi, schiacciati dal numero, dovetteroabbandonare il Carnatic, quella parte della penisola che comprende

un tratto della sua costa orientale.Lord Clive, liberatosi dai concorrenti, non temendo più nulla né

dal Portogallo né dalla Francia, si occupò allora di assicurare laconquista del Bengala, di cui lord Hastings venne nominatogovernatore generale. Riforme furono introdotte daun'amministrazione abile e perseverante. Ma, da quel giorno, laCompagnia delle Indie, così potente, anzi così assorbente, vennecolpita direttamente nei suoi interessi più vivi. Alcuni anni più tardi,nel 1784, Pitt introdusse ancora delle modifiche alla sua primitivacostituzione. Il suo scettro dovette passare nelle mani dei consiglieridella Corona. Risultato di quel nuovo ordine di cose: nel 1813, laCompagnia avrebbe perduto il monopolio del commercio delle Indie,e, nel 1833, il monopolio del commercio della Cina.

Tuttavia, se l'Inghilterra non doveva più combattere contro leassociazioni straniere nella penisola, dovette sostenere difficili

guerre, sia con gli antichi padroni del suolo sia con gli ultimiconquistatori asiatici di quel ricco dominio.Sotto lord Cornwallis, nel 1784, vi fu la lotta contro Tippo Sahib,

ucciso il 4 maggio 1799, nell'ultimo attacco sferrato dal generaleHarris contro Seringapatam. Vi fu la guerra contro i Maharatti, popolo di grande schiatta, potentissimo nel secolo XVIII, e la guerracontro i Pindarri, che resistettero tanto coraggiosamente. Vi fu poi laguerra contro i Gurgkha del Nepal, quegli arditi montanari che, nella

durissima prova del 1857, dovevano rimanere fedeli alleati degliinglesi. Infine vi fu la guerra contro i Birmani, dal 1823 al 1824.

6 Joseph Francois Dupleix (1697-1763), governatore generale delle Indie Orientalifrancesi, conquistò Madras e l'Haiderabad; Bertrand Francois de La Bourdonnais

(1699-1755), ufficiale di marina, contribuì validamente alla conquista di Madras;Thomas Arthur Lally de Tollendal, generale francese, ultimo governatore delleIndie francesi. (N.d.T.) 

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 Nel 1828, gli inglesi erano padroni, direttamente o indirettamente,di una gran parte del territorio. Con lord William Bentinck cominciòuna nuova fase amministrativa.

Dopo il riordinamento delle forze militari nell'India, l'esercito

aveva contato sempre due contingenti ben distinti: il contingenteeuropeo e il contingente nativo o indigeno. Il primo costituival'esercito reale, composto di reggimenti di cavalleria, di battaglioni difanteria e di battaglioni di fanteria europea al servizio dellaCompagnia delle Indie; il secondo costituiva l'esercito indigeno, ilquale comprendeva battaglioni di fanteria e battaglioni di cavalleriaregolari, ma indigeni, comandati da ufficiali inglesi. A questo bisognava aggiungere l'artiglieria, il cui personale, appartenente allaCompagnia, salvo poche batterie, era europeo.

Quali erano gli effettivi di questi reggimenti o battaglioni, comesono chiamati indifferentemente nell'esercito reale? Per la fanteriamillecento uomini per battaglione nell'esercito del Bengala, e otto onovecento negli eserciti di Bombay e di Madras; per la cavalleriaseicento sciabole in ogni reggimento dei due eserciti.

Insomma, nel 1857, come stabilisce con gran precisione il signor

Valbezen nella sua pregevolissima opera  Nuovi studi sugli inglesi esull'India, «la forza totale delle tre presidenze poteva essere valutataa duecentomila soldati indigeni e a quarantacinquemila soldatieuropei».

Ora, i Cipay, pur formando un corpo regolare comandato daufficiali inglesi, sentivano una certa velleità di scuotere l'aspro giogodella disciplina europea, che era loro imposto dai conquistatori. Giànel 1806, forse anche sotto l'istigazione del figlio di Tippo Sahib, la

guarnigione dell'esercito indigeno di Madras, acquartierata a Vellore,aveva massacrato la granguardia7  del 69° reggimento dell'esercitoreale, incendiato le caserme, sgozzato gli ufficiali e le loro famiglie,fucilato persino i soldati malati nell'ospedale. Qual era stata la causadi quella ribellione, la causa apparente, per lo meno? Una pretesaquestione di baffi, di pettinatura e di orecchini. In fondo era l'odio deivinti contro gli invasori.

7 Posto della guardia principale in una fortezza, città o accampamento: dà il cambioai piccoli posti. (N.d.T.) 

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complicazioni esterne, si era dovuto ridurre di un poco il contingentedell'esercito reale.

All'inizio di quell'anno, Nana Sahib, altrimenti detto il nababboDandu-Pant, che risiedeva vicino a Cawnpore, si era recato a Delhi,

 poi a Lucknow, allo scopo, senza dubbio, di provocare ilsollevamento preparato da un pezzo.

Infatti, il movimento insurrezionale scoppiava poco tempo dopo la partenza del Nana.

Il governo inglese aveva allora introdotto nell'esercito indigenol'adozione della carabina Enfield, che rende necessario l'uso dicartucce ingrassate. Un giorno, si diffuse la voce che quel grasso eradi vacca o di porco, a seconda che le cartucce erano destinate aisoldati indù o musulmani dell'esercito indigeno.

Ora, in un paese in cui le popolazioni rinunciano a servirsi perfinodel sapone, perché a far parte della sua composizione può entrare ilgrasso d'un animale sacro o vile, l'uso di cartucce coperte di questasostanza - cartucce che bisognava lacerare con i denti - poteva esseredifficilmente accettato. Il governo cedette in parte davanti ai reclamiche gli furono fatti; ma ebbe un bel modificare la manovra della

carabina, assicurare che i grassi in questione non servivano allafabbricazione delle cartucce, non rassicurò e non persuase nessunodell'esercito dei Cipay.

Il 24 febbraio, a Berampore, il 34° reggimento rifiuta le cartucce.A metà del mese di marzo, un maresciallo viene massacrato, e ilreggimento, sciolto dopo l'esecuzione degli assassini, porterà nelle province vicine più attivi fermenti di ribellione.

Il 10 maggio, a Mirat, un po' a nord di Delhi, il 3°, l'11° e il 20°

reggimento si ribellano, uccidono i loro colonnelli e molti ufficiali distato maggiore, saccheggiano la città, poi ripiegano su Delhi. Là, ilrajah, un discendente di Timur, si unisce a loro. L'arsenale cade inloro potere, e gli ufficiali del 54° reggimento sono sgozzati.

L'11 maggio, a Delhi, il maggiore Fraser e i suoi ufficiali vengonospietatamente trucidati dai ribelli di Mirat fin dentro il palazzo delcomandante europeo e, il 16 maggio, quarantanove prigionieri,

uomini, donne, fanciulli, cadono sotto la scure degli assassini.

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Il 20 maggio, il 26° reggimento, accampato presso Lahore, uccideil comandante del porto e il sergente maggiore europeo.

Il via a queste spaventose carneficine era dato.Il 28 maggio, a Nurabad, nuove vittime fra gli ufficiali anglo-

indiani.Il 30 maggio, negli accampamenti di Lucknow, vengono

massacrati il generale comandante la piazza, il suo aiutante di campoe molti altri ufficiali.

Il 31 maggio, a Bareilli, nel Rohilkhand, alcuni ufficiali vengonosorpresi e assassinati mentre non possono nemmeno difendersi.

 Nello stesso giorno, a Schajahanpore, assassinio, da parte deiCipay del 38° reggimento, del ricevitore delle imposte e di un certonumero di ufficiali, mentre il giorno dopo, al di là di Barwar,vengono sgozzati alcuni ufficiali, donne e fanciulli che si erano messiin cammino per recarsi alla stazione di Sivapore, a un miglio daAurangabad.

 Nei primi giorni di giugno, a Bhopal, massacro di una parte della popolazione europea, e a Jansi, dietro istigazione della terribile rhanispodestata, carneficina, con crudeltà di una raffinatezza senza pari,

delle donne e dei fanciulli rifugiati nel forte.Il 6 giugno, ad Allahabad, otto giovani alfieri cadono sotto i colpidei Cipay.

Il 14 giugno, a Gwalior, rivolta di due reggimenti indigeni eassassinio degli ufficiali.

Il 27 giugno, a Cawnpore, prima ecatombe di vittime d'ogni età esesso, fucilate o annegate, preludio dello spaventoso dramma chedoveva compiersi poche settimane più tardi.

A Holkar, il 1° luglio, massacro di trentaquattro europei, ufficiali,donne, fanciulli, saccheggio o incendio; a Ugow, nello stesso giorno,assassinio del colonnello e del maresciallo del 23° reggimentodell'esercito reale.

Il 15 luglio, secondo eccidio a Cawnpore. Quel giorno, moltecentinaia di fanciulli e di donne, e fra queste lady Munro, vengonosgozzate con una crudeltà senza pari per ordine del Nana in persona,

il quale chiamò in aiuto i beccai musulmani dei macelli. Orribile

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carneficina, dopo la quale i corpi vennero gettati in un pozzo, rimastoleggendario.

Il 26 settembre, su una piazza di Lucknow, che ora si chiama la«Piazza delle Lettighe», molti feriti vengono fatti a pezzi a sciabolate

e gettati, ancora vivi, nelle fiamme.E poi, molte altre uccisioni isolate, nelle città e nelle campagne,

che diedero a quella rivolta un orribile carattere d'atrocità!A quelle carneficine, del resto, i generali inglesi risposero subito

con rappresaglie, - necessarie senza dubbio, poiché finirono conl'ispirare il terrore del nome inglese fra i ribelli — che tuttavia furonoveramente spaventose!

All'inizio dell'insurrezione, a Lahore, il ministro della GiustiziaMontgomery e il generale Corbett avevano potuto disarmare, senzaversare sangue, protetti da dodici cannoni con la miccia accesa, ireggimenti 8°, 16°, 26° e 49° dell'esercito indigeno. A Moultan, ireggimenti indigeni 62° e 29° avevano dovuto anch'essi rendere learmi, senza poter tentare una seria resistenza.

Anche a Peschawar, i reggimenti 24°, 27° e 51° furono disarmatidal generale S. Colton e dal colonnello Nicholson nel momento in

cui la rivolta stava per scoppiare. Ma poiché alcuni ufficiali del 51°reggimento erano fuggiti sulle montagne, sulle loro teste venne postauna taglia e, in breve, furono riportate tutte dai montanari.

Era l'inizio delle rappresaglie.Una colonna, comandata dal colonnello Nicholson, fu lanciata

allora contro un reggimento indigeno, che marciava verso Delhi. Iribelli non tardarono ad essere raggiunti, battuti, dispersi, ecentoventi prigionieri rientrarono a Peschawar. Tutti indistintamente

furono condannati a morte; ma uno solo su tre doveva esseregiustiziato. Dieci cannoni furono allineati sul campo di manovre, aciascuna delle loro bocche venne legato un prigioniero e cinque voltei dieci cannoni fecero fuoco, coprendo la pianura di avanzi informi,in mezzo a un'atmosfera appestata dalla carne bruciata.

Questi giustiziati, secondo il signor di Valbezen, morirono quasitutti con quell'eroica indifferenza che gli indiani sanno conservare

così bene di fronte alla morte. — Signor capitano, — disse a unodegli ufficiali che presiedevano all'esecuzione un bel Cipay ventenne

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accarezzando indifferentemente con la mano lo strumento di morte, — signor capitano, non c'è bisogno che mi leghino, non hointenzione di fuggire.

Quella fu la prima e orribile esecuzione, che doveva essere seguita

da tante altre.Ecco, del resto, l'ordine del giorno che a quella stessa data, a

Lahore, il generale di brigata Chamberlain portava a conoscenzadelle truppe indigene, dopo l'esecuzione di due Cipay del 55°reggimento:

«Avete appena visto legare vivi alla bocca dei cannoni e fare a pezzi due dei vostri compagni; questo sarà il castigo di tutti itraditori. La vostra coscienza vi dirà quali pene subiranno nell'altromondo. I due soldati sono stati uccisi con il cannone e non con laforca, perché ho desiderato risparmiare loro la vergogna del contattodel carnefice e provare così che il governo, anche in questi giorni dicrisi, non vuol far nulla che possa ferire minimamente i vostri pregiudizi di religione e di casta».

Il 30 luglio, milleduecentotrentasette prigionieri cadevanosuccessivamente davanti al plotone d'esecuzione, e altri cinquanta

sfuggivano all'estremo supplizio solo per morire di fame e disoffocamento nella prigione in cui erano stati rinchiusi.Il 28 agosto, di ottocentosettanta Cipay che fuggivano da Lahore,

seicentocinquantanove venivano spietatamente trucidati dai soldatidell'esercito reale.

Il 23 settembre, dopo la presa di Delhi, tre principi della famigliareale, l'erede presunto e i suoi due cugini, si arrendevano senzacondizioni al generale Hodson, che li condusse con una scorta di

cinque uomini soltanto, in mezzo a una folla minacciosa dicinquemila indù, uno contro mille. Eppure, a mezza strada, Hodsonfece fermare il carro che portava i prigionieri, salì accanto a loro,ordinò loro di scoprirsi il petto, e li uccise tutti e tre a colpi dirivoltella. «Questa sanguinosa esecuzione, per mano di un ufficialeinglese», dice il signor di Valbezen, «doveva suscitare nel Pendjab la più alta ammirazione».

Dopo la caduta di Delhi, tremila prigionieri, fra i quali ventinovemembri della famiglia reale, morirono o sulla forca o uccisi a

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cannonate. L'assedio di Delhi, per la verità, era costato agli assediantiduemilacentocinquantuno europei e milleseicentottantasei indigeni.

Ad Allahabad, si fecero orribili carneficine umane, non più tra iCipay, ma tra la popolazione più misera che alcuni fanatici avevano

trascinata quasi inconsciamente al saccheggio.A Lucknow, il 16 novembre, duemila Cipay fucilati al Sikander

Bagh coprivano con i loro cadaveri uno spazio di centoventi metriquadrati.

A Cawnpore, dopo la carneficina, il colonnello Neil obbligava icondannati, prima di consegnarli alla forca, a leccare e a pulire con lalingua, proporzionalmente alla loro casta, ogni macchia di sanguerimasta nella casa in cui erano perite le vittime. Per quegli indù eraun far precedere il disonore alla morte.

Durante la spedizione nell'India centrale, le esecuzioni dei prigionieri furono incessanti, e, sotto i colpi di fucile, «mura di carneumana crollavano a terra»!

Il 9 marzo 1858, nell'assalto della Casa Gialla, durante il secondoassedio di Lucknow, dopo una spaventosa decimazione di Cipay,sembra ormai certo che uno di quei disgraziati fu arrostito vivo dai

Sikh addirittura sotto gli occhi degli ufficiali inglesi.Il giorno 11, a Lucknow, cinquanta corpi di Cipay giacevano neifossati del palazzo della begum, senza che un solo ferito venisserisparmiato dai soldati frenetici.

Infine, in dodici giorni di combattimenti, tremila indigenimorivano impiccati o fucilati, e fra questi trecentottanta fuggitiviammucchiati sulla isola di Hidaspe, i quali avevano cercato disalvarsi fino al Cashmir.

Insomma, senza tener conto del numero dei Cipay uccisi con learmi alla mano durante quella spietata repressione, - repressione chenon ammetteva prigionieri, - soltanto nella campagna del Pendjab, sicontano non meno di seicentoventotto indigeni fucilati o attaccati alle bocche dei cannoni per ordine dell'autorità militare,milletrecentosettanta per ordine dell'autorità civile, trecentottantaseiimpiccati per ordine delle due autorità.

In totale, all'inizio del 1859 si valutava a più di centoventimila ilnumero degli ufficiali e dei soldati indigeni uccisi, e a più di

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duecentomila quello dei civili indigeni che pagarono con la vita laloro partecipazione, spesso dubbia, all'insurrezione. Terribilirappresaglie, contro le quali, forse non senza ragione, Gladstone protestò con energia al parlamento inglese.

Per la narrazione che seguirà, era importante fare, da una parte edall'altra, il bilancio di questa necrologia. Era necessario per farcomprendere al lettore quale odio insaziato doveva rimanere tantonel cuore dei vinti, assetati di vendetta, quanto in quello dei vincitori,che, dieci anni dopo, portavano ancora il lutto delle vittime diCawnpore e di Lucknow.

Quanto ai fatti puramente militari di tutta la campagna intrapresacontro i ribelli, essi comprendono le spedizioni seguenti, checiteremo sommariamente.

Per prima viene la prima campagna del Pendjab, che costò la vitaa sir John Laurence.

Poi segue l'assedio di Delhi, capitale dell'insurrezione, rafforzatada migliaia di fuggitivi, e nella quale Mohammed Schah Bahadur fu proclamato imperatore dell'Indostan. — Fatela finita con Delhi —aveva imperiosamente ordinato il governatore generale in un ultimo

dispaccio al comandante in capo, e l'assedio, cominciato la notte del13 giugno, terminava il 19 settembre, dopo essere costato la vita aigenerali sir Harry Barnard e John Nicholson.

Contemporaneamente, dopo che Nana Sahib si fu fatto dichiararePeischwah e incoronare nella fortezza di Bilhur, il generale Havelockmarciava su Cawnpore. Vi entrava il 17 luglio, ma troppo tardi perimpedire l'ultima carneficina e impadronirsi del Nana, che potéfuggire con cinquemila uomini e quaranta cannoni.

Dopo ciò, Havelock intraprendeva una prima campagna nel regnodi Oudh, e il 28 luglio passava il Gange con millesettecento uomini edieci cannoni soltanto, dirigendosi verso Lucknow.

Sir Colin Campbell e il maggiore generale sir James Outramentravano allora in scena. L'assedio di Lucknow doveva durareottantasette giorni, e costare la vita a sir Henry Lawrence e algenerale Havelock. Quindi Colin Campbell, dopo essere stato

costretto a ritirarsi su Cawnpore, di cui s'impadronivadefinitivamente, si preparava a una seconda campagna.

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In quello stesso periodo, altre truppe liberavano Mohir, una dellecittà dell'India centrale, e compivano una spedizione attraverso ilMalwa, che ristabiliva l'autorità inglese in quel regno.

All'inizio dell'anno 1858, Campbell e Outram ricominciavano una

seconda campagna nell'Oudh, con quattro divisioni di fanteria,comandate dai maggiori generali sir James Outram, sir EdwardLugar e dai generali di brigata Walpole e Franks. La cavalleria erasotto il comando di sir Hope Grant, i corpi speciali sotto quello diWilson e di Robert Napier, in tutto circa venticinquemilacombattenti, che il maharajah del Nepal doveva raggiungere condodicimila Gurgkha. Ma l'esercito ribelle della begum non contavameno di centoventimila uomini, e la città di Lucknow sette oottocentomila abitanti. Il primo attacco venne dato il 6 marzo. Il 16,dopo una serie di combattimenti nei quali caddero il capitano divascello sir William Peel e il maggiore Hodson, gli inglesi erano in possesso della parte della città posta sul Gumti. Nonostante questivantaggi, la begum e suo figlio resistevano ancora nel palazzo diMusa-Bagh, all'estremità nord-ovest di Lucknow, e il Mulvi, capomusulmano della rivolta, rifugiato nel centro stesso della città,

rifiutava di arrendersi. Il 19, un attacco di Outram e il 21 uncombattimento fortunato confermavano finalmente agli inglesi il pieno possesso di quel temibile baluardo dell'insurrezione dei Cipay.

 Nel mese di aprile, la ribellione entrava nella sua fase finale.Veniva fatta una spedizione nel Rohilkhand, dove gli insorti fuggitivisi erano recati in gran numero. Bareilli, capitale del regno, fu il primoobiettivo dei capi dell'esercito reale. Gli inizi non furono felici. Gliinglesi subirono una specie di disfatta a Judgespore; il generale di

 brigata Adrien Hope fu ucciso. Ma verso la fine del mese giungevaCampbell e, ripresa Schajahanpore, il 5 maggio attaccava Bareilli,copriva di fuoco la città e se ne impadroniva, senza aver potutoimpedire ai ribelli di evacuarla.

Frattanto, nell'India centrale cominciavano le campagne di sirHugh Rose. Questo generale, agli inizi del gennaio 1858, marciavasu Saungor, attraverso il regno di Bhopal, ne liberava la guarnigione

il 3 febbraio, dieci giorni dopo espugnava il forte di Gurakota,forzava le gole della catena dei Vindhya al colle di Mandanpore,

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 passava il Betwa, giungeva davanti a Jansi, difesa da undicimilaribelli, agli ordini della truce rhani, la assaliva il 22 marzo, con uncaldo torrido, staccava duemila uomini dall'esercito assediante persbarrare la strada a ventimila uomini del contingente di Gwalior,

condotti dal famigerato Tantia-Topi, respingeva questo capo ribelle,attaccava la città il 2 aprile, forzava le mura, si impadroniva dellacittadella, da cui la rhani riusciva a fuggire, riprendeva le operazionicontro il forte di Calpi, dove la rhani e Tantia-Topi avevano deciso dimorire, e se ne impadroniva il 22 maggio, dopo un eroico assalto,continuava l'impresa inseguendo la rhani e il suo compagno, che sierano rifugiati a Gwalior, vi concentrava il 16 giugno le sue due brigate che venivano raggiunte da un rinforzo del generale Napier,schiacciava i ribelli a Morar, conquistava la piazza il 18, e ritornava aBombay, dopo una campagna trionfale.

Fu precisamente in uno scontro d'avamposti davanti a Gwalior,che morì la rhani. Questa terribile regina, devota anima e corpo alnababbo, la sua più fedele compagna durante l'insurrezione, fu uccisadalla mano dello stesso sir Edward Munro. Nana Sahib sul cadaveredi lady Munro, a Cawnpore, il colonnello sul cadavere della rhani, a

Gwalior, erano due uomini, nei quali si compendiavano la rivolta e larepressione, due nemici, l'odio dei quali avrebbe avuto effettiterribili, se si fossero ritrovati faccia a faccia!

Da quel momento si può considerare la rivolta come domata,tranne forse in qualche parte del regno di Oudh. Campbell ritornadunque in campagna il 2 novembre, si impadronisce delle ultime posizioni dei ribelli e obbliga alcuni capi importanti a sottomettersi.Tuttavia uno di loro, Beni Madho, non viene preso. Si viene a sapere

in dicembre che si è rifugiato in un distretto limitrofo del Nepal. Sidà per sicuro che Nana Sahib, Balao Rao, suo fratello, e la begum diOudh sono con lui. Più tardi, durante gli ultimi giorni dell'anno, correvoce che sono andati a cercare asilo sul Rapti, ai limiti dei regni del Nepal e dell'Oudh. Campbell li serra da vicino, ma essi passano lafrontiera. Fu soltanto nei primi giorni del febbraio 1859 che una brigata inglese, uno dei reggimenti della quale era sotto il comando

del colonnello Munro, poté inseguirli fino nel Nepal. Beni Madhovenne ucciso, la begum di Oudh e suo figlio furono fatti prigionieri, e

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ottennero il permesso di risiedere nella capitale del Nepal. Quanto a Nana Sahib e a Balao Rao, per un pezzo furono creduti morti. Non loerano.

Ad ogni modo, la formidabile insurrezione era distrutta. Tantia-

Topi, consegnato dal suo luogotenente Man Singh e condannato amorte, veniva giustiziato, il 15 aprile, a Sipri. Questo ribelle «figuraveramente notevole del gran dramma dell'insurrezione indiana», diceil signor di Valbezen, «e che diede prova d'un genio politico pieno dicombinazioni e d'audacia», morì coraggiosamente sul patibolo.

Tuttavia, la fine di quella rivolta dei Cipay, che sarebbe forsecostata l'India agli inglesi, se si fosse estesa a tutta la penisola, esoprattutto se la ribellione fosse stata nazionale, doveva provocare lacaduta dell'onorevole Compagnia delle Indie.

Infatti, la Corte dei Direttori era stata minacciata di decadenza dalord Palmerston fin dalla fine dell'anno 1857.

Il primo novembre 1858, un proclama, pubblicato in venti lingue,annunciava che S. M. Vittoria Beatrice, regina d'Inghilterra, prendeva lo scettro dell'India, di cui, alcuni anni più tardi, dovevaessere incoronata imperatrice.

Ciò fu opera di lord Stanley. Il titolo di governatore, sostituito daquello di viceré, un segretario di Stato e quindici membri componentiil governo centrale, i membri del Consiglio dell'India presi fuori delservizio indiano, i governatori delle presidenze di Madras e diBombay nominati dalla regina, i membri del servizio indiano e icomandanti supremi scelti dal segretario di Stato, ecco le principalidisposizioni del nuovo governo.

Quanto alle forze militari, l'esercito reale conta oggi

diciassettemila uomini di più che non al tempo della rivolta deiCipay, ossia cinquantadue reggimenti di fanteria, nove reggimenti difucilieri e un'artiglieria considerevole, con cinquecento sciabole perreggimento di cavalleria e settecento baionette per reggimento difanteria.

L'esercito indigeno si compone di centotrentasette reggimenti difanteria e quaranta di cavalleria; ma la sua artiglieria è, quasi senza

eccezione, europea.

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Questo è lo stato attuale della penisola dal punto di vistaamministrativo e militare, questi sono gli effettivi delle forze checustodiscono un territorio di quattrocentomila miglia quadrate.

«Gli inglesi», dice giustamente il signor Grandidier, «sono stati

fortunati a trovare in questo grande e magnifico paese un popolomite, industrioso, incivilito e avvezzo da un pezzo a tutti i gioghi. Ma badino bene che la dolcezza ha i suoi limiti; facciano che il giogonon sia troppo pesante, altrimenti le teste un giorno si rialzeranno elo spezzeranno».

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C  APITOLO IV

 NELLE  GROTTE   DI  ELLORA

ERA FIN troppo vero. Il principe maharatto Dandu-Pant, il figlioadottivo di Baji-Rao, Peischwah di Punah, in una parola, Nana Sahib,forse a quel tempo l'unico superstite dei capi della rivolta dei Cipay,

aveva potuto lasciare il suo inaccessibile rifugio del Nepal.Coraggioso, audace, avvezzo ad affrontare i pericoli immediati, abilenello sviare gli inseguimenti, esperto nell'arte di confondere le suetracce, profondamente astuto, egli si era avventurato fino nelle province del Deccan, sotto l'ispirazione sempre viva di un odio che leterribili rappresaglie dell'insurrezione del 1857 non avevano fatto chedecuplicare.

Sì! era un odio mortale quello che il Nana aveva votato ai

conquistatori dell'India. Egli era l'erede di Baji-Rao, e quando ilPeischwah morì nel 1851, la Compagnia r ifiutò di continuare aversargli la pensione di otto lakhs di rupie,9  alla quale egli avevadiritto. Questa era una delle cause di quell'odio che doveva portare aimaggiori eccessi.

Ma che cosa sperava dunque Nana Sahib? Da otto anni la rivoltadei Cipay era interamente domata. Il governo inglese si era a poco a poco sostituito all'onorevole Compagnia delle Indie, e teneva l'intera penisola sotto una autorità ben altrimenti forte di quelladell'Associazione dei mercanti. Della rivolta non rimanevano tracce,nemmeno nelle file dell'esercito indigeno, interamente riordinato sunuove basi. Il Nana pretendeva forse di riuscire a fomentare unmovimento nazionale fra le basse classi dell'Indostan? Sapremo fra poco i suoi piani. In ogni caso, egli non ignorava più che la sua presenza era stata segnalata nella provincia di Aurangabad, che il

9 Due milioni di franchi. (N.d.A.) 

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governatore generale ne aveva avvertito il viceré, a Calcutta, e chesulla sua testa era stata messa una taglia. Certo è che egli avevadovuto fuggire precipitosamente, e che doveva rifugiarsi ancora in unasilo ben nascosto per sfuggire alle ricerche degli agenti della polizia

anglo-indiana.Il Nana, in quella notte dal 6 al 7 marzo, non perse un'ora.

Conosceva perfettamente il paese. Decise di recarsi a Ellora, posta aventicinque miglia da Aurangabad, per raggiungervi uno dei suoicomplici.

La notte era buia. Il falso fachiro, dopo essersi assicurato chenessuno lo inseguiva, si diresse verso il mausoleo, eretto a pocadistanza dalla città, in onore del maomettano Sha-Sufi, un santo lecui reliquie hanno fama di operare guarigioni. Ma tutti dormivano inquel momento nel mausoleo, preti e pellegrini, e il Nana poté passaresenza essere disturbato da domande indiscrete.

Tuttavia, l'oscurità non era tanto fitta che, quattro leghe più anord, il blocco di granito su cui sorge il forte imprendibile diDaoulutabad e che si erge in mezzo a una pianura fino a un'altezza diduecentoquaranta piedi, potesse nascondere allo sguardo il suo

enorme profilo. Il nababbo, scorgendolo, si ricordò che uno degliimperatori del Deccan, uno dei suoi avi, aveva voluto fare la propriacapitale della grande città che un tempo sorgeva ai piedi di quel forte.E in verità, quella sarebbe stata una posizione inespugnabile, fattaveramente per diventare il centro d'un movimento insurrezionale inquella parte dell'India. Ma Nana Sahib volse il capo, e non ebbe cheuno sguardo d'odio per quella fortezza ormai nelle mani dei suoinemici.

Passata quella pianura, apparve una regione più accidentata. Eranole prime ondulazioni di un suolo che stava per farsi montagnoso. Il Nana, ancora in tutta la forza dell'età, non rallentò il passo,affrontando pendii già ripidi. In quella notte egli voleva percorrereventicinque miglia, voleva, cioè, superare la distanza che separaEllora da Aurangabad. Là, egli sperava di poter riposare in pienasicurezza. Perciò non volle fermarsi né in un caravanserraglio, aperto

al primo arrivato, che trovò sulla sua strada, né in un bungalow semi-

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rovinato, dove avrebbe potuto dormire un'ora o due, nel cuore della parte arretrata della montagna.

Allo spuntar del sole, il villaggio di Rauzah, che custodisce latomba semplicissima del più grande degli imperatori mongoli,

Aurangzeb, fu aggirato dal fuggitivo. Era finalmente giunto a quelfamoso gruppo di grotte scavate che hanno preso il nome di Elloradal piccolo villaggio vicino.

La collina nella quale sono state aperte quelle grotte, circa unatrentina, ha la forma di una mezza luna. Quattro templi, ventiquattromonasteri buddistici, alcune grotte meno importanti, eccone imonumenti. La cava di basalto è stata largamente sfruttata dallamano dell'uomo. Ma le pietre ne sono state estratte non per costruirei capolavori sparsi qua e là sull'immensa superficie della penisoladagli architetti indiani, nei primi secoli dell'era cristiana. No! Le pietre sono state tolte semplicemente per aprire nella massa compattaquei vani che sono diventati dei chaitya o dei vihara, secondo la lorodestinazione.

Il più straordinario fra questi templi è quello dei Kaila.Immaginatevi un masso alto centoventi piedi, con seicento piedi di

circonferenza. Questo masso, con incredibile audacia, venne tagliatonella montagna stessa, isolato in mezzo a un gran cortile lungotrecentosessanta piedi e largo centottantasei, cortile conquistato dal piccone a spese della cava di basalto. Quel blocco così isolato venne poi scolpito dagli architetti come uno scultore avrebbe fatto d'un pezzo d'avorio. All'esterno, essi hanno fatto delle colonne, foggiatodelle piccole piramidi, arrotondato delle cupole, risparmiando laroccia necessaria per ottenere il risalto dei bassorilievi, nei quali certi

elefanti più grandi del vero sembra che sorreggano l'intero edificio;all'interno hanno scavato una grande sala, circondata di cappelle, lacui volta riposa sopra colonne staccate dalla massa totale. Infine, diquel monolito, essi hanno fatto un tempio, che non è stato«fabbricato», nel vero senso della parola, ma un tempio unico almondo, degno di gareggiare con i più meravigliosi edifici dell'India,e che non ha nulla da perdere nemmeno se paragonato agli ipogei

dell'antico Egitto.

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Il Nana mangiò e bevve senza pronunciare parola. Moriva di famee di stanchezza. Tutta la sua vita si era concentrata allora negli occhiche scintillavano nell'ombra come le pupille di una tigre.

L'indù, senza fare un movimento, aspettava che il nababbo si

decidesse a parlare.Quell'uomo era Balao Rao, fratello di Nana Sahib.Balao Rao, fratello maggiore di Dandu-Pant, ma di un anno

appena, gli somigliava tanto da esser preso per lui. Moralmente poiera Nana Sahib tale e quale. Stesso odio per gli inglesi, stessa astuzianei piani, identica crudeltà nell'esecuzione, un'anima sola in duecorpi. Durante tutta l'insurrezione, i due fratelli non si erano mailasciati. Dopo la disfatta, il medesimo accampamento della frontieradel Nepal aveva dato loro asilo. Ed ora, congiunti da quell'unico pensiero di ricominciare la lotta, si ritrovavano entrambi pronti adagire.

Quando il Nana, ristorato da quel pasto divorato frettolosamente,ebbe ricuperato le forze, rimase, per qualche tempo, con la testa fra lemani. Balao Rao, credendo che volesse riposarsi con qualche ora disonno, stava sempre in silenzio.

Ma Dandu-Pant, rialzando il capo, afferrò la mano del fratello, econ voce sorda: — Sono stato segnalato nella presidenza di Bombay! — disse. —

Il governatore della presidenza ha messo una taglia sulla mia testa! Si promettono duemila sterline a chi consegnerà Nana Sahib!

 — Dandu-Pant! — esclamò Balao Rao, — la tua testa vale di più!Sarebbe appena il prezzo della mia, e, prima che siano passati tremesi, sarebbero ben contenti di averle tutte e due per ventimila!

 — Sì, — rispose il Nana, — fra tre mesi, il 23 giugno, èl'anniversario di quella battaglia di Plassey, il cui centenario, nel1857, doveva vedere la fine della dominazione inglese el'emancipazione della razza che viene dal sole! I nostri profeti loavevano predetto! I nostri bardi lo avevano cantato! Fra tre mesi,fratello, saranno passati centonove anni, e l'India è ancora calpestatadal piede degli invasori.

 — Dandu-Pant, — rispose Balao Rao, — ciò che non è riuscitonel 1857 può e deve riuscire dieci anni dopo. Nel 1827, nel 1837, nel

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1847 ci sono state sommosse in India! Ogni dieci anni, gli indù sonoripresi dalla febbre della rivolta! Ebbene, quest'anno guariranno bagnandosi in un mare di sangue europeo!

 — Brahma ci guidi, — mormorò il Nana — e allora, supplizio per

supplizio! Sventura sui capi dell'esercito reale che non sono cadutisotto i colpi dei nostri Cipay! Lawrence è morto, Barnard è morto,Hope è morto, Napier è morto, Hodson è morto, Havelock è morto!Ma alcuni sono sopravvissuti! Campbell, Rose, vivono ancora, e conloro quello che io odio più di tutti, il colonnello Munro, ildiscendente di quel carnefice che per primo fece legare degli indùalla bocca dei cannoni, l'uomo che ha ucciso con le sue mani la miacompagna, la rhani di Jansi! Che egli cada in mio potere, e vedrà seho dimenticato gli orrori del colonnello Neil, i massacri del SikanderBagh, gli sgozzamenti del palazzo della begum, di Bareilli, di Jansi,di Morar, dell'isola di Hidaspe e di Delhi! Vedrà se ho dimenticatoche egli ha giurato la mia morte, come io ho giurato la sua!

 — Non ha lasciato l'esercito? — domandò Balao Rao. — Oh! — rispose Nana Sahib, — ai primi sollevamenti riprenderà

servizio! Ma se l'insurrezione abortisce, andrò a pugnalarlo fin nel

suo bungalow di Calcutta! — Sta bene, e ora?... — Ora, bisogna continuare l'opera cominciata. Questa volta il

movimento sarà nazionale. Nelle città, nei campi, gli indù sisollevino, e presto i Cipay avranno fatto causa comune con loro. Ho percorso il centro e il nord del Deccan. Dappertutto ho trovato glianimi disposti alla rivolta. Non c'è città, non c'è villaggio, in cui nonabbiamo dei capi pronti ad agire. I bramini renderanno il popolo

fanatico. La religione, questa volta, trascinerà i settari di Siva e diVishnu. Al momento fissato, al segnale convenuto, milioni di indùinsorgeranno, e l'esercito reale sarà distrutto!

 — E Dandu-Pant?... — domandò Balao Rao, afferrando la manodi suo fratello.

 — Dandu-Pant, — rispose il Nana, — non sarà soltanto ilPeischwah incoronato nella fortezza di Bilhur! Egli sarà il sovrano

della terra sacra delle Indie!

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Detto ciò, Nana Sahib con le braccia conserte, lo sguardo perdutodi chi osserva, non più il passato o il presente, ma l'avvenire, rimasesilenzioso.

Balao Rao si guardava bene dall'interromperlo. Amava lasciare

che quello spirito truce si infiammasse delle proprie idee, e, nel caso,egli era là per attizzare tutto il fuoco che covava in lui. Nana Sahibnon poteva aver un complice più strettamente legato alla sua persona,un consigliere più ardente a spingerlo verso la meta. L'abbiamo detto,egli era un altro lui stesso.

Il Nana, dopo alcuni minuti di silenzio, risollevò il capo e ritornòal momento presente.

 — Dove sono i nostri compagni? — domandò. — Nelle caverne di Adjuntah, dove è stato convenuto che ci

avrebbero atteso, — rispose Balao Rao. — E i nostri cavalli? — Li ho lasciati a un tiro di fucile, sulla strada che conduce da

Ellora a Boregami. — È Kâlagani che li custodisce? — Proprio lui, fratello. Son ben custoditi, ben rifocillati, ben

riposati, e non aspettano che noi per partire. — Partiamo dunque, — rispose il Nana. — Bisogna che siamo adAdjuntah prima dell'alba.

 — E dopo, — domandò Balao Rao, — dove andremo? Questafuga precipitosa non ha contrariato i tuoi piani?

 — No, — rispose Nana Sahib. — Ci recheremo ai montiSautpurra, di cui conosco tutte le gole, e in mezzo ai quali possosfidare le ricerche della polizia inglese. Là, del resto, saremo sul

territorio dei Bilh e dei Gound, che sono rimasti fedeli alla nostracausa. Là potrò aspettare il momento favorevole, nel cuore di quellamontagnosa regione dei Vindhya, dove il fermento della rivolta èsempre pronto a manifestarsi!

 — Andiamo! — rispose Balao Rao. — Ah! hanno promessoduemila sterline a chi si impadronirà di te! Ma non basta mettere unataglia su una testa, bisogna prenderla!

 — Non la prenderanno, — rispose Nana Sahib. — Vieni, fratello,senza perdere un istante, vieni!

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Balao Rao avanzò con passo sicuro lungo lo stretto corridoio checonduceva a quell'oscuro recesso scavato sotto il pavimento deltempio. Quando fu giunto all'apertura nascosta dalla groppadell'elefante di pietra, spinse fuori prudentemente il capo, guardò

nell'ombra a destra e a sinistra, si accertò che tutto intorno fossedeserto, e si arrischiò a uscire. Per colmo di precauzione, fece unaventina di passi per il viale che si svolgeva lungo l'asse del tempio; poi, non avendo veduto nulla di sospetto, fece un fischio, indicandoal Nana che la via era Ubera.

Alcuni istanti dopo, i due fratelli lasciavano quella vallataartificiale, lunga mezza lega, che è tutta traforata di gallerie, di volte,di scavi, che in alcuni punti si sovrappongono fino a grande altezza.Evitarono di passare accanto a quel mausoleo maomettano che serveda bungalow ai pellegrini o ai curiosi di tutte le nazionalità, attrattidalle meraviglie di Ellora; e finalmente, dopo aver fatto il giro delvillaggio di Rauzah, si trovarono sulla strada che congiungeAdjuntah a Boregami.

La distanza da percorrere, da Ellora a Adjuntah, era di cinquantamiglia (ottanta chilometri circa); ma il Nana allora non era più il

fuggitivo che scappava a piedi da Aurangabad, senza mezzi ditrasporto. Come aveva detto Balao Rao, tre cavalli lo aspettavanosulla via, custoditi dall'indù Kâlagani, fedele servitore di Dandu-Pant. I cavalli erano stati nascosti in un bosco folto, a un miglio dalvillaggio. Uno era destinato al Nana, l'altro a Balao Rao, il terzo aKâlagani, e poco dopo galoppavano tutti e tre in direzione diAdjuntah. Nessuno, del resto, si sarebbe stupito di vedere un fachiroa cavallo. Infatti, parecchi di questi sfrontati mendicanti chiedono

l'elemosina dall'alto della loro cavalcatura.Per di più, la strada era poco frequentata in quel periodo dell'anno,

meno favorevole ai pellegrinaggi. Il Nana e i suoi due compagni, perciò, procedevano rapidamente senza temere nulla che potesse darloro fastidio o ritardarli. Si concedevano solo il tempo di far respirarele loro bestie, e, durante quelle brevi soste, attingevano alle provvisteche Kâlagani portava appese all'arcione della propria sella. Evitarono

così le parti più frequentate della provincia, i bungalow e i villaggi,fra cui la borgata di Roja, triste ammasso di case nere che il tempo ha

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affumicato, come le cupe abitazioni della Cornovaglia, e Pulmary, piccolo borgo sperduto fra le piantagioni di un paese già selvaggio.

Il suolo era unito e piano. In tutte le direzioni si estendevanocampi di erica solcati da boschetti di fitta jungla. Ma la regione si

fece più accidentata a mano a mano che ci si avvicinava a Adjuntah.Le superbe grotte che portano questo nome, rivali delle

meravigliose grotte di Ellora, e forse più belle nel loro insieme,occupano la parte inferiore di una piccola valle, a mezzo miglio circadalla città.

 Nana Sahib poteva dunque evitare di passare da Adjuntah, dove ilmanifesto del governatore doveva essere già affisso, Di conseguenza,nessun timore d'essere riconosciuto.

Così, quindici ore dopo aver lasciato Ellora, i suoi due compagni elui si inoltravano in una stretta gola, che conduceva alla celebre valle,in cui ventisette templi, tagliati alla lettera nella roccia, si ergono suabissi vertiginosi.

La notte era superba, tutta scintillante di costellazioni, ma senzaluna. Numerosi alberi d'alto fusto, dei baniani, alcuni di quei bar chestanno fra i giganti della flora indiana, spiccavano neri sul fondo

stellato del cielo. Non un alito di vento attraversava l'atmosfera, nonuna foglia si muoveva, non un rumore si faceva udire, tranne il sordomormorio di un torrente, che scorreva qualche centinaio di piedi piùsotto, in fondo al burrone. Ma quel mormorio crebbe fino a divenireun vero muggito, quando i cavalli ebbero raggiunto la cascata delSatkhund, che precipita da un'altezza di cinquanta tese, rompendosisulle creste delle rocce di quarzo e di basalto. Una liquida polvereturbinava nella gola, e si sarebbe tinta dei sette colori dell'arcobaleno,

se la luna avesse illuminato l'orizzonte in quella bella notte di primavera.

Il Nana, Balao Rao e Kâlagani erano arrivati. Alla brusca svoltadella gola, che in quel punto fa un gomito, si apriva la vallata,arricchita dai capolavori dell'architettura buddistica. Là sui muri diquei templi, ornati a profusione di colonne, di rosoni, di arabeschi, diverande, popolati di figure colossali di animali dalle forme

fantastiche, pieni di cupe celle, che un tempo erano abitate daisacerdoti, custodi di quelle sacre dimore, l'artista può ancora

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In quel momento il treno di Calcutta passava velocissimo,gettando il suo fumo bianco verso i superbi baniani della via e i suoimuggiti alle fiere spaventate delle jungle.

Il nababbo aveva fermato il proprio cavallo, e con voce forte e con

la mano tesa verso il treno che fuggiva: — Va', — esclamò — va' a dire al viceré dell'India che Nana

Sahib è ancora vivo, e che annegherà nel sangue degli invasoriquesta ferrovia, opera maledetta delle loro mani.

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C  APITOLO V

 IL GIGANTE   D'ACCIAIO

 NON RICORDO stupore maggiore di quello di cui i passanti fermisulla grande strada che va da Calcutta a Chandernagor, uomini,donne, fanciulli, tanto indù quanto inglesi, davano segni

inequivocabili il mattino del 6 maggio. Per la verità, un profondosenso di meraviglia era naturalissimo.Infatti, all'alba, da uno degli ultimi sobborghi della capitale

dell'India, fra due dense file di curiosi, usciva un bizzarroequipaggio, se si può dare questo nome allo stupefacente complessoche risaliva la sponda dell'Hougly.

In testa e come unico motore del convoglio, un elefantegigantesco, alto venti piedi, lungo trenta, largo in proporzione,

avanzava tranquillamente e misteriosamente. La sua proboscide eraincurvata, come un'enorme cornucopia, con la punta in aria. Le suezanne, tutte dorate, uscivano dalla gigantesca mascella, simili a duefalci minacciose. Sul corpo, di un verde cupo, bizzarramentechiazzato, era stesa una ricca gualdrappa a colori vivaci, adorna difiligrane d'argento e d'oro, orlata di una frangia a grosse ghiandeattorte. Il dorso sosteneva una specie di torretta riccamente ornata,coronata da una cupola arrotondata all'uso indiano, le cui pareti eranomunite di grossi vetri lenticolari simili agli oblò di una cabina dinave.

Quell'elefante trascinava un treno composto di due enormi carri, omeglio due vere case, specie di bungalow mobili, montati ognuno suquattro ruote scolpite ai mozzi, ai raggi e ai cerchi. Quelle ruote,delle quali si vedeva solo il settore inferiore, si muovevanoall'interno di tamburi che nascondevano a metà il basamento di

quegli enormi apparecchi di locomozione. Una passerella articolata,

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che si prestava ai capricci delle curve, congiungeva la prima carrozzaalla seconda.

Come poteva un solo elefante, per quanto forte, trascinare quelledue massicce costruzioni, senza alcuno sforzo apparente? Eppure

quello stupefacente animale lo faceva! Le sue larghe zampe sisollevavano e si abbassavano automaticamente con una regolaritàaddirittura meccanica, e la bestia passava immediatamente dal passoal trotto, senza che la voce o la mano di un mahout si facesse sentireo vedere.

Di questo dovevano sulle prime stupirsi i curiosi finché stavanoun po' lontani. Ma se si avvicinavano al colosso, ecco che cosascoprivano e allo stupore seguiva l'ammirazione.

Infatti l'orecchio era colpito, prima di tutto, da una specie dimuggito cadenzato, molto simile a quello tutto particolare di questigiganti della fauna indiana. Inoltre, a brevi intervalli, dalla proboscide alzata verso il cielo sfuggiva un turbine di vapore.

Eppure, era proprio un elefante! La sua pelle rugosa, di un verdenerastro, copriva senza dubbio una di quelle ossature poderose che lanatura ha concesso al re dei pachidermi! I suoi occhi brillavano dello

splendore della vita! Le sue membra erano dotate di movimento!Sì! Ma se qualche curioso si fosse azzardato a posare una manosull'enorme animale, tutto si sarebbe spiegato. Non si trattava che diuna meravigliosa, sorprendente imitazione, la quale aveva tutte leapparenze della vita, anche da vicino.

Infatti, quell'elefante era di lamiera d'acciaio, e nei suoi fianchi sinascondeva un'intera locomotiva stradale.

Il treno poi, la «Steam-House»,10 per chiamarlo col suo nome, era

la casa viaggiante promessa dall'ingegnere.Il primo carro, o piuttosto la prima casa, serviva da abitazione al

colonnello Munro, al capitano Hod, a Banks e a me.La seconda era destinata ad alloggiare il sergente Mac Neil e

quanti costituivano il personale della spedizione.Banks aveva mantenuto la sua promessa, il colonnello Munro la

 propria, ed ecco perché quella mattina del 6 maggio eravamo partiti

10 Steam-House significa, in inglese, «casa a vapore»: da qui il titolo del romanzo.(N.d.T.) 

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con quel convoglio straordinario, per visitare le regioni settentrionalidella penisola indiana.

Ma, a che cosa serviva l'elefante artificiale? Perché quel capriccio,in disaccordo con lo spirito pratico degli inglesi? Mai fino ad allora

si era immaginato di dare a una locomotiva, destinata a circolaresull'asfalto delle strade più importanti o sui binari delle ferrovie, laforma di un quadrupede qualsiasi.

Bisogna confessarlo, la prima volta che fummo ammessi a vederequella macchina meravigliosa, fu uno stupore generale. I perché e icome piovvero fitti sul nostro amico Banks. Era su suo progetto esotto la sua direzione che quella locomotiva stradale era statacostruita. Chi dunque aveva potuto dargli la bizzarra idea dinasconderla fra le pareti d'acciaio di un elefante meccanico?

 — Amici miei — si accontentò di rispondere seriamente Banks —conoscete il rajah di Buthan?

 — Lo conosco — rispose il capitano Hod — o meglio loconoscevo, poiché è morto da tre mesi.

 — Ebbene, prima di morire — rispose l'ingegnere — il rajah diButhan non solo era vivo, ma viveva in modo molto diverso dagli

altri. Egli amava tutti i fasti, di qualsiasi genere. Non si negava mainulla, dico nulla di ciò che gli passava per il capo. Il suo cervello silogorava a immaginare l'impossibile, e se non fosse statainesauribile, la sua borsa si sarebbe vuotata nel tradurre in realtà tuttociò che egli immaginava. Era ricco come i nababbi di un tempo. Ilakhs di rupie abbondavano nelle sue casse. Se aveva qualche preoccupazione, era solo quella di spendere il suo denaro in un modoun po' meno banale dei suoi confratelli milionari. Ora, un giorno, gli

venne un'idea, che presto lo ossessionò al punto di non lasciarlo piùdormire, un'idea di cui Salomone sarebbe andato orgoglioso e cheavrebbe certamente realizzato se avesse conosciuto il vapore: era diviaggiare in un modo assolutamente nuovo, e di avere un equipaggiocome nessuno avrebbe mai potuto sognare. Mi conosceva, mi chiamòalla sua corte e mi disegnò egli stesso il piano del suo apparecchio dilocomozione. Ah! se credete, amici miei, che scoppiassi a ridere alla

 proposta del rajah, vi sbagliate! Capii benissimo che quell'ideagrandiosa aveva dovuto nascere naturalmente nel cervello d'un

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sovrano indiano, e non ebbi più che un desiderio: attuarla al più presto in condizioni che potessero soddisfare il mio poetico cliente eme stesso. Un ingegnere serio non ha tutti i giorni l'occasione ditrattare il fantastico, e di aggiungere un animale di propria fattura alla

fauna dell'Apocalisse o alle creazioni delle  Mille e una notte.Insomma, il capriccio del rajah era realizzabile. Voi sapete bene tuttoquello che si fa, tutto quello che si può fare, tutto quello che si faràcon la meccanica. Mi misi dunque al lavoro, ed in questo guscio dilamiera d'acciaio che rappresenta un elefante, riuscii a chiudere lacaldaia, la meccanica e il tender di una locomotiva stradale con tutti isuoi accessori. La proboscide articolata, che, in caso di necessità, puòalzarsi e abbassarsi, mi servì da ciminiera; un eccentrico mi permisedi collegare le gambe del mio animale alle ruote della macchina;disposi i suoi occhi come le lenti di un faro, in modo da proiettaredue fasci di luce elettrica, e l'elefante artificiale fu fatto. Ma lacreazione non era stata di getto. Avevo dovuto vincere svariatedifficoltà, che sulle prime non ero riuscito a superare. Questo motore- gigantesco giocattolo se volete - mi costò non poche veglie, tantoche il mio rajah, che non stava in sé per l'impazienza e che passava la

maggior parte del suo tempo nelle mie officine, morì prima chel'ultima martellata del montatore permettesse al suo elefante diiniziare la corsa per il mondo. Il poveretto non aveva avuto tempo di provare la sua casa mobile! Ma i suoi eredi, meno fantasiosi di lui,esaminarono questa macchina con terrore e superstizione, comeopera di un pazzo. Si affrettarono quindi a sbarazzarsene anche peruna miseria e, parola mia, io ricomprai il tutto per conto delcolonnello. Eccovi, amici miei, come e perché noi soli al mondo, ci

scommetto, abbiamo a nostra disposizione un elefante a vapore dellaforza di ottanta elefanti, di trecento chilogrammetri!

 — Bravo! Bravo Banks! — esclamò il capitano Hod. — Uningegnere che sia per di più un artista e faccia della poesia col ferro econ l'acciaio, è una vera perla rara.

 — Morto il rajah, — rispose Banks, — e comprato il suoequipaggio, non mi sono sentito di distruggere il mio elefante e di

rendere alla locomotiva la sua forma consueta!

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 — E avete fatto mille volte bene! — replicò il capitano. — Èsuperbo, il nostro elefante, superbo! E che effetto faremo con questogigantesco animale, quando ci condurrà per le pianure e attraverso le jungle dell'Indostan! È un'idea da rajah! Ebbene, approfitteremo di

quest'idea, non è vero colonnello?Il colonnello Munro aveva quasi sorriso. Era l'equivalente di

un'approvazione totale data da lui alle parole del capitano. Il viaggiofu dunque deciso, ed ecco come un elefante d'acciaio, un animaleunico nel suo genere, un Leviathan artificiale, fu ridotto a trascinarela casa mobile di quattro inglesi, invece di condurre a passeggio intutta la sua pompa uno dei più opulenti rajah della penisola indiana.

Come è fatta questa locomotiva stradale, nella quale Banks haingegnosamente introdotto tutti i perfezionamenti della scienzamoderna? Così:

Tra le quattro ruote è disposto il complesso del meccanismo,cilindri, bielle, cassetti di distribuzione, pompe di alimentazione,eccentrici, coperto dal corpo della caldaia. Questa caldaia tubolare,senza ritorni di fiamma, presenta sessanta metri quadrati di superficiedi riscaldamento. È contenuta interamente nella parte anteriore del

corpo dell'elefante di lamiera, mentre la parte posteriore racchiude iltender destinato a trasportare l'acqua e il combustibile. La caldaia e iltender, montati entrambi sul medesimo truck 11  sono separati da unintervallo, lasciato libero per il servizio del fuochista.

Il macchinista, invece, sta nella torretta, costruita a prova di pallottola, disposta sul dorso dell'animale, e nella quale, in caso di unattacco serio, tutti potremo trovare rifugio. Sotto gli occhi delmacchinista si trovano le valvole di sicurezza e il manometro che

indica la pressione del vapore; a portata della mano l'acceleratore e laleva che gli servono, l'uno a regolare l'immissione di vapore, l'altraad azionare i cassetti di distribuzione e di conseguenza a produrre ilmovimento avanti o indietro della macchina. Da questa torretta,attraverso spessi vetri lenticolari, sistemati ad hoc entro strettestrombature, egli può tener d'occhio la strada che gli si svolgedavanti, mentre un pedale, modificando l'angolazione delle ruote

anteriori, gli permette di seguirne le curve, qualunque esse siano.11 Carrello ferroviario. (N.d.T.) 

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Molle, del miglior acciaio, fissate agli assali, sostengono lacaldaia e il tender, in modo da ammortizzare le scosse prodotte dalledisuguaglianze del terreno. Quanto alle ruote, di solidità a tutta prova, hanno i cerchioni rigati, per poter mordere il fondo stradale, il

che impedisce loro di «slittare».Come ci ha detto Banks, la forza nominale della macchina è di

ottanta cavalli, ma se ne possono ottenere centocinquanta effettivi,senza timore di provocare alcuno scoppio. Questa macchina,costruita in base al «sistema Field», è a due cilindri, a espansionevariabile. Un involucro a chiusura ermetica avvolge tutto ilmeccanismo, in modo da sottrarlo alla polvere delle strade, che nerovinerebbe rapidamente gli organi. Il suo massimo perfezionamentoconsiste soprattutto in questo: che consuma poco e produce molto.Infatti, il consumo medio, rispetto al risultato utilizzato, non è maistato tanto ben regolato, sia che essa funzioni a carbone sia a legna, poiché le griglie del forno possono bruciare qualsiasi tipo dicombustibile. Quanto alla velocità normale di questa locomotivastradale, l'ingegnere la valuta a venticinque chilometri all'ora, ma, suun fondo favorevole, potrà toccare i quaranta. Le ruote, come ho

detto, non sono esposte a slittare, non solo per il fatto che i lorocerchioni mordono il terreno, ma anche perché la sospensionedell'intero congegno su molle di prima qualità è perfettamentestabilita e distribuisce egualmente il peso che i sobbalzi tendono arendere disuguale. Inoltre le ruote si possono facilmente regolare condei freni atmosferici, che producono o un rallentamento progressivoo un blocco istantaneo che le fa arrestare quasi di colpo.

 Notevole poi è la facilità che ha questa macchina di superare le

 pendenze. Banks, infatti, ha ottenuto i migliori risultati, tenendoconto del peso e della potenza propulsiva esercitata su ognuno dei pistoni della sua locomotiva. Perciò essa può superare facilmente pendenze di dieci-dodici centimetri per metro, il che è eccezionale.

Del resto, le strade che gli inglesi hanno aperto in India, e la cuirete ha uno sviluppo di molte migliaia di miglia, sono magnifiche.Devono prestarsi benissimo a questo tipo di locomozione. Per parlare

solo del Great Trunk Road, che attraversa la penisola, esso si stende

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su uno spazio ininterrotto di milleduecento miglia, ossia di circaduemila chilometri.

Ed ora, parliamo di quella Steam-House che l'elefante artificiale sitrascinava dietro.

Banks non aveva comprato dagli eredi del nababbo, per conto delcolonnello Munro, soltanto la locomotiva stradale, ma anche il trenoche essa trascinava. Nessuno si meraviglierà che il rajah di Buthanl'avesse fatto costruire secondo il proprio gusto e secondo la modaindiana. L'ho già chiamato bungalow a ruote; merita davvero questonome, e i due vagoni che lo compongono sono semplicemente uncapolavoro dell'architettura del paese.

Immaginiamoci due specie di pagode senza minareti, con i tetti adoppio spiovente, arrotondati in cupole panciute, con l'aggetto dellefinestre sorretto da pilastri scolpiti, decorate a trafori multicolori inlegni pregiati, e i cui contorni tracciano piacevolmente delle curveeleganti, con le verande riccamente rifinite che le terminano suldavanti e sul dietro. Sì! due pagode che si direbbero staccate dallacollina santa di Sonnaghur, e che, collegate l'una all'altra, a rimorchiodi questo elefante d'acciaio, dovevano percorrere le strade principali

del paese.E bisogna aggiungere, poiché questo completa il prodigiosoapparecchio di locomozione, che esso può galleggiare.

Infatti, la parte inferiore del corpo dell'elefante, che contienecaldaia e macchina, costituisce un'imbarcazione in lamiera leggera, acui alcune casse d'aria abilmente disposte garantiscono la possibilitàdi galleggiare. Se si presenta un corso d'acqua, l'elefante vi si slancia,il treno lo segue, e le zampe dell'animale, mosse dalle bielle,

trascinano tutta la Steam-House. Vantaggio senza pari in quell'ampiaregione dell'India, dove abbondano i fiumi senza ponti.

Ecco dunque come era quel treno, unico nel suo genere, così comelo aveva voluto il capriccioso rajah di Buthan. Ma se Banks avevarispettato quel capriccio che dava al motore la forma di un elefante eai vagoni l'aspetto di pagode, aveva però creduto di dover sistemarel'interno secondo il gusto inglese, adattandolo a un viaggio di lunga

durata. Il risultato era ottimo.

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La porta, in fondo alla sala da pranzo, metteva in un corridoio che portava a un balcone posteriore, protetto anch'esso da una secondaveranda. Lungo quel corridoio erano disposte quattro camere,illuminate lateralmente, ognuna delle quali conteneva un letto, una

toilette, un armadio, un divano, ed era sistemata come le cabine dei più lussuosi transatlantici. La prima di quelle camere, a sinistra, eraoccupata dal colonnello Munro; la seconda, a destra, dall'ingegnerBanks. La camera del capitano Hod seguiva, a destra, quelladell'ingegnere; la mia, a sinistra, quella del colonnello Munro.

Il secondo vagone, lungo dodici metri, aveva, come il primo, un balcone con veranda, che si apriva su un'ampia cucina, fiancheggiatalateralmente da due dispense, e fornita di tutti i suoi accessori.Questa cucina comunicava con un corridoio che si allargava inquadrilatero nella sua parte centrale e formava una seconda sala da pranzo, illuminata da un'apertura del soffitto, per il personale dellaspedizione. Ai quattro angoli si aprivano quattro cabine occupate dalsergente Mac Neil, dal fuochista, dal macchinista e dall'ordinanza delcolonnello Munro; poi, sul retro, c'erano due altre cabine, unadestinata al cuoco, l'altra all'attendente del capitano Hod; poi, altri

locali, che servivano da armeria, da ghiacciaia, da magazzino dei bagagli, ecc., e che si aprivano sul balcone posteriore.Come si vede, Banks aveva sistemato intelligentemente e

comodamente le due case ambulanti della Steam-House. Esse potevano essere riscaldate, durante l'inverno, mediante un congegnoche faceva circolare l'aria calda, fornita dalla macchina, attraverso ilocali, senza contare due caminetti, posti nel salotto e nella sala da pranzo. Potevamo dunque sfidare i rigori della stagione fredda, anche

sulle prime falde dei monti del Tibet.L'importante problema delle provviste non era stato trascurato, lo

si può credere, e portavamo con noi, in conserve scelte, di che nutrire per un anno tutto il personale della spedizione. Quello che avevamoin maggior abbondanza, erano delle scatole di carne conservata dellemigliori fabbriche, principalmente di carne lessata, di stufato, e dei pasticci di quei murghis, o polli che vengono consumati in così

grandi quantità in tutta la penisola indiana.

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 Non ci sarebbe mancato nemmeno il latte per la colazione delmattino, che precede la colazione vera, né il brodo per il tiffin, che precede il pranzo della sera, grazie ai nuovi preparati che permettonodi trasportarli allo stato concentrato.

Dopo essere stato sottoposto a evaporazione, in modo da prendereconsistenza pastosa, il latte viene chiuso in scatole saldateermeticamente che contengono quattrocentocinquanta grammi, iquali, con l'aggiunta di un quintuplo del loro peso in acqua, possonofornire tre litri di liquido. Così trattato è di composizione identica aquella del latte normale e di buona qualità. Si ha lo stesso risultato per il brodo, che, conservato con mezzi analoghi e ridotto intavolette, fatto sciogliere, fornisce delle minestre eccellenti.

Quanto al ghiaccio, così utile sotto quelle calde latitudini, ci erafacile ottenerlo in pochi istanti, grazie agli apparecchi Carré, che producono l'abbassamento della temperatura con l'evaporazionedell'ammoniaca liquida. Uno degli scompartimenti posteriori era anzisistemato a ghiacciaia, e sia per evaporazione dell'ammoniaca sia pervolatilizzazione dell'etere metilico, il frutto delle nostre cacce potevavenir conservato indefinitamente, grazie all'applicazione dei metodi

di un francese, del mio compatriota13

  Charles Tellier. Si trattava, bisogna convenirne, di un prezioso ritrovato, che doveva mettere anostra disposizione, in qualsiasi evenienza, cibi della migliorequalità.

Per quanto riguarda le bevande, la cantina ne era ben fornita. Vinifrancesi, birre diverse, acquavite, arak, occupavano scompartimentispeciali in quantità sufficiente per le prime necessità.

Tuttavia va fatto notare che il nostro itinerario non doveva

allontanarci molto dalle province abitate della penisola. L'India non èun deserto, tutt'altro. Pur di non risparmiare le rupie, è facile procurarvisi non solo il necessario, ma anche il superfluo. Forse,quando avessimo svernato nelle regioni settentrionali, ai piedidell'Himalaya, avremmo dovuto accontentarci delle nostre sole provviste. Anche in questo caso, ci sarebbe stato facile far fronte atutte le esigenze di un'esistenza comoda. Lo spirito pratico del nostro

13  Il signor Maucler, che racconta la maggior parte del romanzo, è, come siricorderà, parigino. (N.d.T.) 

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amico Banks aveva previsto ogni cosa, e si poteva fare affidamentosu di lui anche nella necessità di approvvigionarci in viaggio.

E per finire, ecco l'itinerario del viaggio, itinerario che vennetracciato in linea di massima, salvo le eventuali modifiche che

avrebbero potuto esservi apportate per circostanze impreviste:Partire da Calcutta seguendo la valle del Gange fino ad Allahabad,

attraversare il regno di Oudh in modo da giungere ai primi pendii delTibet, accamparsi per qualche mese, ora in un luogo ora in un altro,dando al capitano Hod ogni facilitazione per andare a caccia, poiridiscendere fino a Bombay.

Erano circa novecento leghe da percorrere. Ma la nostra casa etutto il suo personale viaggiavano con noi. In condizioni simili, chi sirifiuterebbe di fare anche molte volte il giro del mondo?

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C  APITOLO VI

PRIME  TAPPE

IL 6 MAGGIO,  all'alba, avevo lasciato l'hotel Spencer, uno deimigliori di Calcutta, dove abitavo fin dal mio arrivo nella capitaledell'India. Questa gran città ora non aveva più segreti per me.

Passeggiate mattutine a piedi, durante le prime ore del giorno; passeggiate serali, in carrozza, nello Strand, fino alla spianata delforte William, fra gli splendidi equipaggi degli europei ches'incrociano abbastanza sdegnosamente con le non meno splendidecarrozze dei grossi e grassi babu indigeni; escursioni per quellecuriose strade commerciali, che portano giustamente il nome di bazar; visite ai campi di incinerazione dei morti, sulle rive del Gange,all'orto botanico del naturalista; Hooker, alla «signora Kâli»,

l'orribile donna dalle quattro braccia, truce dea della morte, che sinasconde in un tempietto di uno di quei sobborghi nei qualicamminano di pari passo la civiltà moderna e la barbarie nativa:avevo fatto di tutto. Contemplare il palazzo del viceré, che sorge proprio dirimpetto all'hotel Spencer, ammirare il curioso palazzo diChowringhi Road e il.

Town-Hall, consacrato alla memoria dei grandi uomini del nostrotempo; studiare minutamente l'interessante moschea di Hougly; percorrere il porto ingombro delle più belle navi mercantili dellamarina inglese; dire infine addio agli arghilas, marescialli o filosofi -questi uccelli hanno tanti nomi! -che sono incaricati di pulire le vie edi mantenere la città in un perfetto stato di salubrità: anche questoavevo fatto, e non mi rimaneva più che partire.

Dunque, quel mattino, un  palkighari, specie di cattiva carrozza adue cavalli e a quattro ruote - indegna di figurare fra i comodi

 prodotti della carrozzeria inglese - venne a prendermi sulla piazza del

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Governo e mi depose poco dopo alla porta del bungalow delcolonnello Munro.

Cento passi fuori del quartiere, il nostro treno ci aspettava. Nonc'era altro da fare che installarsi.

Ovviamente i nostri bagagli erano già stati sistemati nel loroscompartimento speciale. Portavamo con noi, del resto, solo ilnecessario. Soltanto, in fatto di armi, il capitano Hod aveva credutoche il necessario dovesse comprendere non meno di quattro carabineEnfield a proiettili esplosivi, quattro fucili da caccia, due spingarde,senza contare un certo numero di fucili e di rivoltelle, - di chearmarci tutti quanti. Tutta quell'armeria minacciava più le fiere chenon la semplice selvaggina commestibile, ma sarebbe statoimpossibile far sentir ragione su questo argomento al Nemrod dellaspedizione.

Il capitano Hod era proprio entusiasta! Il piacere di strappare ilcolonnello alla solitudine del suo ritiro, la gioia di partire per le province settentrionali dell'India con un equipaggio che non aveval'uguale, la prospettiva di esercizi ultra-cinegetici e di escursioninelle regioni himalayane, tutto ciò lo animava, lo eccitava, lo faceva

 prorompere in interiezioni interminabili e in strette di mano dastritolarvi le ossa.L'ora della partenza era suonata. La caldaia era sotto pressione, la

macchina pronta ad avviarsi. Il macchinista era al suo posto, con lamano sull'acceleratore. Venne lanciato il fischio regolamentare.

 — In viaggio! — esclamò il capitano Hod agitando il propriocappello. — Gigante d'Acciaio, in viaggio!

Gigante d'Acciaio, questo nome che il nostro amico entusiasta

aveva dato al meraviglioso motore del nostro treno, esso lo meritavadavvero, e gli rimase.

Una parola sul personale della spedizione, che occupava laseconda casa ambulante.

Il macchinista Storr, inglese, apparteneva alla Compagnia delGreat Southern of India, che aveva lasciato solo da pochi mesi.Banks, che lo conosceva e lo sapeva molto competente, lo aveva

fatto entrare al servizio del colonnello Munro. Era un uomo di

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quarant'anni, operaio abile, assai esperto nelle cose del suo mestiere,e che doveva renderci dei grandi servigi.

Il fuochista si chiamava Kâlouth. Apparteneva a quella classe diindù, così ricercati dalle compagnie ferroviarie, che possono

sopportare impunemente il calore tropicale delle Indie, raddoppiatodal calore della caldaia. Avviene lo stesso degli arabi ai quali lecompagnie di trasporti marittimi affidano il servizio di alimentazionedei forni durante le traversate del Mar Rosso. Quella brava gente silimita tutt'al più a bollire, là dove degli europei arrostirebbero in pochi istanti. Buona scelta anche questa.

L'ordinanza del colonnello Munro era un indù di trentacinqueanni, di razza Gurgkha, che si chiamava Goûmi. Apparteneva a quelreggimento che, per far atto di buona disciplina, accettò di usare lenuove munizioni, uso che fu l'occasione prima o almeno il pretestodella rivolta dei Cipay. Piccolo, svelto, ben fatto, di una devozione atutta prova, egli portava ancora l'uniforme nera della brigata deirifles, alla quale teneva quanto alla propria pelle.

Il sergente Mac Neil e Goûmi erano, anima e corpo, i due fedelidel colonnello Munro.

Dopo essersi battuti al suo fianco in tutte le guerre dell'India, dopoaverlo aiutato nei suoi tentativi infruttuosi per ritrovare Nana Sahib,essi lo avevano seguito quando aveva abbandonato il servizio attivo enon dovevano mai lasciarlo.

Se Goûmi era l'ordinanza del colonnello, Fox, un inglese purosangue, allegrissimo, comunicativo, era l'attendente del capitanoHod, e cacciatore non meno arrabbiato di lui. Questo bravo ragazzonon avrebbe cambiato la propria condizione sociale con qualsiasi

altra. La sua astuzia lo rendeva degno del nome che portava: Fox!Volpe! ma una volpe che era alla sua trentasettesima tigre, tre menodel suo capitano. Del resto, egli contava di non fermarsi lì.

Bisogna citare ancora, per completare il personale dellaspedizione, il nostro cuoco negro, che regnava nella parte anterioredella seconda casa fra le due dispense. Francese d'origine, che avevagià fatto arrosti e fricassee sotto tutte le latitudini, il «signor

Parazard» (si chiamava così)

1

  era convinto di svolgere non unmestiere volgare, ma una funzione d'alta importanza. Egli

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 pontificava, nel vero senso della parola, quando la sua mano passavada un fornello all'altro distribuendo con la precisione di un chimico il pepe, il sale e altri condimenti che davano maggior gusto alle suesapienti preparazioni. Insomma poi, siccome il signor Parazard era

abile e pulito, gli si perdonava volentieri quella vanità culinaria.Dunque, sir Edward Munro, Banks, il capitano Hod e io da una

 parte, Mac Neil, Storr, Kâlouth, Goûmi, Fox e il signor Parazarddall'altra - dieci persone in tutto — ecco la spedizione che il Giganted'Acciaio portava verso il nord della penisola con il suo treno di duecase ambulanti. Non dimentichiamo i due cani Phann e Black, deiquali il capitano aveva già potuto apprezzare le qualità nelle suecacce alla selvaggina da pelo e da penna.

Il Bengala è forse, se non la più curiosa, almeno la più ricca delle presidenze dell'Indostan. Non è evidentemente il paese propriamentedetto dei rajah, che comprende più particolarmente il centro di quelvasto regno; ma questa provincia si estende su un territorio assai popoloso, che può essere considerato come il vero paese degli indù.Essa giunge, a nord, fino alle insuperabili frontiere dell'Himalaya, eil nostro itinerario doveva farcela tagliare obliquamente.

Dopo una discussione sulle prime tappe, ci eravamo tutti accordatisu questo progetto: risalire per alcune leghe l'Hougly, che è il bracciodel Gange che bagna Calcutta, lasciare sulla destra la città francese diChandernagor, di là seguire la linea ferroviaria fino a Burdwan, poiattraversare di sbieco il Béhar, in modo da ritrovare il Gange aBénares.

 — Amici miei, — aveva detto il colonnello Munro, — lascioassolutamente a voi la direzione del viaggio... Decidete senza di me.

Tutto quello che farete sarà ben fatto. — Mio caro Munro, — rispose Banks, — però bisogna che tu dia

il tuo parere... — No, Banks, — riprese il colonnello, — mi rimetto a te, e non

ho davvero delle preferenze per visitare una provincia piuttosto cheun'altra. Mi limito a fare una sola domanda: quando avrete raggiuntoBénares, che direzione contate di prendere?

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 — La direzione del nord! — esclamò impetuosamente il capitanoHod — la strada che risale direttamente fino alle prime faldedell'Himalaya, attraverso il regno d'Oudh!

 — Ebbene, amici miei, allora... — rispose il colonnello Munro, —

forse vi domanderò di... Ma ne parleremo a suo tempo. Fino a quelmomento, andate come preferite!

Questa risposta di sir Edward Munro non mancò di stupirmi un poco. Qual era dunque il suo pensiero? Aveva forse acconsentito aintraprendere quel viaggio con l'idea che il caso avrebbe potutoservirlo meglio di quanto aveva potuto fare la sua volontà? Pensavache, se Nana Sahib non era morto, sarebbe forse riuscito a ritrovarlonel nord dell'India? Infine, aveva conservato qualche speranza di potersi vendicare ancora? Quanto a me, avevo come un presentimento che qualche pensiero nascosto guidasse il colonnelloMunro, e mi sembrò che il sergente Mac Neil dovesse conoscere ilsegreto del suo padrone.

Durante le prime ore di quel mattino, ci eravamo sistemati nelsalotto della Steam-House. La porta e le due finestre della verandaerano aperte, e la  punka, agitando l'aria, rendeva la temperatura più

sopportabile.Il Gigante d'Acciaio era mantenuto al passo dall'acceleratore diStorr. Una lega all'ora era tutto quello che gli domandavano, per ilmomento, i viaggiatori desiderosi di vedere il paese cheattraversavano.

All'uscita dai sobborghi di Calcutta, eravamo stati seguiti da uncerto numero di europei, meravigliati dal nostro equipaggio, e da unafolla di indù che stavano a guardarlo con una specie d'ammirazione

mista a timore. Quella folla si era a poco a poco diradata, ma nonsfuggivamo allo stupore dei passanti, che prodigavano i loro «wahs!wahs!»  di ammirazione. Naturalmente tutte quelle interiezioni nonerano tanto per i due superbi vagoni quanto per il gigantesco elefanteche li trascinava emettendo turbini di vapore.

Alle dieci, venne apparecchiata la tavola nella sala da pranzo, ecertamente con minori scosse della colazione del signor Parazard.

La strada che il nostro treno seguiva costeggiava allora la rivasinistra dell’Hougly, il più occidentale dei numerosi bracci del

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la stagione calda. Oh! questi carnivori! Fox? — disse Hod voltandosiverso il suo attendente, che sparecchiava la tavola.

 — Capitano? — rispose Fox. — Non è là che hai ucciso la tua trentasettesima?

 — Sì, capitano, a due miglia da Port-Canning, — rispose Fox. —Era una sera...

 — Basta, Fox! — riprese il capitano vuotando un gran bicchieredi grog, — conosco la storia della trentasettesima. Quella dellatrentottesima m'interesserebbe di più!

 — La trentottesima non è ancora ammazzata, capitano! — L'ammazzerai, Fox, come io ammazzerò la mia

quarantunesima! Nelle conversazioni del capitano Hod e del suo attendente, la

 parola «tigre», come si vede, non veniva mai pronunciata. Erainutile. I due cacciatori si intendevano.

Frattanto, a mano a mano che procedevamo, l'Hougly, largo circaun chilometro davanti a Calcutta, restringeva a poco a poco il suoletto. A monte della città, le rive che ne contengono il corso sonoabbastanza basse. Là troppo spesso si formano violentissimi cicloni

che estendono i loro disastri su tutta la provincia. Quartieriinteramente distrutti, centinaia di case schiacciate le une contro lealtre, immense piantagioni devastate, migliaia di cadaveri sparsi perla città e per la campagna, ecco le rovine che quegli irresistibilifenomeni atmosferici si lasciano dietro e dei quali il ciclone del 1864fu uno dei più terribili esempi.

È noto che il clima dell'India comprende tre stagioni: la stagionedelle piogge, la stagione fredda, la stagione calda. Quest'ultima è la

 più corta, ma è anche la più dura da affrontare. Marzo, aprile emaggio sono tre mesi particolarmente temibili. Fra tutti, maggio è il più caldo. In questo mese, affrontare il sole a certe ore del giorno èrischiare la vita, almeno per gli europei. Non è raro, infatti, che,anche all'ombra, il. termometro salga fino a 106 gradi Fahrenheit(circa 41 centigradi).

«Gli uomini», dice il signor di Valbezen, «ansimano allora come

cavalli bolsi, e, durante la guerra di repressione, ufficiali e soldati

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erano costretti a ricorrere alle docce sulla testa per prevenire lecongestioni».

Tuttavia, grazie al movimento della Steam-House, all'agitazionedell'aria prodotta dai battiti della  punka, all'atmosfera umida che

circolava attraverso gli schermi di vetiveria bagnati frequentemente,non soffrivamo troppo il caldo.

Del resto, la stagione delle piogge, che dura dal mese di giugno almese di ottobre, non era lontana, e si doveva temere che fosse piùsgradevole della stagione calda. In fin dei conti, nelle condizioni incui avveniva il nostro viaggio, non avevamo nulla di grave datemere.

Verso l'una del pomeriggio, dopo una deliziosa passeggiata al passo, fatta senza uscire da casa nostra, eravamo giunti aChandernagor.

Avevo già visitato questa parte di territorio, la sola che rimangaalla Francia in tutta la presidenza del Bengala. Questa città, su cuisventola la bandiera tricolore e che non ha diritto di tenere più diquindici soldati di guardia, questa antica rivale di Calcutta durante lelotte del secolo XVIII, è oggi molto decaduta, senza industrie, senza

commercio, i suoi bazar sono abbandonati, il suo forte è vuoto. ForseChandernagor avrebbe ripreso un po' di vitalità se la ferrovia diAllahabad avesse attraversato o almeno costeggiato le sue mura; ma,davanti alle esigenze del governo francese, la compagnia inglese ha preferito far procedere obliquamente la linea ferroviaria in modo daaggirare il nostro territorio, e così Chandernagor ha perduto l'unicaoccasione per riacquistare un po' di importanza commerciale.

Il nostro treno non entrò dunque nella città. Si fermò a tre miglia,

sulla strada, all'ingresso d'un bosco di latanie. Quando venne posto ilcampo, si sarebbe detto che in quel luogo stesse per sorgere un nuovovillaggio. Ma il villaggio era mobile, e, il giorno seguente, 7 maggio,riprendeva il suo cammino interrotto, dopo una notte calma, passatanelle nostre comode cabine.

Durante quella sosta, Banks aveva fatto rinnovare il combustibile.Benché la macchina avesse consumato poco, egli voleva che il tender

 portasse sempre il suo carico intero, ossia acqua, legna e carbonenecessari per una autonomia di sessanta ore.

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Il capitano Hod e il suo fedele Fox non mancavano di applicarequesta regola a loro stessi, e il loro forno interno (voglio dire il lorostomaco, che offriva una grande superficie di riscaldamento) erasempre munito di quel combustibile azotato, che è indispensabile per

far procedere bene e a lungo la macchina umana.Questa volta, la tappa doveva essere più lunga. Dovevamo

viaggiare per due giorni, riposare due notti, in modo da giungere aBurdwan e visitare questa città durante la giornata del 9.

Alle sei del mattino, Storr faceva dare un fischio acuto, spurgava icilindri, e il Gigante d'Acciaio prendeva un'andatura un po' più rapidadi quella del giorno precedente.

Per alcune ore avevamo costeggiato la ferrovia che da Burdwanva a raggiungere a Rajmahal la valle del Gange, lungo la quale prosegue poi fino al di là di Bénares. Il treno di Calcutta passò agrande velocità. Sembrava sfidarci con le esclamazioni ammirativedei viaggiatori. Non rispondemmo alla loro sfida. Potevano correre più rapidamente di noi, ma più comodamente, no!

Il paese che attraversammo in quei due giorni era invariabilmente piatto e, per ciò stesso, abbastanza monotono. Qua e là ondeggiava

qualche flessibile palma da cocco, i cui ultimi esemplari stavano perrimanere indietro, al di là di Burdwan. Questi alberi, cheappartengono alla grande famiglia delle palme, prediligono le coste eamano trovare delle molecole d'aria marina nell'atmosfera cherespirano. Perciò, all'infuori che in una zona abbastanza stretta checonfina con il litorale, non si incontrano più, ed è inutile cercarlinell'India centrale. Ma la flora dell'interno non è per questo menointeressante e varia.

Da ogni lato della strada non c'era, per parlare propriamente, cheun immenso scacchiere di risaie, che si disegnava a perdita d'occhio.Il suolo era diviso in quadrilateri arginati come le saline o le colturedi ostriche di un litorale. Ma il colore verde dominava, e il raccolto prometteva di essere ricco su quel territorio umido e caldo, le cuinebbie ne indicavano la prodigiosa fertilità.

La sera successiva, all'ora fissata, con un'esattezza che un espresso

avrebbe invidiato, la macchina dava il suo ultimo colpo di vapore e sifermava alle porte di Burdwan.

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Amministrativamente, questa città è il capoluogo di un distrettoinglese, ma il distretto appartiene come proprietà a un maharajah, che paga non meno di dieci milioni di tasse al governo. La città è in gran parte composta di case basse, separate da bei viali d'alberi, palme da

cocco e areche. Questi viali erano larghi abbastanza da lasciar passare il nostro treno. Andammo dunque ad accamparci in un posto bellissimo, pieno d'ombra e di frescura. Quella sera, la capitale delmaharajah ebbe un piccolo quartiere di più. Era il nostro villaggio portatile, il nostro villaggio di due case, e non l'avremmo cambiato per tutto il quartiere in cui sorge lo splendido palazzo d'architetturaanglo-indiana del sovrano di Burdwan.

Il nostro elefante, lo si può bene immaginare, produsse il suosolito effetto, ossia una specie di terrore ammirativo in tutti quei bengalesi che accorrevano da ogni parte, con la testa nuda, i capellitagliati à la Titus14  e, per tutto vestito, gli uomini un perizomaintorno alle reni, le donne un sari bianco che le avvolgeva dalla testaai piedi.

 — Ho un solo timore, — disse il capitano Hod, — che ilmaharajah voglia comperare il nostro Gigante d'Acciaio, e che ne

offra una somma tale, che noi si debba essere costretti a venderlo aSua Altezza! — Mai! — esclamò Banks. — Gli fabbricherò un altro elefante

quando vorrà, e così potente che sarà in grado di trascinare tutta lasua capitale da un'estremità all'altra dei suoi Stati! Ma il nostro, nonlo venderemo a nessun prezzo, non è vero, Munro?

 — A nessun prezzo! — rispose il colonnello con il tono di unuomo che l'offerta di un milione non avrebbe potuto sedurre.

Del resto, l'acquisto del nostro colosso non ebbe occasione diessere discusso. Il maharajah non era a Burdwan. La sola visita chericevemmo fu quella del suo kàmdar, specie di segretario intimo, chevenne a esaminare il nostro equipaggio. Dopo di che quel dignitarioci offrì (e noi accettammo ben volentieri) di visitare i giardini del palazzo, dove si trovavano i più begli esemplari della vegetazionetropicale, innaffiati con acque vive che si distribuiscono in stagni o

corrono in ruscelli, di visitare il parco, adorno di chioschi bizzarri di14 Ossia tagliati egualmente corti davanti come dietro. (N.d.T.) 

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effetto piacevolissimo, letteralmente tappezzato di aiuoleverdeggianti, popolato di caprioli, cervi, daini, elefanti, cherappresentavano la fauna domestica, e di tigri, leoni, pantere, orsi,rappresentanti la fauna selvaggia, sistemati in superbi serragli.

 — Tigri in gabbia come uccelli, capitano! — esclamò Fox. — Èuna cosa che fa pietà!

 — Sì, Fox, — rispose il capitano. — Se si consultassero, questeoneste belve, preferirebbero vagabondare liberamente nelle jungle...anche a tiro di una carabina a proiettili esplosivi!

 — Ah! come le capisco, capitano! — fece l'attendente lasciandosisfuggire un sospiro.

Il giorno seguente, 10 maggio, lasciavamo Burdwan. La Steam-House, ben approvvigionata, attraversava la ferrovia a un passaggio alivello, e si dirigeva direttamente verso Ramghur, città posta asettantacinque leghe circa da Calcutta.

Questo itinerario lasciava, è vero, alla nostra destra, l'importantecittà di Murchedabad, che non ha però nulla di curioso né nella sua parte indiana né nella sua parte inglese; Monghir, una specie diBirmingham dell'Indostan, appollaiata su un promontorio che domina

il corso del fiume sacro; Patna, la capitale di quel regno del Béharche dovevamo attraversare obliquamente, ricco centro di commercio per l'oppio, e che tende a scomparire sotto l'invasione delle pianterampicanti, di cui la sua flora è particolarmente ricca. Ma avevamo dimeglio da fare: seguire una direzione più meridionale, due gradi aldisotto della valle del Gange.

Durante questa parte del viaggio, il Gigante d'Acciaio fu spinto un po' e mantenne un trotto leggero, che ci permise di apprezzare

l'eccellente sistemazione delle nostre case sospese. La strada,d'altronde, era bella e si prestava alla prova. Era possibile che igrandi carnivori si spaventassero alla vista del gigantesco elefanteche emetteva fumo e vapore? In ogni caso, con gran stupore delcapitano Hod, non ne vedevamo nessuno in mezzo alle jungle di quelterritorio. Del resto, era attraverso le regioni settentrionali dell'India,non nelle province del Bengala, che egli contava di soddisfare i suoi

istinti di cacciatore e non pensava ancora a lamentarsi.

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Il 15 maggio, eravamo vicini a Ramghur, a cinquanta leghe circada Burdwan. La media della velocità era stata di una quindicina dileghe ogni dodici ore, non di più.

Tre giorni dopo, il 18, il treno si fermava cento chilometri più

lontano, vicino alla piccola città di Chittra. Nessun incidente si era verificato durante questo primo periodo

del viaggio. Le giornate erano calde, ma quanto era facile la siesta alriparo delle verande! Vi trascorrevamo le ore più calde in undelizioso farniente15

Venuta la sera, Storr e Kâlouth, sotto gli occhi di Banks, sioccupavano di pulire la caldaia e di esaminare la macchina.

Frattanto, il capitano Hod ed io, accompagnati da Fox, da Goûmie dai due cani da ferma, andavamo a cacciare nei dintornidell'accampamento. Si trattava ancora della piccola selvaggina da pelo e da piuma; ma se il capitano la disprezzava come cacciatore,non la disprezzava come buongustaio, e il giorno seguente, con grancontentezza sua e con gran soddisfazione del signor Parazard, ilmenu del pranzo conteneva qualche piatto saporito, che risparmiavale nostre conserve.

Qualche volta, Goûmi e Fox rimanevano per adempiere allefunzioni di taglialegna e di portatori d'acqua. Non bisognava forseapprovvigionare il tender per il giorno successivo? Perciò, per quantoera possibile, Banks sceglieva i punti di fermata in riva a un ruscello,vicino a qualche bosco. Tutto questo approvvigionamentoindispensabile si faceva sotto la direzione dell'ingegnere, che nontrascurava nessun particolare.

Poi, quando tutto era finito, accendevamo i nostri sigari, degli

ottimi cheruts di Manilla, e fumavamo chiacchierando di quel paeseche Hod e Banks conoscevano a fondo. Il capitano, sdegnando ilsigaro volgare, aspirava con i suoi vigorosi polmoni, attraverso untubo lungo venti piedi, il fumo aromatico di un houkah,accuratamente riempito dal suo attendente.

Il nostro più gran desiderio sarebbe stato che il colonnello Munroci seguisse in quelle rapide escursioni nei dintorni

dell'accampamento. Invariabilmente glielo proponevamo al momento15 In italiano nell'originale. (N.d.T.) 

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di partire, ma, altrettanto invariabilmente, egli declinava la nostraofferta e rimaneva con il sergente Mac Neil. Entrambi allora passeggiavano per la via, avanti e indietro per un centinaio di passi.Parlavano poco, ma pareva che si comprendessero a meraviglia, e

non avevano bisogno di scambiarsi parole per scambiare dei pensieri.Erano entrambi interamente assorti in quei funesti ricordi che nulla poteva cancellare. Chissà anzi se tali ricordi non si ravvivavano amano a mano che sir Edward Munro e il sergente si avvicinavano alteatro della sanguinosa insurrezione!

Evidentemente un'idea ben precisa, che dovevamo conosceresoltanto più tardi, e non il semplice desiderio di non separarsi da noi,aveva indotto il colonnello Munro a unirsi alla spedizione nel norddell'India. Devo dire che Banks e il capitano Hod condividevano ilmio parere a questo proposito. Perciò, tutti e tre, non senza una certainquietudine per l'avvenire, ci domandavamo se quell'elefanted'acciaio, correndo attraverso le pianure della penisola, nontrascinasse con sé tutto un dramma.

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C  APITOLO VII

 I  PELLEGRINI   DEL PHALGU

IL BÉHAR formava un tempo l'impero di Magadha. Era una speciedi territorio sacro, al tempo dei buddisti, ed è ancora coperto ditempli e di monasteri. Ma, da molti secoli, i bramini sono succeduti

ai sacerdoti di Budda. Essi si sono impadroniti dei vihara, lisfruttano, vivono dei prodotti del culto; i fedeli giungono loro daogni parte; ed essi fanno concorrenza alle acque sacre del Gange, ai pellegrinaggi di Bénares, alle cerimonie di Jaggernaut; insomma si può dire che la regione appartiene a loro.

Paese ricco, con le sue immense risaie verde smeraldo e le suevaste piantagioni di papaveri, con le sue numerose borgate, perdutenella verzura, ombreggiate da palmizi, manghi, palme da dattero, da

taras, sui quali la natura ha gettato, come una rete, un inestricabileviluppo di liane. Le strade percorse dalla Steam-House sonoaltrettanti pergolati frondosi, in cui un terreno umido mantiene lafrescura. Procediamo, con la carta geografica sotto gli occhi, senzamai temere di smarrirci. I barriti del nostro elefante si mescolano congli assordanti concerti degli uccelli e con i gridi discordi delle tribùdi scimmie. Il suo fumo avvolge di fitte volute i  phénix campestri e i banani, i cui frutti dorati spiccano come stelle in mezzo a nuvoleleggere. Al suo passaggio si alzano in volo stormi di quegli uccellinidelle risaie, che confondono le loro piume candide con le bianchespirali del vapore. Qua e là gruppi di baniani, boschetti di pompelmi,aiuole di dalhs, specie di pisello arborescente sostenuto da uno steloalto un metro, crescono vigorosamente e fanno contrasto con i paesaggi dello sfondo.

Ma che caldo! È molto se un po' d'aria umida si propaga

attraverso gli schermi di vetiveria delle nostre finestre! Gli hot winds,i venti caldi, che si sono caricati di calore accarezzando la superficie

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delle lunghe pianure occidentali, coprono la campagna con il lorosoffio infuocato. È tempo che il monsone di giugno venga amodificare lo stato atmosferico. Nessuno potrebbe sopportare gliardori di questo sole di fuoco, senza essere minacciato di

soffocamento mortale.Quindi la campagna è deserta. I raiot stessi, benché agguerriti

contro questi raggi infuocati, non potrebbero dedicarsi ai lavoriagricoli. Soltanto la strada ombrosa è praticabile, a patto però di percorrerla al riparo del nostro bungalow ambulante. Bisogna che ilfuochista Kalouth sia, non dirò di platino, perché il platinofonderebbe, ma di carbonio puro, per non entrare in fusione davantialla grata ardente della sua caldaia. No! il bravo indù resiste. Si èfabbricato una specie di seconda natura refrattaria, a forza di viveresulla piattaforma delle locomotive, percorrendo le linee ferroviariedell'India centrale!

Il termometro appeso alle pareti della sala da pranzo ha segnatocentosei gradi Fahrenheit (41° 11' centigradi) nella giornata del 19maggio. Quella sera non abbiamo potuto fare la nostra passeggiataigienica dell'hawakana. Questa parola significa esattamente

mangiare dell'aria, cioè che, dopo i soffocamenti prodotti da unagiornata tropicale, si va a respirare l'aria tiepida e pura della sera.Questa volta, è l'atmosfera che ci avrebbe divorati.

 — Signor Maucler, — mi disse il sergente Mac Neil, — questo miricorda gli ultimi giorni di marzo, durante i quali sir Hugh Rose, conuna batteria di due pezzi soltanto, tentava di far breccia nella cinta diJansi. Erano sedici giorni che avevamo passato il Betwa, e da sedicigiorni non si era tolta la briglia ai cavalli. Ci battevamo fra enormi

mura di granito, che è come dire fra le pareti di mattoni di unafornace. Fra le nostre file passavano alcuni chitsis che portavanodell'acqua nei loro otri, e mentre noi sparavamo ce la versavano sulcapo, senza di che saremmo caduti fulminati. Guardate! Mi ricordo!Ero sfinito. Il cranio mi scoppiava. Stavo per cadere... Il colonnelloMunro mi vede, e, strappato l'otre dalle mani di un chitsi, me lo versaaddosso... ed era l'ultimo che i portatori avevano potuto procurarsi!...

Queste cose non si dimenticano, vedete! No! goccia di sangue per

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il colonnello a lasciare Calcutta? Ad ogni modo, ora egli era attiratocome da una calamita verso il teatro su cui si era svolta laconclusione di quel funesto dramma!... Bisognava lasciarlo fare!

Pensai allora di domandare al sergente se, personalmente, egli

avesse rinunciato a ogni idea di vendetta, in una parola, se credesseche Nana Sahib fosse morto.

 — No, — mi rispose nettamente Mac Neil. — Benché non abbianessun indizio su cui basare la mia opinione, non credo, non possocredere che Nana Sahib abbia potuto morire senza essere stato punitodi tanti delitti! No! Eppure, non so nulla, non ho appreso nulla!... Ecome un istinto che mi spinge!... Ah! Signore! Farsi uno scopo diuna legittima vendetta, sarebbe qualche cosa nella vita! Voglia ilcielo che i miei presentimenti non mi ingannino, e un giorno...

Il sergente non finì la frase. Il suo gesto indicò ciò che la sua bocca non aveva voluto dire. Il servitore era all'unisono con il padrone.

Quando riferii la sostanza di questa conversazione a Banks e alcapitano Hod, entrambi furono d'accordo nel dire che l'itinerario nondoveva e non poteva essere modificato. Del resto non si era mai

 parlato di passare per Cawnpore, e, una volta attraversato il Gange aBénares, dovevamo avviarci direttamente al nord attraversando la parte orientale dei regni di Oudh e del Rohilkhand. Qualsiasi cosa potesse pensare Mac Neil, non era provato che sir Edward Munrovolesse rivedere Lucknow o Cawnpore, che gli avrebbero richiamatoalla mente tanti orribili ricordi; ma infine, se lo avesse voluto, non losi sarebbe contrariato su tale argomento.

Quanto a Nana Sahib, la sua notorietà era tale che, se la notizia

che ne segnalava la riapparizione nella presidenza di Bombay eravera, avremmo dovuto sentirne parlare ancora. Ma alla nostra partenza da Calcutta non si parlava già più del nababbo, e leinformazioni che avevamo raccolto per via facevano pensare che leautorità fossero state indotte in errore.

In ogni caso, se, per assurdo, vi fosse stato in esse qualche cosa divero, se il colonnello Munro aveva un piano segreto, poteva

sembrare strano che Banks, il suo più intimo amico, non ne fossestato fatto partecipe con la precedenza sul sergente Mac Neil. Ma ciò

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doveva senza dubbio dipendere, come disse Banks, dal fatto che egliavrebbe fatto di tutto per impedire al colonnello di buttarsi inricerche pericolose e inutili, mentre il sergente doveva spingervelo!

Il 19 maggio, verso mezzogiorno, avevamo superato la cittadina

di Chittra. La Steam-House era ormai a quattrocentocinquantachilometri dal punto di partenza.

L'indomani, 20 maggio, all'imbrunire, il Gigante d'Acciaiogiungeva, dopo una giornata torrida, nei dintorni di Gaya. La sostavenne fatta sulla riva di un fiume sacro, il Phalgu, ben noto ai pellegrini. Le due case vennero sistemate su una bella sponda,ombreggiata da begli alberi, a due miglia circa dalla città.

Era nostra intenzione passare lì trentasei ore, ossia due notti e ungiorno, poiché il luogo era molto originale da visitare, come ho giàdetto in precedenza.

Il giorno dopo, fin dalle quattro del mattino, per evitare i calori delmezzogiorno, Banks, il capitano Hod e io, dopo esserci accomiatatidal colonnello Munro, ci dirigemmo verso Gaya.

Dicono che in questo centro delle istituzioni bramimeneaffluiscano ogni anno centocinquantamila devoti. Infatti, nei dintorni

della città, le strade erano invase da un grandissimo numero diuomini, donne, vecchi e fanciulli. Tutta questa gente avanzava in processione, attraverso la campagna, dopo avere sfidato le millefatiche di un lungo pellegrinaggio, per compiere i suoi doverireligiosi.

Banks aveva già visitato questo territorio del Béhar quando stava progettando una linea ferroviaria che non è ancora in via direalizzazione. Perciò conosceva il paese, e non potevamo avere una

guida migliore. Del resto egli aveva costretto il capitano Hod alasciare all'accampamento tutto il suo equipaggiamento dacacciatore. Non c'era da temere, dunque, che il nostro Nemrod ciabbandonasse per strada.

Un po' prima di giungere alla città, alla quale si può daregiustamente il nome di città santa, Banks ci fece sostare davanti a unalbero sacro, intorno al quale pellegrini di tutte le età e d'ogni sesso

stavano in atteggiamento d'adorazione.

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Quell'albero era un  pipai dal tronco enorme; ma benché lamaggior parte dei suoi rami fossero già caduti per vecchiaia, essonon doveva avere più di due o trecento anni d'esistenza. È quantoavrebbe constatato il signor Louis Rousselet, due anni più tardi, nel

suo interessante viaggio attraverso l'India dei rajah.Albero Boddhi, ecco, in religione, il nome di quest'ultimo

rappresentante della generazione dei  pipai sacri, che ombreggiaronoquesta stessa piazza, per una lunga serie di secoli, ed il primo deiquali fu piantato cinquecento anni prima dell'era cristiana. È probabile che, per i fanatici prosternati ai suoi piedi, quello fosse lostesso albero consacrato da Budda in quel luogo. Ora esso sorge suuna terrazza in rovina, vicino a un tempio di mattoni, la cui origine èevidentemente antichissima.

La presenza di tre europei in mezzo a quelle migliaia di indù nonfu vista molto di buon occhio. Quantunque non ci venisse detto nulla, pure non potemmo giungere fino alla terrazza né penetrare nellerovine del tempio. Del resto i pellegrini le ingombravano e sarebbestato difficile aprirsi un passaggio in mezzo a loro.

 — Se ci fosse stato qualche bramino, — disse Banks, — la nostra

visita sarebbe stata più completa, e forse avremmo potuto visitarel'edificio fin nelle sue parti più interne. — Come! — risposi, — un sacerdote sarebbe stato meno severo

dei propri fedeli? — Mio caro Maucler, — rispose Banks, — non c'è severità che

resista all'offerta di qualche rupia. Dopo tutto bisogna pure che i bramini campino come possono.

 — Non ne vedo la necessità, — rispose il capitano Hod, che aveva

il torto di non nutrire per gli indù, i loro costumi, i loro pregiudizi, iloro usi e gli oggetti della loro venerazione, la tolleranza che i suoicompatrioti accordano loro molto giustamente.

Per il momento, l'India per lui era solo un ampio territorio di«riserve di caccia», e, alla popolazione delle città o delle campagne,egli preferiva sicuramente i feroci carnivori delle jungle.

Dopo una sosta adeguata ai piedi dell'albero sacro, Banks ci

condusse sulla strada in direzione di Gaya. A mano a mano che ciavvicinavamo alla città santa, la folla dei pellegrini aumentava. Ben

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 presto, in una radura del bosco, Gaya ci apparve sulla vetta della rupeche essa corona con le sue costruzioni pittoresche.

Ciò che attira soprattutto l'attenzione dei turisti in questo luogo èil tempio di Vishnu. Esso è di costruzione moderna, poiché è stato

ricostruito, pochi anni or sono, dalla regina di Holcar. La grandecuriosità di questo tempio sono le impronte lasciate da Vishnu in persona, quando si degnò di scendere sulla terra per lottare con ildemone Maya. La lotta fra un dio e un demonio non poteva rimanereincerta per un pezzo. Il demone soccombette, e un macigno, che puòessere visto nel recinto stesso di Vishnu-Pad, attesta, mediante le profonde impronte dei piedi del suo avversario, che quel diavoloaveva a che fare con un avversario terribile.

Ho detto «un macigno che può essere visto», e mi affretto adaggiungere «che può essere visto solo dagli indù». Infatti, nessuneuropeo viene ammesso a contemplare queste reliquie divine. Forse, per distinguerle bene sulla pietra miracolosa, occorre una federobusta, che non si trova più nei credenti delle regioni occidentali.Questa volta, checché ne dicesse, Banks fece inutilmente l'offertadelle sue rupie. Nessun sacerdote volle accettare ciò che sarebbe

stato il premio per un sacrilegio. O forse la somma non fu alla altezzadella coscienza di un bramino? Non oserei chiarire questo punto.Fatto è che non potemmo penetrare nel tempio, e non so ancora comesia la misura del piede di quel dolce e bel giovane d'un coloreazzurrino, vestito come un re dei tempi antichi, celebre per le suedieci incarnazioni, che rappresenta il principio conservatore oppostoa Siva, il truce emblema del principio distruttore, e che i Vaichnava,adoratori di Vishnu, riconoscono come il primo dei trecentotrenta

milioni di dèi che popolano la loro mitologia eminentemente politeistica.

Ma non c'era da rammaricarci della nostra escursione alla cittàsanta e al Vishnu-Pad. Descrivere la confusione di templi, lasuccessione di corti, l’agglomeramento di vihara, che dovemmoaggirare o attraversare per giungere fino ad esso, sarebbeimpossibile. Teseo stesso, con il filo d'Arianna in mano, si sarebbe

 perduto in quel labirinto! Perciò ridiscendemmo la rupe di Gaya.

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Il capitano Hod era furibondo. Avrebbe voluto conciare per lefeste il bramino che ci rifiutava l'accesso al Vishnu-Pad.

 — Siete pazzo, Hod? — gli aveva detto Banks trattenendolo. — Non sapete che gli indù considerano i loro sacerdoti, i bramini, non

solo come esseri di sangue illustre, ma anche come esseri di originesuperiore?

Quando fummo arrivati alla parte del Phalgu che bagna la rupe diGaya, l'enorme massa dei pellegrini si spiegò ampiamente sotto inostri occhi. Là stavano gomito a gomito, in una confusione senzanome, uomini e donne, vecchi e bambini, cittadini e contadini, ricchibabu e poveri raiot della più infima casta, Vaichya, mercanti eagricoltori. Kchatrya, superbi guerrieri del paese, Sudra, miserabiliartigiani di sette diverse, paria, che sono fuori della legge e i cuiocchi contaminano gli oggetti che essi guardano; in una parola, tuttele classi o tutte le caste dell'India, il vigoroso Radjupt che respingecol gomito il debole bengalese, la gente del Pendjab contrapposta aimaomettani dello Scind. Gli uni sono venuti in palanchino, gli altri incarri trascinati dai grandi buoi gibbosi. Questi sono sdraiati accantoai loro cammelli, la cui testa viperina si allunga sul suolo; quelli

hanno fatto la strada a piedi, e ne giungono ancora da tutte le partidella penisola. Qua e là si rizzano delle tende, qua e là si vedono deicarri staccati, delle capanne di rami, che servono da dimora provvisoria a tutta questa gente.

 — Che folla! — disse il capitano Hod. — Le acque del Phalgu non saranno molto potabili al tramonto!

 — fece osservare Banks. — E perché? — domandai.

 — Perché sono acque sacre, e tutta questa folla sospetta vi si bagnerà, come fanno i gangisti nelle acque del Gange.

 — Siamo forse a valle? — esclamò Hod tendendo la mano nelladirezione in cui si trovava il nostro accampamento.

 — No, capitano, rassicuratevi, — rispose l'ingegnere, — siamo amonte.

 — Alla buon'ora, Banks! Non bisogna abbeverare a questa

sorgente impura il nostro Gigante d'Acciaio!

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Frattanto, passavamo in mezzo a quelle migliaia di indù,ammucchiati in uno spazio tanto ristretto.

L'orecchio era colpito prima di tutto da un rumore discorde dicatene e di campanelli. Erano i mendicanti, che facevano appello alla

carità pubblica.Là formicolavano esemplari svariati di quella confraternita di

vagabondi, tanto considerevole in tutta la penisola indiana. Lamaggior parte ostentava delle false piaghe, come i Clopin-Trouillefou del Medioevo. Ma se i mendicanti di professione sono per la maggior parte falsi infermi, non è così dei fanatici. Infatti,sarebbe stato difficile spingere più oltre la convinzione.

C'erano fachiri, gussain, seminudi, coperti di cenere; questo, conil braccio anchilosato a causa di una prolungata tensione; quello, conla mano trapassata dalle unghie delle proprie dita.

Altri si erano imposti di misurare con il proprio corpo tutto lastrada percorsa dalla loro partenza. Sdraiandosi sul suolo,rialzandosi, sdraiandosi ancora, avevano percorso centinaia di leghe,come se avessero servito da doppio decametro.

Qui alcuni fedeli, inebriati dall’hang (oppio liquido in un infuso

di canapa), erano appesi ai rami di alcuni alberi mediante uncini diferro cacciati nelle spalle. Così appesi, giravano su se stessi finché lacarne non avesse ceduto ed essi fossero caduti nelle acque delPhalgu.

Più in là, altri, in onore di Siva, con le gambe bucate, la linguaforata da frecce che la passavano da parte a parte, facevano lambireda dei serpenti il sangue che colava dalle loro piaghe.

Tutto quello spettacolo non poteva essere che terribilmente

ributtante agli occhi di un europeo. Perciò io avevo fretta di passareoltre, quando Banks, arrestandomi all'improvviso:

 — L'ora della preghiera! — mi disse.In quel momento, in mezzo alla folla apparve un bramino. Egli

alzò la mano destra e la tese verso il sole, che la rupe di Gaya avevanascosto fino allora.

Il primo raggio emesso dall'astro luminoso fu il segnale. La folla,

quasi nuda, entrò nelle acque sacre. Vi furono allora delle sempliciimmersioni, come nei primi tempi del battesimo; ma, devo dirlo, non

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tardarono a mutarsi in veri sguazzamenti, di cui era difficile afferrareil carattere religioso. Ignoro se gli iniziati recitando gli sloca oversetti che, per un prezzo convenuto, i sacerdoti dettavano loro, pensassero più a lavare il loro corpo o la loro anima. Fatto è che,

dopo aver preso dell'acqua nel cavo della mano, dopo averne aspersoi quattro punti cardinali, essi se ne gettavano alcune gocce in faccia,come bagnanti che si divertano su una spiaggia in riva al mare, làdove si frangono le onde. Devo aggiungere, inoltre, che essi nondimenticavano di strapparsi almeno un capello per ogni peccato cheavevano commesso. Quanti ce n'erano che avrebbero meritatod'uscire calvi dalle acque del Phalgu!

Ecco quali erano le follie balneari di quei fedeli, che oraintorbidavano l'acqua con i loro tuffi improvvisi, ora la battevano coni talloni come fa un nuotatore esperto, a tal punto che gli alligatorispaventati fuggivano alla riva opposta.

Là, con sguardo glauco, fisso su tutta quella folla rumorosa cheinvadeva il loro dominio, essi guardavano e rimanevano allineati,facendo risuonare l'aria con lo scricchiolio delle loro formidabilimascelle. I pellegrini, del resto, non se ne curavano, come se essi

fossero stati delle lucertole inoffensive.Era tempo di lasciare che quei bizzarri devoti si mettessero incondizione di entrare nel Kaila, che è il paradiso di Brahma. Perciòrisalimmo la riva del Phalgu, per raggiungere l'accampamento.

La colazione ci riunì tutti a tavola, e il resto della giornata, che erastata estremamente calda, passò senza incidenti. Il capitano Hod,verso sera, andò a battere la pianura circostante e riportò dellaselvaggina minuta. Frattanto, Storr, Kâlouth e Goûmi rinnovavano la

 provvista d'acqua e di combustibile, e caricavano il forno. Si doveva,infatti, partire all'alba.

Alle nove di sera, eravamo tutti nelle nostre camere. Si preparavauna notte calmissima, ma molto buia. Fitte nuvole nascondevano lestelle e rendevano pesante l'atmosfera. Il calore non diminuiva diintensità, nemmeno dopo il tramonto.

Stentai parecchio ad addormentarmi, tanto la temperatura era

soffocante. Attraverso la mia finestra, che avevo lasciato aperta,

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 — Che cosa c'è? — domandò l'ingegnere. — Guardate, signore, — rispose Storr.I primi bagliori dell'alba permettevano di vedere le rive del Phalgu

e una parte della strada che si stendeva davanti per parecchie miglia.

La nostra sorpresa fu grande quando scorgemmo molte centinaia diindù, coricati a gruppi, che ingombravano i lati e la carreggiata.

 — Sono i nostri pellegrini di ieri, — disse il capitano Hod. — Che cosa fanno là? — chiesi. — Senza dubbio, aspettano che spunti il sole, — rispose il

capitano, — per tuffarsi nelle acque sacre! — No, — rispose Banks. — Non possono forse fare le loro

abluzioni anche a Gaya? Se sono venuti qui, è perché... — È perché il nostro Gigante d'Acciaio ha prodotto il suo solito

effetto! — esclamò il capitano Hod. — Avranno saputo che unelefante gigantesco, un colosso come non ne avevano mai visti, eranelle vicinanze, e sono venuti ad ammirarlo!

 — Purché si limitino all'ammirazione! — rispose l'ingegnerecrollando il capo.

 — Che cosa temi, Banks? — domandò il colonnello Munro.

 — Eh! temo... che questi fanatici ci sbarrino la strada e ciimpediscano di proseguire! — In ogni caso, sii prudente! Con devoti di questa fatta le

 precauzioni non sono mai troppe. — Infatti, — rispose Banks. Poi, chiamando il fuochista: — Kâlouth, — domandò, — sono pronti i fuochi? — Sì, signore. — Ebbene, accendi.

 — Sì, accendi, Kâlouth! — esclamò il capitano Hod. — Mettisotto pressione, Kâlouth, e che il nostro elefante sputi in faccia a tuttiquesti pellegrini il suo alito di fumo e di vapore!

Erano le tre e mezzo del mattino. Non occorreva che una mezz'oraal massimo perché la macchina fosse sotto pressione. I fuochi furonosubito accesi, la legna crepitò nel forno, e un fumo nero sfuggì dallagigantesca proboscide dell'elefante, la cui estremità si perdeva tra i

rami dei grandi alberi.

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In quel momento, alcuni gruppi di indù si avvicinarono. Nellafolla si produsse un movimento generale. Il nostro treno fu quasiaccerchiato. I pellegrini delle prime file alzavano le braccia al cielo,le tendevano verso l'elefante, si inchinavano, si inginocchiavano, si

 prosternavano fino nella polvere. Era adorazione portataevidentemente al massimo.

Là, sotto la veranda, eravamo il colonnello Munro, il capitanoHod e io, piuttosto preoccupati di sapere dove si sarebbe arrestatoquel fanatismo. Mac Neil ci aveva raggiunti e guardavasilenziosamente. Banks era andato a sistemarsi insieme con Storrnella torretta disposta sopra l'enorme animale e dalla quale egli poteva dirigerlo a suo piacimento.

Alle quattro la caldaia rombava. Questo rumore doveva essere preso dagli indù per il brontolio irritato di un elefante d'un ordinesoprannaturale. In quel momento, il manometro indicava una pressione di cinque atmosfere, e Storr lasciava sfuggire dalle valvoleil vapore, come se esso avesse traspirato attraverso la pelle delgigantesco pachiderma.

 — Siamo sotto pressione, Munro! — gridò Banks.

 — Avanti, Banks, — rispose il colonnello, — ma con prudenza enon schiacciamo nessuno!Era quasi giorno. La strada che segue la riva del Phalgu era

interamente occupata da quella folla di devoti, poco disposta alasciarci passare. In quella situazione, andare avanti senzaschiacciare nessuno non era cosa facile.

Banks diede due o tre colpi di fischietto, ai quali i pellegrinirisposero con urla frenetiche.

 — Fatevi da parte! Fatevi da parte! — gridò l'ingegnere,ordinando al macchinista di azionare un po' l'acceleratore.

I muggiti del vapore che si precipitava nei cilindri si fecero udire.La macchina si mosse di un mezzo giro di ruota. Un getto poderosodi fumo bianco usci dalla proboscide.

La folla si era fatta da parte per un istante. L'acceleratore fu alloraazionato a metà. I barriti del Gigante d'Acciaio crebbero, e il nostro

treno cominciò a muoversi tra le fitte file degli indù, che non parevavolessero fargli posto.

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C  APITOLO VIII

 ALCUNE  ORE   A  BÉNARES

LA STRADA era ormai libera davanti alla Steam-House, quellastrada che, via Sasserâm, doveva portarci alla riva destra del Gange,di fronte a Bénares.

Un miglio più in là dell'accampamento, la macchina rallentò e prese un'andatura più moderata, di circa due leghe e mezzo all'ora.L'intenzione di Banks era di accamparsi quella sera stessa aventicinque leghe da Gaya, e di passare tranquillamente la notte neidintorni della piccola città di Sasserâm.

In generale, le strade dell'India evitano, per quanto è possibile, icorsi d'acqua, che richiedono dei ponti, la cui erezione è moltocostosa su questi terreni alluvionali. Per di più, non se ne sono

neppure ancora costruiti in molti di quei luoghi nei quali non è stato possibile evitare che un fiume o un corso d'acqua sbarrino ilcammino. È vero che vi è il traghetto, ma questo antiquato erudimentale mezzo di trasporto sarebbe stato certamente insufficiente per traghettare il nostro treno. Fortunatamente potevamo farne ameno.

Proprio durante quella giornata si dovette attraversare unimportante corso d'acqua, il Sône. Questo fiume, alimentato aldisopra di Rhotas dai suoi affluenti Coput e Coyle, va a perdersi nelGange, pressappoco fra Arrah e Dinapore.

 Nulla fu più facile di questo passaggio. L'elefante si trasformò conestrema naturalezza in motore marino. Scese l'argine per un pendiodolce, entrò nel fiume, si mantenne alla superficie, e battendo l'acquacon le sue larghe zampe, simili alle pale d'una ruota motrice, trascinòdolcemente il treno, che gli galleggiava dietro.

Il capitano Hod non stava in sé dalla gioia.

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 — Una casa ambulante! — esclamava, — una casa che ècontemporaneamente carrozza e piroscafo! Non le mancano che le ali per trasformarsi in apparecchio volante e attraversare lo spazio!

 — Lo si farà un giorno o l'altro, amico Hod, — rispose seriamente

l'ingegnere. — Lo so bene, amico Banks, — replicò altrettanto seriamente il

capitano. — Tutto si farà! Ma quello che non si farà, sarà che civenga resa la vita fra duecento anni per vedere queste meraviglie! Lavita non è allegra tutti i giorni, eppure acconsentirei volentieri avivere dieci secoli, per pura curiosità!

La sera, a dodici ore da Gaya, dopo aver passato il magnifico ponte tubolare che sostiene la linea ferroviaria, ottanta piedi aldisopra del letto del Sône, ci accampavamo nei pressi di Sasserâm. Non si trattava che di passare una notte in quel luogo, per rifornircidi legna e d'acqua, e ripartire all'alba.

Questo programma fu eseguito punto per punto, e la mattinasuccessiva, 22 maggio, prima di quelle ore ardenti che ci riservava ilsole cocente di mezzogiorno, avevamo ripreso la nostra strada.

Il paese era sempre lo stesso, ossia ricchissimo, molto coltivato.

Così esso si mostra nelle vicinanze della meravigliosa valle delGange. Non parlerò dei numerosi villaggi che si perdono in mezzoalle immense risaie, fra i ciuffi di palme taras dal fitto fogliamedisposto a volta sotto l'ombra dei manghi e di altri alberi dallavegetazione lussureggiante. Del resto, noi non ci fermavamo. Se,talvolta, la strada era sbarrata da qualche carro, trascinato lentamentedagli zebù, due o tre fischi lo facevano tirar da parte, e il nostro treno passava, con gran stupore dei raiot. 

Per tutta quella giornata, ebbi il gradito piacere di vedere parecchicampi di rose. Infatti, non eravamo lontani da Ghazipore, importantecentro di produzione dell'acqua o, meglio, dell'essenza fatta conquesti fiori.

Domandai a Banks se potesse darmi qualche particolare su quel prodotto tanto ricercato, che sembra essere la più alta espressionedella profumeria.

 — Ecco delle cifre, caro amico, — mi rispose Banks, — e vimostreranno quanto sia costosa questa fabbricazione. Quaranta libbre

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di rose vengono inizialmente sottoposte a una specie di distillazionelenta su un fuoco moderato, e il tutto dà circa trenta libbre d'acqua dirose. Quest'acqua viene versata su un altro mucchio di quarantalibbre di fiori, la cui distillazione viene spinta fino al momento in cui

la miscela è ridotta a venti libbre. Si espone questa miscela, perdodici ore, all'aria fresca della notte, e il giorno dopo si trova,coagulata alla sua superficie, che cosa? un'oncia d'olio odoroso.Dunque, da ottanta libbre di rose, quantità che, si dice, contiene nonmeno di duecentomila fiori, si è ricavata alla fine solo un'oncia diliquido. Un vero massacro! Perciò non c'è da stupirsi se, anche nel paese produttore, l'essenza di rose costi quaranta rupie o centofranchi l'oncia.

 — Eh! — replicò il capitano Hod, — se per fabbricare un'onciad'acquavite ci volessero ottanta libbre d'uva, allora si che il grogsarebbe caro!

Durante quella giornata, dovemmo attraversare ancora ilKaramnaca, uno degli affluenti del Gange. Gli indù hanno fatto diquesto innocuo fiume una specie di Stige, sul quale non èconveniente navigare. Le sue rive non sono meno maledette di quelle

del Giordano o del Mar Morto. Esso porta i cadaveri che gli siaffidano direttamente all'inferno braminico. Non discuto questecredenze; ma quanto ad ammettere che l'acqua di questo diabolicofiume sia sgradevole al gusto e malsana per lo stomaco, protesto. Èottima.

La sera, dopo aver attraversato un paese pochissimo accidentato,fra gli immensi campi di papaveri e la vasta scacchiera delle risaie, ciaccampavamo sulla riva destra del Gange, di fronte all'antica

Gerusalemme degli indù, la città santa di Bénares. — Ventiquattro ore di sosta! — disse Banks. — A che distanza siamo ora da Calcutta? — chiesi all'ingegnere. — A trecentocinquanta miglia circa, — mi rispose, — e

confesserete, caro amico, che non ci siamo accorti né della lunghezzadel percorso né delle fatiche del viaggio!

Il Gange! C'è forse un altro fiume il cui nome evochi leggende più

 poetiche, e non sembra forse che tutta l'India si riassuma in lui? C'èforse al mondo una valle paragonabile a quella che, per dirigere il

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corso superbo di quel fiume, si stende per uno spazio di cinquecentoleghe e non conta meno di cento milioni d'abitanti? C'è forse un punto del globo in cui sia stato ammucchiato un numero più grandedi meraviglie dopo l'apparizione delle razze asiatiche? Che cosa

avrebbe mai detto del Gange Victor Hugo, che ha cantato cosìsuperbamente il Danubio? Sì, si può parlare ad alta voce quando siha:

... comme une mer sa houle, Quand sur le globe on se déroule 

Comme un serpent, et quand on roule  De l'occident à l'orient!16 

Ma anche il Gange ha la sua onda lunga, i suoi cicloni, piùterribili degli uragani su un fiume europeo! Anch'esso si stende comeun serpente nelle più poetiche regioni del mondo! Anch'esso scorredall'occidente all'oriente! E non da un modesto gruppo di colline essotrae la sua sorgente! È dalla più alta catena del globo, è dallemontagne del Tibet che esso si precipita assorbendo tutti gli affluenti

che trova per via! Scende dall'Himalaya!Il giorno dopo, 23 maggio, al levar del sole, l'ampio specchiod'acqua scintillava dinanzi ai nostri occhi. Sulla sabbia bianca, alcunigruppi di grossi alligatori sembravano sorbire i primi raggi del sole.Erano immobili, rivolti verso l'astro radioso, come se fossero stati i più fedeli seguaci di Brahma. Ma alcuni cadaveri, che passavanogalleggiando, li strapparono alla loro adorazione. È stato detto chequesti cadaveri trasportati dalla corrente galleggiano stesi sul dorso

quando sono di uomini, bocconi quando sono di donne. Poteiconstatare che non c'è nulla di vero in questa osservazione. Unmomento dopo i mostri si gettavano su quella preda, che fornisconoloro quotidianamente i corsi d'acqua della penisola, e la trascinavanonelle profondità del fiume.

La linea ferroviaria di Calcutta, prima di biforcarsi ad Allahabad per correre verso Delhi, a nord-ovest, e verso Bombay, a sud-ovest,

16  ... come un mare l'onda lunga, / Quando ci si stende sul globo / Come unserpente, e quando si scorre / Dall'Occidente all'Oriente! (N.d.T.) 

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segue costantemente la riva destra del Gange, di cui risparmia,seguendo una linea retta, le numerose sinuosità. Alla stazione diMogul-Serai, da cui distavamo solamente poche miglia, se ne staccaun piccolo tronco che fa il servizio per Bénares, attraversando il

fiume, e per la valle del Goumti va fino a Jaunpore, percorrendo unasessantina di chilometri.

Bénares è dunque sulla riva sinistra. Non era però in quel puntoche dovevamo attraversare il Gange, bensì ad Allahabad. Il Giganted'Acciaio rimase dunque al campo che era stato scelto la sera delgiorno precedente, 22 maggio. Delle gondole erano alla fondaaccanto alla riva, pronte a condurci alla città santa, che desideravovisitare con una certa cura.

Il colonnello Munro non aveva nulla da apprendere, nulla davedere in quelle città da lui visitate tanto spesso. Tuttavia, quelgiorno, ebbe per un momento il pensiero di accompagnarci; ma, dopoaver riflettuto, decise di fare un'escursione sulle rive del fiume, incompagnia del sergente Mac Neil. Infatti, entrambi lasciarono laSteam-House, ancora prima che ne fossimo partiti noi. Quanto alcapitano Hod, che era già stato di guarnigione a Bénares, era sua

intenzione andare a trovare alcuni suoi compagni. Dunque, Banks edio, poiché l'ingegnere aveva voluto farmi da guida, fummo i soli adessere attirati da un senso di curiosità verso la città.

Quando dico che il capitano Hod era stato di guarnigione aBénares, bisogna sapere che le truppe dell'esercito reale nonrisiedono abitualmente nelle città indù. Le loro caserme sono poste in«accantonamenti» che, di fatto, diventano vere e proprie città inglesi.Così ad Allahabad, così a Bénares, così in altri punti del territorio,

dove non solo i militari, ma anche i funzionari, i negozianti, i possidenti, si raccolgono di preferenza. Ognuna di queste grandicittà, dunque, è doppia, una con tutte le comodità dell'Europamoderna, l'altra che ha conservato i costumi del paese e gli usi indùcon tutto il loro colore locale!

La città inglese annessa a Bénares è Sécrole, i cui bungalow, iviali, le chiese cristiane sono poco interessanti da visitare. Là si

trovano pure i principali alberghi ricercati dai turisti. Sécrole è una diquelle città prefabbricate che i costruttori del Regno Unito

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 potrebbero spedire in casse, per esser rimontate sul posto. Dunque,nulla di curioso da vedere. Perciò, Banks ed io, dopo esserciimbarcati su una gondola, attraversammo obliquamente il Gange, inmodo da avere inizialmente una panoramica di quel magnifico

anfiteatro che Bénares descrive al disopra di un alto argine. — Bénares, — mi disse Banks, — è la città sacra dell'India, per

eccellenza. È la Mecca indiana, e chiunque vi abbia vissuto, fossesolo per ventiquattro ore, si è assicurato una parte nelle felicitàeterne. Si comprende dunque quale affluenza di pellegrini può produrre una credenza simile, e che numero di abitanti deve avereuna città, alla quale Brahma ha riservato delle immunità di taleimportanza.

Si danno a Bénares più di trenta secoli d'esistenza. Essa sarebbedunque stata fondata pressappoco nell'epoca in cui Troia stava perscomparire. Dopo aver esercitato sempre una grande influenza, non politica, ma spirituale sull'Indostan, essa fu il centro principale dellareligione buddistica fino al IX secolo. Allora avvenne unarivoluzione religiosa. Il brahamanesimo distrusse l'antico culto.Bénares divenne la capitale dei bramini, il centro d'attrazione dei

fedeli, e si afferma che trecentomila pellegrini la visitinoannualmente.L'autorità metropolitana ha conservato alla città santa il suo rajah.

Questo principe, pagato piuttosto magramente dall'Inghilterra, abitauna magnifica residenza a Ramnagur, sul Gange. È un autenticodiscendente dei re di Kaci, antico nome di Bénares, ma non ha piùnessun'influenza, e se ne consolerebbe, se la sua pensione non fosseridotta a un lakh di rupie (ossia centomila rupie, o

duecentocinquantamila franchi circa, che costituiscono appena ildenaro per le piccole spese per un nababbo di un tempo).

Bénares, come quasi tutte le città della valle del Gange, fu toccatarelativamente poco dalla grande insurrezione del 1857. Aquell'epoca, la sua guarnigione si componeva del 37° reggimento difanteria indigena, di un corpo di cavalleria irregolare e di un mezzoreggimento Sikh. Di truppe reali, essa non possedeva che una mezza

 batteria d'artiglieria europea. Quel pugno d'uomini non poteva pretendere di disarmare i soldati indigeni. Perciò le autorità

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aspettarono, non senza impazienza, l'arrivo del colonnello Neil, chesi era messo in marcia per Allahabad con il 10° reggimentodell'esercito reale. Il colonnello Neil entrò a Bénares con soltantoduecentocinquanta uomini, e fu ordinata una rivista al campo di

manovra.Quando i Cipay furono riuniti, venne loro ordinato di deporre le

armi. Rifiutarono. La lotta si impegnò fra loro e la fanteria delcolonnello Neil; ma ai ribelli si unì quasi subito la cavalleriairregolare e poi i Sikh, che si credettero traditi. Allora la mezza batteria aprì il fuoco, coprì gli insorti di mitraglia, e, nonostante illoro coraggio, nonostante il loro accanimento, furono messi tutti inrotta.

Quel combattimento si era svolto fuori della città. All'interno vi fusoltanto un modesto tentativo d'insurrezione dei musulmani, i qualiissarono la bandiera verde, tentativo subito abortito. Da quel giorno, per tutta la durata della rivolta, Bénares non fu più turbata, nemmenonei momenti in cui la insurrezione parve trionfare nelle provinceoccidentali.

Banks mi aveva dato questi particolari mentre la nostra gondola

scivolava lentamente sulle acque del Gange. — Caro amico, — mi disse, — stiamo per visitare Bénares, va bene! Ma per quanto questa capitale sia antica, non vi troverete unmonumento che abbia più di trecento anni d'esistenza. Nonstupitevene. È la conseguenza delle lotte religiose, nelle quali il ferroe il fuoco hanno avuto una parte troppo triste. Ad ogni modo,Bénares non ha cessato di essere una città curiosa, e non dovreterammaricarvi della vostra passeggiata!

Poco dopo la nostra gondola si arrestò a una distanza che ci permetteva di contemplare, in fondo a una baia azzurra come la baiadi Napoli, il pittoresco anfiteatro delle case che si schierano sullacollina, e la massa dei palazzi, una parte dei quali minaccia dicrollare in seguito al cedimento della loro base, minata di continuodalle acque del fiume. Una pagoda nepalese, di architettura cinese,dedicata a Budda, una foresta di torri, di guglie, di minareti, di

 piccole piramidi, proiettata dalle moschee e dai templi, dominata

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dalla guglia d'oro del lingam di Siva, e dalle due sottili guglie dellamoschea di Aurangzeb, corona questo meraviglioso panorama.

Invece di sbarcare subito a uno dei ghàts o scale che collegano lerive alla piattaforma degli argini, Banks fece passare la gondola

davanti ai lungofiume, i cui corsi più bassi si bagnano nel fiume. Quitrovai una ripetizione della scena di Gaya, ma in un altro paesaggio.Invece delle due foreste verdi del Phalgu, erano le prospettive dellacittà santa che formavano lo sfondo del quadro. Quanto al soggetto principale, era pressappoco lo stesso.

Infatti, migliaia di pellegrini coprivano l'argine, le terrazze, lescale, e venivano a tuffarsi devotamente nel fiume in file triple oquadruple. Non si creda che quel bagno fosse gratuito. Alcuniguardiani in turbante rosso, con la sciabola al fianco, posti sugliultimi gradini dei ghàts, esigevano il tributo, in compagnia di abili bramini che vendevano reliquie, amuleti o altri articoli di devozione.

Inoltre, c'erano non solo pellegrini che si bagnavano per propriocontò, ma anche dei trafficanti, il cui unico commercio consistevanell'attingere un po' di quelle acque sacrosante per portarle fin nei paesi più lontani della penisola. Come garanzia, ogni fiala è marcata

con il sigillo dei bramini. Tuttavia bisogna credere che la frode vengaesercitata su vasta scala, tanto è diventata considerevolel'esportazione di questo liquido miracoloso.

 — Forse addirittura, — mi disse Banks, — tutta l'acqua del Gangenon basterebbe ai bisogni dei fedeli!

Gli domandai allora se quei «bagni» non causassero spesso delledisgrazie, che non si cercava di prevenire. Non c'erano bagnini perfermare gli imprudenti che si arrischiavano nella rapida corrente del

fiume. — Le disgrazie sono frequenti, — mi rispose Banks, — ma se il

corpo del devoto si perde, l'anima si salva. Perciò non si va tanto peril sottile.

 — E i coccodrilli? — aggiunsi. — I coccodrilli, — mi rispose Banks, — stanno generalmente in

disparte. Tutto questo rumore li spaventa. Non sono questi mostri che

si devono temere, quanto piuttosto dei malfattori, che si tuffano,scivolano sott'acqua, afferrano le donne, i fanciulli, li trascinano con

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loro e ne rubano i gioielli. Si cita anzi, uno di questi furfanti che, conin capo una testa meccanica, ha fatto per un pezzo la parte di falsococcodrillo, guadagnandosi una piccola fortuna con questo mestiere, proficuo e pericoloso nello stesso tempo. Infatti, un giorno

quell'intruso è stato divorato da un vero alligatore, e non si èritrovato che la sua testa di pelle conciata, che galleggiava sullasuperficie del fiume.

Del resto, ci sono anche dei fanatici arrabbiati che vengono acercare volontariamente la morte nei flutti del Gange, e ci mettonoanche particolari raffinatezze. Si legano intorno al corpo unaghirlanda di urne vuote, ma scoperchiate. A poco a poco l'acqua penetra nelle urne e le sommerge pian piano fra gli applausi fragorosidei devoti.

La nostra gondola ci condusse ben presto davanti al ManmenkaGhàt. Là, si ergono i roghi a piani sovrapposti sui quali vengono bruciati i cadaveri di tutti i defunti che si sono preoccupati in qualchemodo della propria vita futura. La cremazione, in questo santo luogo,è avidamente ricercata dai fedeli, e i roghi ardono notte e giorno. Iricchi babu dei territori lontani si fanno trasportare a Bénares, non

appena si sentono colpiti da una malattia letale. Bénares,indubbiamente, è il miglior punto di partenza per il «viaggio perl'altro mondo». Se il defunto non ha che dei peccati veniali darimproverarsi, la sua anima trasportata sui fiumi del Manmenka,andrà direttamente nel soggiorno delle felicità eterne. Se è stato ungrande peccatore, la sua anima dovrà, invece, prima rigenerarsi nelcorpo di qualche bramino che deve ancora nascere. Bisogna dunquesperare che, durante questa seconda incarnazione, poiché la sua vita è

stata esemplare, non gli venga imposto un terzo avatar,  prima cheegli sia definitivamente ammesso a partecipare alle delizie del cielodi Brahma.

Dedicammo il resto della giornata a visitare la città, i suoi principali monumenti, i suoi bazar fiancheggiati da botteghe scure,alla moda araba. Vi si vendono soprattutto fini mussole di un prezioso tessuto e il kinkòb, un tipo di stoffa di seta ricamata d'oro,

che è uno dei principali prodotti dell'industria di Bénares. Le vieerano molto pulite, ma strette, come si addice alle città che i raggi di

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un sole tropicale colpiscono quasi a perpendicolo. Se vi si trovavaombra, il caldo era pur sempre soffocante. Compativo i portatori delnostro palanchino, che però non sembravano lamentarsene troppo.

Del resto, quei poveri diavoli avevano in quel momento

un'occasione di guadagnare qualche rupia, e ciò bastava a dar loroforza e coraggio. Ma così non era per un certo indù, o meglio un bengalese, dall'occhio vivace, dalla fisionomia astuta, che, senzacercar troppo di nasconderlo, ci seguì durante tutta la nostraescursione.

Sbarcando sul lungofiume del Manmenka Ghàt, avevo,chiacchierando con Banks, pronunciato ad alta voce il nome delcolonnello Munro. Il bengalese, che guardava accostare la nostragondola, non aveva potuto trattenersi dal trasalire. Non vi avevo fattoattenzione più di quanto fosse necessario, ma me ne ricordai quandotrovai quella specie di spia costantemente dietro a noi. Non cilasciava che per ricomparire alle nostre spalle, alcuni istanti più tardi.Era un amico o un nemico? non lo sapevo, ma era un uomo a cui ilnome del colonnello Munro, certamente, non era indifferente.

Il nostro palanchino non tardò a fermarsi alla base dell'ampia

scalinata di cento gradini che sale dal lungofiume alla moschea diAurangzeb.Una volta, i devoti non salivano che in ginocchio quella specie di

Scala Santa, così come fanno i fedeli di Roma. Allora, in quel luogosorgeva il tempio di Vishnu; ora gli si è sostituita la moschea delconquistatore.

Mi sarebbe piaciuto contemplare Bénares dall'alto di uno deiminareti di quella moschea, la costruzione dei quali è considerata

come un prodigio di architettura. Alti centotrentadue piedi, hannoappena il diametro di una modesta ciminiera da officina, eppure unascala a chiocciola si svolge nel loro fusto cilindrico; ma non è più permesso salirvi, e non senza ragione. Questi due minareti siallontanano già sensibilmente dalla linea verticale e, dotati di minorvitalità della torre di Pisa, un giorno o l'altro finiranno con il cadere.

Lasciando la moschea di Aurangzeb, ritrovai il bengalese che ci

aspettava presso la porta. Questa volta, lo guardai fisso, ed egliabbassò gli occhi. Prima di richiamare l'attenzione di Banks su

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questo incidente, volli vedere se la condotta equivoca diquell'individuo sarebbe continuata, e non dissi nulla.

Le pagode e le moschee si contano a centinaia in questameravigliosa città di Bénares. E così pure quegli splendidi palazzi, il

 più bello dei quali, senza contraddizione, appartiene al re di Nagpore.Pochi rajah, infatti, trascurano d'avere una casa nella città santa, e vivengono all'epoca delle grandi feste religiose di Mela.

 Non potevo pretendere di visitare tutti quegli edifici nel pocotempo di cui disponevamo. Mi limitai dunque a visitare il tempio diBichêshwar, dove sorge il lingam di Siva. Questa pietra informe,considerata una parte del corpo del più truce degli dèi della mitologiaindiana, ricopre un pozzo, la cui acqua stagnante possiede, si dice,virtù miracolose. Vidi pure il Mankarnika, o fontana sacra, nellaquale si bagnano i devoti per il maggior profitto dei bramini, poi ilMân-Mundir, osservatorio costruito duecento anni or sonodall'imperatore Akbar, tutti gli strumenti del quale, di un'immobilitàmarmorea, sono semplicemente riprodotti in pietra.

Avevo anche sentito parlare di un palazzo delle scimmie, che ituristi non mancano di visitare a Bénares. Un parigino doveva

credere naturalmente che si sarebbe trovato davanti la celebre gabbiadell'Orto Botanico. Niente del genere.Questo palazzo è semplicemente un tempio, il Durga-Khund,

situato un po' fuori dei sobborghi. Esso risale al secolo IX, ed è unodei più antichi monumenti della città. Le scimmie non vi sono chiusein una gabbia a sbarre di ferro. Esse vagano liberamente per i cortili,saltano da un muro all'altro, si arrampicano in cima a enormi manghi,si contendono con violente grida i grani abbrustoliti, di cui sono

ghiottissime, e che i visitatori portano loro. Anche qui, comedappertutto, i bramini, custodi del Durga-Khund, riscuotono un piccolo tributo, che fa evidentemente di questa professione una delle più lucrose dell'India.

 Naturalmente eravamo piuttosto stanchi a causa del caldo,quando, verso sera, pensammo di ritornare alla Steam-House.Avevamo fatto colazione e cenato a Sécrole, in uno dei migliori

alberghi della città inglese, eppure, devo confessare che la cucina cifece rimpiangere quella del signor Parazard.

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Quando la gondola ritornò alla base del ghàt  per riportarci sullariva destra del Gange, ritrovai un'ultima volta il bengalese a due passidalla barca. Un canotto montato da un indù lo aspettava. Eglis'imbarcò. Voleva dunque passare il fiume e seguirci ancora fino

all'accampamento. La cosa si faceva molto sospetta. — Banks, — dissi allora a bassa voce, mostrando il bengalese —

ecco una spia che non ci ha lasciato un attimo... — L'ho visto anch'io, — rispose Banks, — e ho notato che è stato

il nome del colonnello, pronunciato da voi, che lo ha messo sul chivive.

 — Non sarebbe il caso?... — dissi allora. — No! Lasciamolo fare, — rispose Banks. — È meglio che non si

accorga di essere sospettato... Del resto, è già scomparso.Infatti, il canotto del bengalese era già sparito fra le numerose

 barche di ogni tipo che solcavano allora le scure acque del Gange.Poi, Banks, rivolgendosi al nostro barcaiolo:

 — Conosci quell'uomo? — gli domandò con un tono chesimulava indifferenza.

 — No, è la prima volta che lo vedo, — rispose il barcaiolo.

Era scesa la notte. Centinaia di imbarcazioni pavesate, illuminateda lanterne variopinte, piene di cantanti e di suonatori, s'incrociavanoin tutte le direzioni sul fiume in festa. Dalla riva sinistra si alzavanosvariati fuochi artificiali, i quali mi ricordavano che non eravamolontani dal Celeste Impero, dove sono in tanto onore. Sarebbedifficile dare una descrizione di questo spettacolo, che era veramentesenza paragone. Per quale motivo si celebrasse quella festa notturna,che sembrava improvvisata e alla quale prendevano parte gli indù di

ogni classe, non mi fu possibile saperlo. Nel momento in cui essafiniva, la gondola aveva già accostato l'altra riva.

Fu dunque come una visione. Non ebbe che la durata di queifuochi artificiali che illuminarono per un istante lo spazio e sispensero nel buio. Ma l'India, l'ho già detto, adora trecento milioni didèi, semidei, santi e beati di ogni genere, e l'anno non ha addiritturaabbastanza ore, minuti e secondi, che possano essere dedicati a

ognuna di queste divinità.

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Quando fummo di ritorno all'accampamento, il colonnello Munroe Mac Neil vi erano già tornati. Banks domandò al sergente se nonfosse accaduto nulla di nuovo durante la nostra assenza.

 — Nulla, — rispose Mac Neil.

 — Non avete visto gironzolare nessuna faccia sospetta? — Nessuna, signor Banks. Avreste forse qualche motivo di

sospettare?... — Siamo stati spiati durante la nostra escursione a Bénares, —

rispose l'ingegnere, — e non mi piace che qualcuno ci spii. — Quella spia era... — Un bengalese, che è stato messo sul chi vive dal nome del

colonnello Munro. — Che cosa può volere da noi quell'uomo? — Non so, Mac Neil. Bisognerà stare attenti! — Staremo attenti, — rispose il sergente.

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C  APITOLO IX

 ALLAHABAD

LA DISTANZA fra Allahabad e Bénares è di circa centotrentachilometri. La strada segue quasi invariabilmente la riva destra delGange, tra la linea ferroviaria e il fiume. Storr si era procurato del

carbone in mattonelle e ne aveva caricato il tender. L'elefante avevadunque il nutrimento assicurato per molti giorni. Ben pulito (stavo per dire ben strigliato), lucido come se uscisse dall'officina dicarrozzeria, esso aspettava con impazienza il momento di partire. Non scalpitava, no, certamente, ma certi fremiti delle sue ruoteattestavano la tensione dei vapori che riempivano i suoi polmonid'acciaio.

Il nostro treno partì dunque di buon mattino, il 24, a una velocità

di tre o quattro miglia all'ora.La notte era passata senza incidenti, è non avevamo rivisto il

 bengalese.Diciamo ora, una volta per tutte, che il programma di ogni

giornata, riguardante l'ora di alzarsi, l'ora di coricarsi, dellacolazione, del pranzo, della cena, della siesta, veniva attuato con puntualità militare. L'esistenza nella Steam-House si svolgevaregolarmente come nel bungalow di Calcutta.

Il panorama mutava di continuo ai nostri sguardi, senza che lanostra abitazione desse l'impressione di spostarsi. Eravamoassolutamente abituati a questa nuova vita, come un passeggero allavita di bordo di un transatlantico, meno la monotonia, dato che noneravamo sempre chiusi nello stesso orizzonte di mare.

Alle undici di quel giorno, apparve nella pianura un curiosomausoleo, di architettura mongola, che è stato eretto in onore di due

santi personaggi dell'Islam, Kassim-Soliman, padre e figlio. Unamezz'ora dopo si trovava l'importante fortezza di Chunar, i cui

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 pittoreschi bastioni coronano una roccia imprendibile, che sorgecentocinquanta piedi a picco sul Gange.

 Non si discusse nemmeno se fare una sosta per visitare questafortezza, una delle più importanti della valle del Gange, situata in

modo da poter risparmiare in caso di attacco polvere e proiettili.Infatti, qualsiasi colonna d'assalto che cercasse di giungere alle suemura verrebbe schiacciata da una valanga di macigni disposti aquesto scopo.

Ai suoi piedi si stende la città che porta il suo nome, e le cuicivettuole abitazioni si perdono fra il verde degli alberi.

A Bénares, come abbiamo visto, esistono molti luoghi privilegiati,che gli indù considerano come i più sacri del mondo. Facendo unconteggio accurato se ne troverebbero centinaia di quel genere intutta la penisola. Anche la fortezza di Chunar possiede una di questemiracolose stazioni. Là vi mostrano una lastra di marmo, sulla qualeun dio qualunque viene regolarmente ogni giorno a fare la sua siesta.Vero è che questo dio rimane invisibile: perciò non abbiamo cercatodi vederlo.

La sera, il Gigante d'Acciaio si fermava presso Mirzapore per

trascorrervi la notte. La città non è sprovvista di templi, masoprattutto possiede degli stabilimenti e un porto di carico per ilcotone che si produce nel territorio. Sarà un giorno una ricca cittàcommerciale.

Il giorno seguente, 25 maggio, verso le due del pomeriggio,guadavamo il piccolo fiume Tonsa, che in quel periodo aveva menodi un piede d'acqua. Alle cinque veniva superato il raccordo conl'importante tronco ferroviario Bombay-Calcutta. Quasi nel punto in

cui il Jumna si immette nel Gange, potevamo ammirare il magnificoviadotto di ferro, che bagna i suoi sedici piloni, alti sessanta piedi,nelle acque di quel superbo affluente. Giunti al ponte di barche,lungo un chilometro, che congiunge la riva destra a quella sinistra delfiume, lo attraversammo senza eccessive difficoltà, e nella seratavenivamo ad accamparci all'estremità di uno dei sobborghi diAllahabad.

La giornata del 26 doveva essere dedicata alla visita di questaimportante città, da cui si diramano le principali linee ferroviarie

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dell'India. Essa sorge in una splendida posizione, in mezzo a unricchissimo territorio, fra i due bracci del Jumna e del Gange.

La natura ha certamente fatto di tutto perché Allahabad sia lacapitale dell'India inglese, il centro del governo, la residenza del

viceré. Non è dunque impossibile che lo diventi un giorno, se icicloni giocano qualche brutto tiro a Calcutta, la metropoli odierna.Certo è che alcuni previdenti hanno già intravisto e previsto questa possibilità. In questo grande corpo che si chiama India, Allahabad è posta dove si trova il cuore, come Parigi è nel cuore della Francia. Èvero che Londra non è nel cuore del Regno Unito, ma appunto perquesto Londra non ha sulle grandi città inglesi, Liverpool,Manchester, Birmingham, la preminenza che Parigi ha su tutte lealtre città della Francia.

 — E a partire da questo punto, — domandai a Banks, — cidirigeremo direttamente verso il nord?

 — Sì, — riprese Banks, — o perlomeno quasi direttamente.Allahabad è, verso ovest, il limite di questa prima parte della nostraspedizione.

 — Finalmente! — esclamò il capitano Hod, — le grandi città sono

 belle, ma le grandi pianure, le grandi jungle, sono migliori!Continuando a seguire a questo modo le linee ferroviarie finiremmocon lo scorrervi sopra, e il nostro Gigante d'Acciaio verrebbedeclassato a semplice locomotiva! Che decadenza!

 — Rassicuratevi, Hod, — rispose l'ingegnere, — questo nonaccadrà. Ben presto ci spingeremo nei vostri territori prediletti.

 — Dunque, Banks, andremo direttamente alla frontieraindocinese, senza attraversare Lucknow?

 — Il mio parere è di evitare questa città, e soprattutto Cawnpore,troppo piena di funesti ricordi per il colonnello Munro.

 — Avete ragione, — risposi, — e non ne passeremo maiabbastanza lontani!

 — Ditemi, Banks, — domandò il capitano Hod, — durante lavostra visita a Bénares non avete sentito dire nulla riguardo a NanaSahib?

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 — Nulla, — rispose l'ingegnere. — È probabile che il governatoredi Bombay sia stato tratto in errore ancora una volta, e che il Nananon sia mai riapparso nella presidenza di Bombay.

 — È probabile, effettivamente, — rispose il capitano, — perché

altrimenti quell'ex ribelle avrebbe già fatto parlare di sé. — Ad ogni modo, — disse Banks, — mi preme lasciare questa

valle del Gange, che è stata teatro di tanti disastri durantel'insurrezione dei Cipay, da Allahabad fino a Cawnpore. Masoprattutto, che il nome di questa città come quello di Nana Sahibnon vengano mai proferiti davanti al colonnello! Lasciamolo padronedei suoi pensieri.

Il giorno seguente, Banks volle accompagnarmi ancora durante le poche ore che avrei dedicato alla visita di Allahabad. Forse cisarebbero voluti tre giorni per visitare bene le tre città che lacompongono, ma, in fondo, essa è meno bizzarra di Bénares, benchéanch'essa rientri fra le città sante.

Della città indù, non c'è niente da dire. È un agglomerato di case basse, separate da vie strette, dominate qua e là da tamarindimagnifici.

Della città inglese e degli accantonamenti, pure niente. Bei vialifiancheggiati da begli alberi, ricche abitazioni, piazze larghe, tutti glielementi d'una città destinata a diventare una grande capitale.

Il tutto è situato in un'ampia pianura, limitata a nord e a sud daldoppio corso del Jumna e del Gange. Si chiama «la pianura delleElemosine», perché i principi indù vi sono venuti in ogni tempo afare opere di carità. Stando a ciò che ne riferisce il signor Rousselet,che cita un passo della Vita di Hionen Thsang, «è più meritorio dare

una sola moneta in questo luogo che non centomila altrove».Il Dio dei cristiani, invece, si limita a rendere il cento per uno; è

cento volte meno, senza dubbio, ma m'ispira maggior fiducia.Una parola sul forte di Allahabad, che è originale da visitare. È

costruito a ovest della grande pianura delle Elemosine, e si disegnaarditamente con le sue alte mura d'arenaria rossa, dalle quali i proiettili possono, concedetemi la espressione, «fiaccare le braccia»

ai due fiumi. Al centro del forte c'è un palazzo, diventato oraarsenale, ma un tempo residenza preferita del sultano Akbar (in uno

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degli angoli, il Lât di Feroze-Schachs, superbo monolito di trentasei piedi, che sostiene un leone), poco lontano, un tempietto, che gliindù, ai quali è vietato l'accesso al forte, non possono visitare, benchésia uno dei luoghi più sacri del mondo: ecco i punti principali della

fortezza che richiamano l'attenzione dei turisti.Banks mi disse che anche il forte di Allahabad aveva la sua

leggenda, che ricorda la leggenda biblica, relativa alla ricostruzionedel tempio di Salomone a Gerusalemme.

Quando il sultano volle costruire il forte di Allahabad, sembra chele pietre vi si mostrassero contrarie. Appena un muro era stato eretto,subito crollava. Verme consultato l'oracolo; e l'oracolo rispose, comesempre, che ci voleva una vittima volontaria per scongiurare la malasorte. Un indù si offerse in olocausto; egli fu sacrificato, e il fortevenne terminato. Quell'indù si chiamava Brog, ed ecco perché la cittàviene ancora oggi designata con il doppio nome di Brog-Allahabad.

Banks mi condusse poi nei giardini di Khusru, che sono celebri eche meritano la loro celebrità. Sotto l'ombra dei più bei tamarindi delmondo, vi sorgono molti mausolei maomettani. Uno di essi èl'estrema dimora del sultano di cui questi giardini portano il nome.

Su uno dei muri di marmo bianco è impresso il palmo di una enormemano, che ci venne mostrato con una compiacenza che non avevamoosservato quando ci furono fatte vedere le sacre impronte di Gaya.

È vero che questa non era l'orma del piede di un dio, bensì quelladella mano di un semplice mortale, pronipote di Maometto.

Durante l'insurrezione del 1857, il sangue non fu risparmiato adAllahabad più che alle altre città della valle del Gange. La battagliadata dall'esercito reale ai ribelli, sul campo di manovre di Bénares,

 provocò il sollevamento delle truppe indigene, e particolarmente larivolta del 6° reggimento dell'esercito del Bengala. Otto alfierifurono trucidati, inizialmente; ma, grazie all'atteggiamento energicodi alcuni artiglieri europei, che appartenevano al corpo degli invalididi Chunar, i Cipay finirono col deporre le armi.

 Negli accantonamenti, la cosa fu più seria. Gli indigeni sisollevarono, le prigioni vennero aperte, i docks saccheggiati, le

abitazioni europee incendiate. Mentre avveniva ciò, giunse, dopoaver ristabilito l'ordine a Bénares, il colonnello Neil con il suo

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reggimento e cento fucilieri del reggimento di Madras. Egli ripreseagli insorti il ponte di barche, espugnò i sobborghi della città nellagiornata del 18 giugno, disperse i membri di un governo provvisorioche un musulmano aveva installato, e ridivenne padrone della

 provincia.Durante questa breve escursione ad Allahabad, Banks e io

osservammo con cura se fossimo seguiti come lo eravamo stati aBénares, ma questa volta non notammo nulla di sospetto.

 — Non importa, — mi disse l'ingegnere, — bisogna semprediffidare! Avrei voluto passare in incognito, dato che il nome delcolonnello Munro è troppo noto agli indigeni di questa provincia.

Alle sei eravamo di ritorno per il desinare. Sir Edward Munro, cheaveva lasciato l'accampamento per un'ora o due, era già ritornato e ciaspettava. Il capitano Hod, che era andato a far visita ad alcuni suoicompagni di guarnigione negli accantonamenti, rientrava quasiinsieme con noi.

Osservai allora, e feci osservare a Banks, che il colonnello Munrosembrava non più triste, ma più pensieroso del solito. Mi sembravadi sorprendere nei suoi sguardi un fuoco che le lacrime avrebbero

dovuto avervi spento da un pezzo! — Avete ragione, — mi rispose Banks, — c'è qualche cosa! Che èaccaduto dunque?

 — Se lo domandaste a Mac Neil? — dissi. — Sì, Mac Neil forse saprà...E l'ingegnere, lasciando il salotto, andò ad aprire la porta della

cabina del sergente.Il sergente non c'era.

 — Dov'è Mac Neil? — chiese Banks a Goûmi, che si preparava aservirci a tavola.

 — Ha lasciato l'accampamento, — rispose Goûmi. — Da quando? — Da un'ora circa, e per ordine del colonnello Munro. — Non sapete dove sia andato? — No, signor Banks, e non saprei perché sia partito.

 — Non c'è stato nulla di nuovo durante la nostra assenza? — Nulla.

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Banks ritornò, mi disse dell'assenza del sergente per un motivoche nessuno conosceva, e ripetè:

 — Non so che cosa ci sia, ma qualche cosa c'è di certo!Aspettiamo. Ci mettemmo a tavola. Di solito il colonnello Munro

 prendeva parte alla conversazione durante il pasto. Gli piaceva farsinarrare le nostre escursioni, e si interessava a tutto ciò che avevamofatto durante la giornata. Io avevo cura di non parlargli mai di ciò che poteva ricordargli, anche da lontano, l'insurrezione dei Cipay. Credoche se ne rendesse conto, ma mi era grato del mio riserbo? La cosa,del resto, era abbastanza difficile quando si trattava di città, comeBénares ed Allahabad, che erano state teatro di episodiinsurrezionali.

Oggi, e proprio durante il pranzo, potevo dunque temere d'esserecostretto a parlare di Allahabad. Inutile timore. Il colonnello Munronon interrogò né Banks né me sull'impiego della nostra giornata.Rimase zitto per tutto il tempo del pasto. La sua preoccupazionesembrava anzi crescere a mano a mano. Egli guardava di frequenteverso la strada che porta agli accantonamenti, e credo anzi che piùd'una volta fu sul punto di alzarsi da tavola per veder meglio in

quella direzione. Era evidentemente il ritorno del sergente Mac Neilche sir Edward aspettava con impazienza.Il pranzo fu dunque piuttosto triste. Il capitano Hod interrogava

Banks con lo sguardo, per domandargli che cosa ci fosse. Ma Banksnon ne sapeva più di lui.

Terminato il pranzo, il colonnello Munro, invece di rimanere a farla siesta, secondo la sua abitudine, scese il predellino della veranda,fece alcuni passi sulla strada, vi diede per l'ultima volta un lungo

sguardo, poi, rivolgendosi a noi: — Banks, Hod, e anche voi, Maucler, — disse, — vorreste

accompagnarmi fino alle prime case degli accantonamenti?Lasciammo immediatamente la tavola, seguendo il colonnello,

che camminava lentamente, senza pronunciar parola.Dopo aver fatto un centinaio di passi, sir Edward Munro si arrestò

davanti a un palo eretto sulla destra della strada, e sul quale era

attaccato un manifesto. — Leggete, — disse.

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Era l'affisso, oramai vecchio di due mesi, che metteva una tagliasulla testa del nababbo Nana Sahib e denunciava la sua presenzanella presidenza di Bombay.

Banks e Hod non poterono trattenere un gesto di disappunto. Fino

allora, tanto a Calcutta quanto durante il viaggio, erano riusciti aevitare che quel manifesto cadesse sotto gli occhi del colonnello.Uno spiacevole scherzo del caso faceva andare a vuoto tutte le loro precauzioni.

 — Banks, — disse sir Edward Munro, afferrando la manodell'ingegnere, — tu conoscevi questo manifesto?

Banks non rispose. — Sapevi, due mesi or sono, — soggiunse il colonnello, — che la

 presenza di Nana Sahib era stata segnalata nella presidenza diBombay e non mi hai detto nulla!

Banks rimaneva in silenzio, senza sapere che cosa rispondere. — Ebbene, si, colonnello, — esclamò il capitano Hod, — si, lo

sapevamo, ma perché dirvelo? Chi prova che il fatto annunciato daquesto manifesto sia vero, e a quale scopo richiamare alla vostramente dei ricordi che vi fanno tanto male?

 — Banks, — esclamò il colonnello Munro, il cui volto si era quasitrasformato, — hai dunque dimenticato che è a me, a me più che aogni altro, che spetta di far giustizia di quest'uomo! Sappi questo: seho acconsentito a lasciare Calcutta, è perché questo viaggio dovevaricondurmi verso il nord dell'India, è perché non ho creduto ungiorno solo alla morte di Nana Sahib, è perché non ho maidimenticato i miei doveri di giustiziere! Partendo con voi, non hoavuto che un'idea, una speranza. Ho fatto assegnamento, per

avvicinarmi al mio scopo, sui casi fortuiti del viaggio e sull'aiuto diDio! Ho avuto ragione! Dio mi ha portato davanti a questomanifesto! Non è più a nord che bisogna andare a cercare NanaSahib, è a sud! Sta bene, andrò a sud!

I nostri presentimenti non ci avevano dunque ingannato! Era fintroppo vero! Un pensiero nascosto, o, meglio ancora, un'idea fissa,dominava tuttora, dominava più che mai il colonnello Munro. Egli

ora ce l'aveva manifestata completamente.

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 — Munro, — rispose Banks, — se non ti ho detto nulla, è perchénon credevo alla presenza di Nana Sahib nella presidenza diBombay. Le autorità, non c'è dubbio, sono state ingannate ancora unavolta. Infatti, questo manifesto porta la data del 6 marzo, e da quel

giorno nulla è venuto a confermare la notizia della comparsa delnababbo.

Il colonnello Munro dapprima non rispose a questa osservazionedell'ingegnere. Gettò ancora un ultimo sguardo sulla via. Poi:

 — Amici miei, — disse, — ora saprò come stanno le cose; Mac Neil è andato ad Allahabad con una lettera per il governatore. Fra poco saprò se Nana Sahib è veramente riapparso in una delle province occidentali, se vi è ancora, o se è scomparso.

 — E se è stato veduto, se il fatto è indubitabile, che cosa farai,Munro? — domandò Banks, afferrando la mano del colonnello.

 — Partirò! — rispose sir Edward Munro. — Andrò dappertuttodove è mio dovere andare!

 — È assolutamente deciso, Munro? — Sì, Banks, assolutamente. Voi continuerete il vostro viaggio

senza di me, amici miei... Questa sera stessa prenderò il treno di

Bombay. — Sta bene, ma non andrai solo! — rispose l'ingegnerevolgendosi verso di noi. — Munro, noi ti accompagneremo!

 — Sì, si, colonnello! — esclamò il capitano Hod. — Non vilasceremo partire senza di noi. Invece di andare a caccia di belve,ebbene, andremo a caccia di furfanti!

 — Colonnello Munro, — aggiunsi, — spero che mi permetteretedi unirmi al capitano e ai vostri amici!

 — Sì, Maucler, — rispose Banks, — e questa sera stessalasceremo tutti Allahabad...

 — Inutile! — disse una voce grave.Ci voltammo. Il sergente Mac Neil ci stava davanti con un

giornale in mano. — Leggete, colonnello, — disse. — Ecco ciò che il governatore

mi ha detto di mostrarvi.

E sir Edward Munro lesse quanto segue:

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«Il governatore della presidenza di Bombay porta a conoscenzadel pubblico che il manifesto del 6 marzo scorso, concernente ilnababbo Dandu-Pant, deve essere considerato ormai come privod'oggetto. Ieri, Nana Sahib, assalito nelle gole dei monti Sautpurra,

dove si era rifugiato con i suoi, è stato ucciso nella lotta. Non vi èalcun dubbio possibile sulla sua identità; egli è stato riconosciuto daalcuni abitanti di Cawnpore e di Lucknow. Gli mancava un dito dellamano sinistra, e si sa che Nana Sahib si era amputato un dito nelmomento in cui, mediante false esequie, volle far credere alla suamorte. Il regno d'India non ha dunque più nulla da temere dallemanovre del crudele nababbo che gli è costato tanto sangue».

Il colonnello Munro aveva letto queste righe con voce sorda, poilasciò cadere il giornale.

 Noi restammo in silenzio. La morte di Nana Sahib, questa voltaindiscutibile, ci liberava da ogni timore per l'avvenire.

Il colonnello Munro, dopo alcuni minuti, si passò la mano sugliocchi come per cancellare degli orribili ricordi, poi:

 — Quando dobbiamo lasciare Allahabad? — domandò. — Domani, all'alba — rispose l'ingegnere.

 — Banks, — soggiunse il colonnello Munro, — non possiamofermarci qualche ora a Cawnpore? — Lo vuoi?... — Sì, Banks, vorrei... voglio rivedere ancora una volta... un'ultima

volta Cawnpore! — Vi saremo fra due giorni, — rispose semplicemente

l'ingegnere. — E dopo?... — soggiunse il colonnello Munro.

 — Dopo?... — rispose Banks, — continueremo la nostraspedizione verso il nord dell'India.

 — Sì... a nord! a nord!... — disse il colonnello con una voce chemi commosse fino in fondo al cuore.

Davvero, c'era da credere che sir Edward Munro conservasseancora qualche dubbio sul risultato di quell'ultima lotta fra NanaSahib e gli agenti dell'autorità inglese. Aveva ragione davanti a ciò

che sembrava essere così evidente?L'avvenire ce lo dirà.

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La mattina del 30 maggio avevamo lasciato il nostroaccampamento; Banks, il capitano Hod e io, seguivamo il colonnelloe il sergente Mac Neil lungo quella via dolorosa, di cui sir EdwardMunro aveva voluto rifare una ultima volta le stazioni.

Ecco quanto bisogna sapere, e quanto dirò brevemente, riferendoil racconto che Banks mi aveva fatto.

 — Cawnpore, che aveva una guarnigione di truppe sicurissime almomento dell'annessione del regno di Oudh, all'iniziodell'insurrezione non contava più di duecentocinquanta soldatidell'esercito reale contro tre reggimenti indigeni di fanteria, il 1°, il53° e il 56°, due reggimenti di cavalleria e una batteria d'artiglieriadell'esercito del Bengala. Inoltre vi si trovavano un numeroabbastanza grande di europei, impiegati, funzionari, negozianti, e, per di più, ottocentocinquanta fra donne e bambini del 32°reggimento dell'esercito reale, che era di stanza a Lucknow.

«Da molti anni il colonnello Munro abitava a Cawnpore. Fu là checonobbe la giovane che fece sua sposa.

«Miss Laurence Honlay era una giovane inglese leggiadra,intelligente, di indole elevata, nobile cuore, natura eroica, degna

d'essere amata da un uomo come il colonnello, che l'ammirava el'adorava. Ella abitava con sua madre in un bungalow nei dintornidella città, e fu là, nel 1855, che Edward Munro la sposò.

«Due anni dopo il suo matrimonio, nel 1857, quando scoppiaronoi primi atti della rivolta a Mirat, il colonnello Munro dovetteraggiungere il suo reggimento senza perdere un giorno. Egli fudunque costretto a lasciare sua moglie e sua suocera a Cawnpore,raccomandando loro di fare immediatamente i preparativi di partenza

 per Calcutta. Il colonnello Munro pensava che Cawnpore non fossesicura, ahimè! e i fatti avevano in seguito giustificato i suoi presentimenti.

«La partenza di mistress Honlay e di lady Munro subì dei ritardiche ebbero conseguenze nefaste. Le sventurate donne furonosorprese dagli avvenimenti e non poterono lasciare Cawnpore.

«La divisione era allora comandata dal generale sir Hugh

Wheeler, soldato retto e leale, che doveva essere ben presto vittimadelle astute manovre di Nana Sahib.

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«Il nababbo occupava allora, a dieci miglia da Cawnpore, il suocastello di Bilhur, e da un pezzo fingeva di vivere nei migliorirapporti con gli europei.

«Sapete, caro Maucler, che i primi tentativi dell'insurrezione

vennero fatti a Mirat e a Delhi. La notizia ne giunse il 14 maggio aCawnpore, e in quello stesso giorno il 1° reggimento dei Cipaymanifestava intenzioni ostili.

«Fu allora che Nana Sahib offrì al governo i suoi buoni uffici. Ilgenerale Wheeler fu tanto ingenuo da credere alla buona fede di quelfurfante, le cui truppe personali vennero subito a occupare gli edificidella Tesoreria.

«Lo stesso giorno, un reggimento irregolare di Cipay, di passaggio a Cawnpore, trucidava i suoi ufficiali europei addiritturaalle porte della città.

«Il pericolo apparve allora qual era, immenso. Il generale Wheelerordinò a tutti gli europei di rifugiarsi nella caserma in cui abitavanole donne e i bambini del 32° reggimento di Lucknow, caserma situatanel punto più vicino alla strada di Allahabad, la sola per la quale isoccorsi avrebbero potuto arrivare.

«È là che lady Munro e sua madre dovettero chiudersi. Per tutta ladurata di quella prigionia, la giovane donna mostrò una dedizioneillimitata per i suoi compagni di sventura. Li curò con le propriemani, li aiutò con il proprio denaro, li incoraggiò con il proprioesempio e con le proprie parole, si mostrò quella che era, un grancuore, e, come vi ho detto, una donna eroica.

«Frattanto non si tardò ad affidare l'arsenale alla custodia deisoldati di Nana Sahib.

«Il traditore inalberò allora la bandiera dell'insurrezione, e, dietrosua pressante richiesta, il 7 giugno i Cipay assalirono la caserma, chenon aveva trecento soldati validi per difenderla.

«Tuttavia quei coraggiosi si difesero, sotto il fuoco degliassedianti, sotto la pioggia dei loro proiettili, fra malattie d'ognigenere, morenti di fame e di sete, senza viveri, perché le provvisteerano insufficienti, senz'acqua, poiché i pozzi in breve si

 prosciugarono.«Quella resistenza durò fino al 27 giugno.

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«Nana Sahib propose allora una capitolazione, alla quale ilgenerale Wheeler commise l'imperdonabile colpa di sottoscrivere, benché lady Munro lo scongiurasse di continuare la lotta.

«In seguito a tale capitolazione, uomini, donne e fanciulli,

cinquecento persone circa (lady Munro e sua madre ne facevano parte) furono imbarcate su alcune barche che dovevano ridiscendereil Gange e ricondurle ad Allahabad.

«Le barche si sono appena staccate dalla riva, che il fuoco vieneaperto dai Cipay. Una vera grandine di proiettili e di mitraglia!Alcune affondarono, altre furono incendiate. Una, però, riuscì aridiscendere il fiume per qualche miglio.

«Lady Munro e sua madre erano su quella barca. Esse poteronocredere per un istante di essere salve. Ma i soldati del Nana leinseguirono, le ripresero e le ricondussero negli accantonamenti.

«Là, venne fatta una scelta fra i prigionieri. Tutti gli uominifurono immediatamente passati per le armi. Quanto alle donne e ai bambini, furono uniti agli altri bambini e alle altre donne, che nonerano stati trucidati il 27 giugno.

«In tutto erano duecento vittime, alle quali era riservata una lunga

agonia, e che furono chiuse in un bungalow, il cui nome, Bibi-Ghar,è rimasto tristamente celebre.» — Ma come avete saputo questi orribili particolari? — domandai

a Banks. — Tramite un vecchio sergente del 32° reggimento dell'esercito

reale, — mi rispose l'ingegnere. — Quest'uomo, sfuggito permiracolo, fu accolto dal rajah di Raischwarah, una delle province delregno di Oudh, il quale lo ricevette insieme con alcuni altri fuggitivi,

con la più grande umanità. — E di lady Munro e di sua madre, che avvenne? — Caro amico, — mi rispose Banks — non abbiamo più la

testimonianza diretta di quanto avvenne da quel momento, ma è fintroppo facile congetturarlo. Infatti, i Cipay erano i padroni diCawnpore. Lo furono fino al 15 luglio, e durante quei diciannovegiorni, diciannove secoli!, le misere vittime aspettarono di ora in ora

un soccorso che doveva giungere troppo tardi.

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«Già da qualche tempo il generale Havelock, partito da Calcutta,avanzava in aiuto di Cawnpore, e, dopo aver battuto i ribelli moltevolte, vi entrava il 17 luglio.

«Ma, due giorni prima, quando Nana Sahib seppe che le truppe

reali avevano passato il fiume Pandu-Naddi, decise di renderememorabili con eccidi spaventosi le ultime ore della suaoccupazione. Tutto gli sembrava permesso nei confronti degliinvasori dell'India!

«Alcuni prigionieri, che avevano condiviso la cattività delle prigioniere del Bibi-Ghar, gli furono condotti davanti e sgozzati sottoi suoi occhi.

«Rimaneva la massa di donne e fanciulli, e, in quella massa, ladyMunro e sua madre. Un plotone del 6" reggimento di Cipay ricevettel'ordine di fucilare tutti attraverso le finestre del Bibi-Ghar.L'esecuzione cominciò, ma siccome non procedeva con la rapiditàche il Nana, costretto a battere in ritirata, avrebbe voluto, questo principe sanguinario aggiunse dei macellai musulmani ai soldatidella sua guardia... Fu la carneficina di un macello!

«Il giorno dopo, morti o vivi, bambini e donne venivano

 precipitati in un pozzo vicino, e quando giunsero i soldati diHavelock quel pozzo, colmo di cadaveri fino all'orlo, fumava ancora!«Allora incominciarono le rappresaglie. Un certo numero di

ribelli, complici di Nana Sahib, erano caduti nelle mani del generaleHavelock. Questi emise il seguente terribile ordine del giorno, di cuinon dimenticherò mai i termini:

«"Il pozzo nel quale riposano le spoglie mortali delle poveredonne e dei fanciulli trucidati per ordine del miscredente Nana Sahib

verrà colmato e coperto con cura in forma di tomba. Undistaccamento di soldati europei, comandato da un ufficiale,adempirà stasera a questo pietoso dovere. La casa e le camere in cuil'eccidio ha avuto luogo non verranno pulite o imbiancate daicompatrioti delle vittime. Il generale ordina che ogni goccia delsangue innocente venga pulita o leccata con la lingua dai condannati prima dell'esecuzione, proporzionalmente al loro grado di casta e alla

 parte che hanno avuto nell'eccidio. Di conseguenza, dopo averascoltato la lettura della sentenza di morte, ogni condannato verrà

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condotto nella casa del massacro e costretto a pulire una data partedel pavimento. Si avrà cura di rendere tale operazione il piùrivoltante possibile per i sentimenti religiosi del condannato, e ilmaresciallo preposto non risparmierà lo staffile, se sarà necessario.

Terminata l'operazione, la sentenza verrà eseguita alla forca eretta presso la casa".

«Questo fu», soggiunse commosso Banks, «l'ordine del giorno.Esso fu eseguito in tutte le sue prescrizioni. Ma le vittime non erano più. Erano state trucidate, mutilate, lacerate! Quando il colonnelloMunro, giunto due giorni dopo, volle tentare di riconoscere qualcheavanzo di lady Munro e di sua madre, non trovò nulla... nulla!».

Ecco quanto mi aveva raccontato Banks, prima del nostro arrivo aCawnpore, ed era verso il luogo di quello spaventoso eccidio che sidirigeva il colonnello.

Ma, prima, egli volle rivedere il bungalow dove aveva abitato ladyMunro, dove ella aveva passato la giovinezza, quell'abitazione in cuiegli l'aveva vista per l'ultima volta, quella soglia sulla quale egliaveva ricevuto i suoi ultimi baci.

Quel bungalow era costruito un po' fuori dei sobborghi della città,

non lontano dalla linea degli accantonamenti militari. Alcuni ruderi,dei pezzi di muro ancora anneriti, qualche albero abbattuto e secco,ecco tutto quello che rimaneva dell'abitazione. Il colonnello nonaveva permesso che nulla venisse riparato. Il bungalow era, dopo seianni, così come lo aveva ridotto la mano degli incendiari.

Passammo un'ora in quel luogo desolato. Sir Edward Munrocamminava silenziosamente attraverso quelle rovine, da cuiuscivano, per lui, tanti ricordi. Il suo pensiero rievocava tutta

quell'esistenza di felicità che nulla ormai poteva rendergli. Eglirivedeva la giovane, felice, in quella casa nella quale era nata, doveegli l'aveva conosciuta, e, talvolta, chiudeva gli occhi come perrivederla meglio!

Ma alla fine, bruscamente, come se avesse dovuto fare violenza ase stesso, ritornò indietro e ci trascinò fuori.

Banks aveva sperato che il colonnello si limitasse a visitare il

 bungalow... Ma no! Sir Edward Munro aveva deciso di esaurire finoall'ultimo le amarezze che gli serbava quella funesta città! Dopo

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l'abitazione di lady Munro, volle rivedere la caserma in cui tantevittime, alle quali l'energica donna si era così eroicamente dedicata,avevano subito tutti gli orrori d'un assedio.

La caserma era posta nella pianura, fuori della città, e sulla sua

area, là dove la popolazione di Cawnpore aveva dovuto cercarrifugio, si costruiva allora una chiesa. Per arrivarvi, seguimmo unavia asfaltata, ombreggiata da begli alberi.

È là che si era compiuto il primo atto dell'orribile tragedia. Làavevano vissuto, sofferto, agonizzato, lady Munro e sua madre, finoal momento in cui la capitolazione mise nelle mani di Nana Sahibquella torma di vittime, già destinate a uno spaventoso massacro, eche il traditore aveva promesso di far condurre sane e salve adAllahabad.

Intorno alla costruzione non ancora ultimata, si distinguevanodegli avanzi di muri di mattoni, ruderi di quelle opere di difesa cheerano state erette dal generale Wheeler.17

Il colonnello Munro rimase a lungo immobile e silenzioso davantia quei ruderi. Alla sua memoria si presentavano più vivamente leorribili scene di cui essi erano stati teatro. Dopo il bungalow in cui

lady Munro aveva vissuto felice, la caserma nella quale ella avevasofferto più di quanto è possibile immaginare!Rimaneva da visitare il Bibi-Ghar, l'abitazione di cui il Nana fece

una prigione, dove si apriva il pozzo in fondo al quale le vittimeerano state confuse nella morte.

Quando Banks vide il colonnello dirigersi da quella parte, gli prese il braccio come per trattenerlo.

Sir Edward Munro lo guardò bene in faccia, e con voce

orribilmente pacata: — Andiamo! — disse.

17  Da quel tempo, la chiesa commemorativa è stata terminata. Sulle lapidi dimarmo, alcune iscrizioni ricordano i tecnici della ferrovia East Indian chemorirono di malattia o per ferite durante la grande insurrezione del 1857, gliufficiali, sergenti e soldati del 34° reggimento dell'esercito reale uccisi nelcombattimento del 17 novembre davanti a Cawnpore, il capitano Stuart Beatson,

gli ufficiali, gli uomini e le donne del 32° reggimento, morti durante gli assedi diLucknow e di Cawnpore o durante l'insurrezione, infine i martiri del Bibi-Ghar,trucidati nel luglio 1857. (N.d.A) 

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 — Munro, te ne prego!... — Allora andrò solo. Non c'era da resistere.Ci siamo allora diretti verso il Bibi-Ghar, davanti al quale vi sono

dei giardini ben disegnati e pieni d'alberi bellissimi.

Là si erge un porticato di stile gotico, di forma ottagonale. Essocirconda il luogo nel quale si apriva il pozzo e la cui bocca è orachiusa da un rivestimento di pietre. Forma una specie di base su cui è posta una statua di marmo bianco, l'Angelo della Pietà, una delleultime opere dovute allo scalpello dello scultore Marocchetti.

Fu lord Canning, governatore generale dell'India durante laterribile insurrezione del 1857, che fece erigere quel monumentoespiatorio, costruito su disegno del colonnello del genio Yule, e chevolle addirittura pagarlo di tasca propria.

Davanti a quel pozzo in cui le due donne, madre e figlia, dopoessere state colpite dai macellai di Nana Sahib, erano state precipitate, forse ancora vive, sir Edward Munro non poté trattenerele lacrime. Egli cadde in ginocchio sulla pietra del monumento.

Il sergente Mac Neil, accanto a lui, piangeva in silenzio.Avevamo tutti il cuore spezzato, non trovando nulla da dire per

 placare quel dolore inconsolabile, sperando che sir Edward Munroesaurisse là le ultime lacrime dei suoi occhi!Ah! se egli fosse stato uno di quei primi soldati dell'esercito reale

che entrarono a Cawnpore, che penetrarono in quel Bibi-Ghar dopolo spaventoso massacro, sarebbe morto di dolore!

Infatti, ecco quanto riferisce uno degli ufficiali inglesi, -narrazione che venne raccolta dal signor Rousselet:

«Appena entrati in Cawnpore, corremmo in cerca delle povere

donne che sapevamo essere nelle mani dell'odioso Nana, ma prestovenimmo a sapere di quella orribile esecuzione. Torturati da unaterribile sete di vendetta e coscienti delle spaventose sofferenze cheavevano dovuto sopportare le infelici vittime, sentivamo risvegliarsiin noi idee strane e selvagge. Furenti e quasi pazzi, corremmo versoil triste luogo del martirio. Il sangue coagulato, frammisto ad avanzisenza nome, copriva il suolo della piccola stanza in cui esse erano

state chiuse e ci arrivava alle caviglie. Lunghe trecce di capellilunghi e morbidi, lembi di vesti, scarpine di bambini, balocchi

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ingombravano il suolo bagnato. I muri, imbrattati di sangue, portavano le tracce dell'orribile agonia. Raccolsi un libriccino di preghiere, sulla prima pagina del quale c'erano queste commoventiscritte: "27 giugno, lasciato le barche... 7 luglio, prigionieri del

 Nana... fatale giornata". Ma non erano questi i soli orrori che ciattendevano. Molto più orribile ancora era la vista del pozzo profondo e stretto in cui erano ammucchiati i resti mutilati di quelletenere creature!...»

Sir Edward Munro non era là nelle prime ore in cui i soldati diHavelock si impadronivano della città! Egli giunse solamente duegiorni dopo l'odioso eccidio! Ed ora, non aveva davanti agli occhialtro che l'area su cui si apriva il funesto pozzo, tomba senza nomedelle duecento vittime di Nana Sahib.

Questa volta, Banks, aiutato dal sergente, riuscì a trascinarlo viacon la forza.

Il colonnello Munro non doveva dimenticare mai queste due parole che uno dei soldati di Havelock aveva inciso con la baionettasulla vera del pozzo:

« Remember Cawnpore!Ricordati di Cawnpore!».

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C  APITOLO XI

 IL CAMBIAMENTO  DI   MONSONE

ALLE UNDICI eravamo di ritorno all'accampamento, e tuttiavevamo, lo si può ben comprendere, gran fretta di lasciareCawnpore; ma alcune riparazioni che si dovevano fare alla pompa

d'alimentazione della macchina non ci permettevano di partire primadella mattina seguente.Mi rimaneva dunque una mezza giornata. Credetti di non poterla

impiegare meglio che visitando Lucknow. Banks non intendeva passare da questa città, nella quale il colonnello Munro si sarebbetrovato su uno dei principali teatri della guerra. Aveva ragione!Anche là vi erano ricordi troppo penosi per lui.

A mezzogiorno, dunque, dopo aver lasciata la Steam-House, presi

la piccola ferrovia secondaria che congiunge Cawnpore a Lucknow.La distanza non supera una ventina di leghe, e in due ore giunsi inquesta importante capitale del regno di Oudh, alla quale non volevofare che una visita, tanto per averne un'idea.

Riconobbi, del resto, la verità di quanto avevo sentito dire a proposito dei monumenti di Lucknow, costruiti sotto il regno degliimperatori musulmani nel secolo XVII.

Fu un francese di Lione, un certo Martin, semplice soldatodell'esercito di Lally-Tollendal, che, nel 1730, divenuto il favoritodel re, fu il creatore, l'ordinatore, si potrebbe dire l'architetto delle pretese meraviglie della capitale di Oudh. La residenza ufficiale deisovrani, il Kaiserbâgh, eterogeneo miscuglio di tutti gli stili che potevano uscire dalla fantasia di un caporale, è solamente un'opera diapparenza. Niente all'interno, tutto all'esterno, ma questo esterno ècontemporaneamente indù, cinese, moresco e... europeo. Lo stesso si

 può dire di un altro palazzo più piccolo, il Farid Bàkch, che è pureopera del Martin. Quanto all'Imàmbara, costruito nel mezzo della

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fortezza da Kaifiàtulla, che fu il primo architetto delle Indie nelsecolo XVII, è effettivamente superbo, e produce un effettograndioso con i mille piccoli campanili che adornano le sue cortine.

 Non potevo lasciare Lucknow senza visitare il palazzo Costantino,

che è anch'esso opera personale del caporale francese, e porta ilnome di palazzo de la Martinière. Volli vedere anche il giardinovicino, il Sikander Bagh, dove furono trucidati a centinaia i Cipayche avevano violato la tomba dell'umile soldato prima diabbandonare la città.

È il caso di aggiungere che il nome di Martin non è il solo nomefrancese che venga onorato a Lucknow. Un ex sottufficiale deicacciatori d'Africa, di nome Duprat, si distinse talmente per il suocoraggio durante l'insurrezione, che i ribelli gli offrirono di farlo lorocapo. Duprat rifiutò nobilmente, nonostante le ricchezze che glifurono promesse, nonostante le minacce che gli vennero fatte.Rimase fedele agli inglesi. Ma preso di mira in modo particolare daicolpi dei Cipay che non avevano potuto fare di lui un traditore, eglifu ucciso in uno scontro. — Cane infedele, — avevano detto i ribelli, — ti avremo tuo malgrado! — Lo ebbero, ma morto.

I nomi di questi due soldati francesi erano dunque stati uniti nellemedesime rappresaglie. I Cipay, che avevano violato la tombadell'uno e scavato quella dell'altro, furono trucidati senza pietà.

Finalmente, dopo aver ammirato i bellissimi parchi che fanno unaspecie di cintura di verde e di fiori a questa grande città dicinquecentomila abitanti, dopo aver percorso a dorso d'elefante le suevie principali e il suo magnifico boulevard dell'Hazrat Gaudj, ripresiil treno e ritornai la sera stessa a Cawnpore.

Il giorno dopo, 31 maggio, eravamo in cammino fino dall'alba. — Finalmente, — esclamò il capitano Hod, — l'abbiamo finita

dunque con le Allahabad, le Cawnpore e le Lucknow e altre città, dicui a me non importa un fico!

 — Sì, è finita, Hod, — rispose Banks, — e ora ci dirigeremodirettamente verso nord, in modo da raggiungere quasi in linea rettala base dell'Himalaya.

 — Bravo! — replicò il capitano. — Quello che io chiamo l'India per eccellenza, non sono le province irte di città o popolate di indù, è

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Fox salutò militarmente, fece dietro-front, e andò a chiudersi nelsuo arsenale.

Ecco ora l'itinerario di questa seconda parte del nostro viaggio,itinerario che non deve essere modificato, a meno che non si

verifichino avvenimenti impossibili a prevedersi.Per settantacinque chilometri circa, questo itinerario risale il corso

del Gange dirigendosi verso nord-ovest; ma, a partire da questo punto, si raddrizza, corre diritto verso nord tra un affluente del granfiume e un altro affluente importante del Goùtmi. Evita così un certonumero di corsi di acqua, che si disperdono a destra e a sinistra, e, passando da Biswah, si alza obliquamente fino alle primeondulazioni dei rilievi del Nepal, attraverso la parte occidentale delregno di Oudh e del Rohilkhand.

Questo percorso era stato scelto saggiamente dall'ingegnere, inmodo da evitare ogni difficoltà. Se diventava più difficile trovare ilcarbone nel nord dell'Indostan, la legna non doveva mai mancare. Ilnostro Gigante d'Acciaio avrebbe potuto circolare facilmente, aqualsiasi andatura, per quelle strade così ben tenute, attraverso le più belle foreste della penisola indiana.

Ottanta chilometri circa ci separavano dalla cittadina di Biswah.Si stabilì che li avremmo superati a velocità molto moderata, in seigiorni. Questo avrebbe permesso di fermarsi quando la località cifosse piaciuta, e i cacciatori della spedizione avrebbero avuto iltempo di compiere le loro prodezze. Del resto, il capitano Hod e ilsuo attendente Fox, a cui si univa volentieri Goûmi, avrebbero potutofacilmente andare in perlustrazione, mentre il Gigante d'Acciaioavrebbe proceduto a piccoli passi. A me poi non era proibito di

accompagnarli nelle loro battute, benché fossi un cacciatore pocoesperto, e qualche volta andai con loro.

Devo dire che dal momento in cui il nostro viaggio entrò nellanuova fase, il colonnello Munro si tenne un po' meno in disparte. Misembrò che fuori delle città, in mezzo alle foreste e alle pianure,lontano dalla valle del Gange che avevamo percorso, egli diventasse più socievole. Pareva che in queste condizioni ritrovasse la vita

calma che conduceva a Calcutta. Eppure poteva dimenticare che lasua casa ambulante si dirigeva verso quel nord dell'India dove lo

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attirava una fatalità irresistibile? In ogni caso, la sua conversazioneera più animata durante i pasti, durante la siesta, e spesso anche nelleore di sosta, si prolungava molto in quelle belle notti che la stagionecalda ci dava ancora. Mac Neil, invece, dopo la visita al pozzo di

Cawnpore, mi sembrava più cupo del solito. La vista del Bibi-Gharaveva forse ravvivato in lui un odio che sperava ancora di saziare?

 — Nana Sahib, — mi disse un giorno, — no, signore, no! non è possibile che lo abbiano ucciso!

La prima giornata passò senza incidenti che valgano la penad'essere narrati. Né il capitano Hod né Fox ebbero occasione di prendere di mira il minimo animale. Era desolante, e anchestraordinario al punto che ci si poteva chiedere se fosse l'apparizionedel Gigante d'Acciaio a tenere lontane le terribili belve di quelle pianure. Infatti, si costeggiarono alcune jungle, rifugio abituale delletigri e di altri carnivori della razza felina. Non se ne mostrò uno solo.Eppure i due cacciatori si erano scostati di un miglio o due ai lati delnostro treno. Dovettero dunque rassegnarsi a condurre con loro Blacke Phann, per cacciare la piccola selvaggina, di cui il signor Parazardreclamava la sua fornitura quotidiana. A questo proposito, il nostro

cuoco negro non voleva sentir ragioni, e quando l'attendente gli parlava di tigri, di leopardi o di altre belve poco commestibili, alzavasdegnosamente le spalle dicendo:

 — Come se fosse roba che si mangia!Quella sera ci accampammo al riparo di un gruppo di enormi

 baniani. E anche la notte fu tranquilla quanto era stato calmo ilgiorno. Il silenzio non fu turbato nemmeno dagli urli delle belve. Ilnostro elefante intanto riposava. Non si udivano più i suoi barriti. I

fuochi dell'accampamento erano spenti e, per soddisfare il capitano,Banks non aveva nemmeno inserito la corrente elettrica chetrasformava gli occhi del Gigante d'Acciaio in due potenti fanali. Manulla!

Lo stesso accadde durante le giornate dell'1 e del 2 giugno. Erauna cosa disperante.

 — Mi hanno cambiato il mio regno di Oudh! — ripeteva il

capitano Hod. — Lo hanno trasportato in piena Europa! Qui non cisono più tigri di quante ce ne siano nelle basse terre della Scozia!

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 — È possibile, caro Hod, — rispose il colonnello Munro, — chesiano state fatte di recente delle battute su questi territori, e che glianimali abbiano emigrato in massa. Ma non disperate, e aspettate chesiamo giunti ai piedi delle montagne del Nepal. Là avrete di che

esercitare utilmente i vostri istinti di cacciatore. — Bisogna sperarlo, colonnello, — rispose, Hod, crollando il

capo — altrimenti non ci rimarrebbe che rifondere le nostre pallottole per farne pallini!

La giornata del 3 giugno fu una delle più calde che avessimosopportate. Se la strada non fosse stata ombreggiata da grandi alberi,credo che saremmo letteralmente cotti nella nostra casa ambulante. Iltermometro sali a 47° all'ombra, e non c'era un alito di vento. Eradunque possibile che, con una temperatura simile, in quell'atmosferadi fuoco, i carnivori non pensassero minimamente a lasciare le lorotane, nemmeno durante la notte.

Il giorno dopo, 4 giugno, all'alba, l'orizzonte, per la prima volta, simostrò piuttosto velato di nebbia verso ovest. Avemmo allora ilmagnifico spettacolo di uno di quei fenomeni di miraggio che, incerte parti dell'India, si chiamano seekote o castelli aerei, e in altre

dessasur o illusioni. Non era già l'apparenza di una massa d'acqua con i suoi curiosieffetti di rifrazione che si stendeva davanti ai nostri sguardi, era tuttauna catena di colline poco elevate, cariche dei più fantastici castellidel mondo, qualcosa come le alture d'una vallata del Reno, con leloro antiche dimore di burgravi. Ci trovavamo in un istantetrasportati, non solo nella parte romanza della vecchia Europa, macinque o seicento anni indietro, in pieno Medioevo.

Questo fenomeno, la cui nitidezza era sorprendente, ci daval'impressione di una assoluta realtà. Perciò il Gigante d'Acciaio che,con tutti i suoi congegni dovuti alla meccanica moderna, camminavaverso una città dell'XI secolo mi sembrava molto più spaesato diquando percorreva, tutto impennacchiato di fumo, il paese di Vishnue di Brahma.

 — Grazie, signora natura! — esclamò il capitano Hod. — Dopo

tanti minareti e tante cupole, dopo tante moschee e pagode, ecco

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qualche vecchia città del tempo feudale, con le meraviglie romanicheo gotiche che mi mette sotto gli occhi!

 — Come è poeta, stamattina, il nostro amico Hod! — risposeBanks. — Prima di far colazione ha forse inghiottito qualche ballata?

 — Ridete, Banks, scherzate, prendetemi in giro! — ribatté ilcapitano Hod, — ma guardate! Ecco che gli oggetti si ingrandiscononei primi piani! Ecco che gli arbusti diventano alberi, le collinediventano montagne, i...

 — I gatti diventerebbero tigri, se ci fossero dei gatti, vero, Hod? — Ah! Banks, non sarebbero da disprezzare!... Bene! — esclamò

il capitano — ecco i miei castelli del Reno che si sfasciano, la cittàche crolla, e noi ricadiamo nel reale, un semplice paesaggio del regnodi Oudh, che nemmeno le belve vogliono più abitare!

Il sole, alzandosi sull'orizzonte orientale, aveva trasformato in unistante gli scherzi della rifrazione. I castelli, da veri castelli di carte,crollavano insieme con la collina, che si trasformava in pianura.

 — Ebbene, dato che il miraggio è scomparso, — disse Banks — eche con esso si è dissipata tutta la vena poetica del capitano Hod,volete sapere, amici miei, che cosa fa presagire questo fenomeno?

 — Dite, ingegnere! — esclamò il capitano. — Un mutamento di tempo molto vicino, — rispose Banks. —Del resto, siamo ai primi giorni di giugno, che provocanomodificazioni climatiche. Il cambiamento del monsone porterà lastagione delle piogge periodiche.

 — Caro Banks, — feci io, — siamo ben protetti, non è vero?Ebbene, che venga la pioggia! Fosse anche il diluvio, mi sembra preferibile a questi calori...

 — Sarete soddisfatto, caro amico, — rispose Banks. — Credo chela pioggia non sia lontana, e che fra poco vedremo salire le primenubi da sud-ovest.

Banks non s'ingannava. Verso sera, l'orizzonte occidentalecominciò a coprirsi di vapori, il che indicava che il monsone, comeaccade spesso, avrebbe cominciato a soffiare durante la notte. Eral'oceano Indiano che ci mandava, attraverso la penisola, i suoi vapori

saturi di elettricità, come tanti grossi otri del dio Eolo, checontenevano l'uragano e la tempesta.

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Anche alcuni altri fenomeni, sui quali un anglo-indiano nonavrebbe potuto ingannarsi, si erano manifestati durante quellagiornata. Volute di polvere sottilissima avevano turbinato sulla stradadurante la marcia del treno. Il movimento delle ruote, delle ruote

della macchina e di quelle dei due vagoni, poco rapido del resto,avrebbe certamente potuto sollevare della polvere, ma non con tantaintensità. La si sarebbe detta una nuvola di quei pulviscoli che fadanzare una macchina elettrica messa in azione. Il suolo potevadunque venire paragonato a un immenso condensatore, nel qualel'elettricità si fosse raccolta da molti giorni. Inoltre, quella polvere prendeva dei riflessi giallognoli, di effetto stranissimo, e in ognimolecola brillava un piccolo centro luminoso. C'erano stati deimomenti in cui tutto il nostro treno sembrava camminare in mezzoalle fiamme, fiamme senza calore, ma che, né per il colore né per lavivacità, ricordavano quelle dei fuochi di Sant'Elmo.

Storr ci raccontò che aveva visto alcune volte dei treni correrecosì sulle loro rotaie fra una doppia siepe di polvere luminosa, eBanks confermò le parole del meccanico. Per un quarto d'ora avevo potuto osservare con molta esattezza questo bizzarro fenomeno

attraverso gli oblò della torretta, da dove dominavo la strada per untratto di cinque o sei chilometri. La via, senza alberi, era polverosa,riscaldata a bianco dai raggi a perpendicolo del sole. In quelmomento mi parve che il calore dell'atmosfera superasse addiritturaquello del forno della macchina. Era veramente insostenibile, equando venni a respirare un'aria più fresca sotto le ali sventolantidella punka, ero semisoffocato.

La sera, verso le sette, la Steam-House si fermò. La località della

sosta scelta da Banks fu il confine d'una foresta di magnifici baniani,che sembrava estendersi all'infinito verso nord. Una stradaabbastanza bella la attraversava, e ci riprometteva per il giornosuccessivo un tragitto più facile sotto le ampie e alte cupole diverzura.

I baniani, giganti della flora indù, sono veri avi, potremmo diredei capifamiglia vegetali, circondati dai loro figli e dai loro nipotini.

Questi, slanciandosi da una radice comune, salgono dritti intorno altronco principale, da cui sono interamente staccati, e vanno a

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 perdersi fra gli altri rami paterni. Danno veramente la impressione diessere covati sotto quel fitto fogliame, come i pulcini sotto le ali dellamadre. Da ciò, il curioso aspetto che presentano queste foreste piùvolte secolari. I vecchi alberi assomigliano a pilastri isolati, che

sostengono l'immensa volta, le cui sottili nervature si appoggiano sudei giovani baniani, che diventeranno pilastri a loro volta.

Quella sera, l'accampamento fu allestito più accuratamente delsolito. Infatti, se la giornata seguente doveva essere calda quanto loera stata la precedente, Banks si proponeva di prolungare la sosta arischio di viaggiare durante la notte.

Il colonnello Munro non chiedeva di meglio che di passare alcuneore in quella bella foresta così ombrosa e calma. Tutti erano stati delsuo parere, gli uni perché avevano veramente bisogno di riposo, glialtri perché volevano cercare d'incontrare finalmente qualcheanimale, degno della fucilata di un Anderson o di un Gerard. Si puòimmaginare chi fossero questi ultimi.

 — Fox, Goûmi, sono solo le sette! — gridò il capitano Hod. —Facciamo un giro nella foresta prima che scenda la notte! Ciaccompagnerete, Maucler?

 — Caro Hod, — disse Banks, prima che io potessi rispondere, —fareste meglio a non allontanarvi dall'accampamento. Le minacce delcielo sono serie. Se si scatena l'uragano, forse stenterete araggiungerci. Domani, se ci fermeremo in questa località, andrete...

 — Domani sarà chiaro, — rispose il capitano Hod, — è adessol'ora propizia per tentare l'avventura!

 — Lo so, Hod, ma la notte che si prepara non è davverorassicurante. In ogni caso, se volete assolutamente partire, non

allontanatevi. Fra un'ora sarà già molto buio, e potreste trovarviseriamente imbarazzati per ritrovare l'accampamento.

 — State tranquillo, Banks. Sono appena le sette, e domando alcolonnello solo un permesso fino alle dieci.

 — Andate dunque, caro Hod — rispose sir Edward Munro, — matenete conto delle raccomandazioni di Banks.

 — Sì, colonnello.

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Il capitano Hod, Fox e Goûmi, armati di ottime carabine dacaccia, lasciarono l'accampamento, e scomparvero sotto gli alti baniani che fiancheggiavano il lato destro della strada.

Il caldo mi aveva stancato tanto, durante quella giornata, che

 preferii rimanere nella Steam-House.Tuttavia, per ordine di Banks, i fuochi, invece di venir spenti del

tutto, furono soltanto spinti in fondo al forno, in modo da conservareun'atmosfera o due di pressione nella caldaia. L'ingegnere volevaessere, in ogni caso, pronto a tutto.

Storr e Kâlouth si occuparono allora di rinnovare il combustibile el'acqua. Un ruscelletto, che scorreva sul lato sinistro della strada,fornì loro l'acqua necessaria e gli alberi vicini la legna di cuiavevamo bisogno per caricare il tender. Frattanto, il signor Parazardsi dedicava alle proprie occupazioni abituali, e mentre sparecchiavagli avanzi del pranzo del giorno, meditava il menu del pranzo delgiorno dopo.

Era ancora abbastanza chiaro. Il colonnello Munro, Banks, ilsergente Mac Neil e io andammo a fare la siesta sulla riva delruscello. La corrente di quell'acqua limpida rinfrescava l'atmosfera,

che era veramente soffocante, anche a quell'ora. Il sole non eraancora tramontato. La sua luce, per opposizione, tingeva d'un colored'inchiostro azzurro la massa dei vapori, che si vedevano accumularsia poco a poco allo zenit, attraverso le grandi lacerature del fogliame.Erano nuvole pesanti, spesse, condensate, che nessun vento sembravaspingere, e che sembravano avere in loro stesse il proprio motore.

Le nostre chiacchiere durarono fino alle otto circa. Ogni tanto,Banks si alzava e andava a esaminare un tratto più ampio di

orizzonte, avanzando fino al limitare della foresta che tagliava bruscamente la pianura, a meno di un quarto di migliodall'accampamento. Quando ritornava, scuoteva il capo con aria pocorassicurata.

L'ultima volta lo avevamo accompagnato. Cominciava già a farsi buio sotto la volta dei baniani. Giunti al limitare della foresta, vidiche verso ovest si stendeva un'immensa pianura fino a una serie di

collinette vagamente profilate, che si confondevano già con lenuvole.

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L'aspetto del cielo era allora terribile nella sua calma. Non un alitodi vento agitava le alte foglie degli alberi. Non era il riposo dellanatura addormentata che i poeti hanno cantato tanto spesso; era, alcontrario, un sonno pesante e morboso. Sembrava che ci fosse una

specie di tensione contenuta dell'atmosfera. Non posso paragonaremeglio lo spazio che alla camera del vapore di una caldaia quando ilfluido troppo compresso è pronto a esplodere.

Lo scoppio era imminente.Le nuvole burrascose, infatti, erano molto alte, come avviene di

solito sopra le pianure, e presentavano larghi contorni curvilinei,disegnati assai nitidamente. Sembravano persino gonfiarsi, diminuiredi numero e aumentare di grandezza, pur rimanendo attaccate allastessa base. Evidentemente si sarebbero presto fuse tutte in unamassa sola, che avrebbe aumentato la densità della nuvola unica. Giàquelle piccole secondarie, subendo una specie d'influenza attrattiva,urtate, respinte, schiacciate le une contro le altre, si perdevanoconfusamente nell'insieme.

Verso le otto e mezzo, un lampo a zig-zag, ad angoli acutissimi,squarciò tutta quella massa cupa per una lunghezza di

duemilacinquecento-tremila metri.Sessantacinque secondi dopo, un tuono scoppiava e prolungava isuoi sordi brontolii, propri di questo genere di lampi, che duraronocirca quindici secondi.

 — Ventun chilometri. — disse Banks dopo aver consultato il suoorologio. — È quasi la distanza massima a cui il tuono può farsiudire. Ma l'uragano, una volta scatenato, verrà presto, e non bisognaaspettarlo. Rientriamo in casa, amici miei.

 — E il capitano Hod? — disse il sergente Mac Neil. — Il tuono gli darà l'ordine di ritornare, — rispose Banks. —

Spero che obbedirà.Cinque minuti dopo, eravamo di ritorno all'accampamento, e ci

sistemavamo sotto la veranda del salotto.

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C  APITOLO XII

TRIPLICI  FUOCHI

L'I NDIA divide con alcuni territori del Brasile — quello di Rio deJaneiro per esempio - il privilegio di essere il più sconvolto dagliuragani, fra tutti i paesi del globo. Se in Francia, in Inghilterra, in

Germania, nella parte media dell'Europa, non si valuta a più di venti per anno il numero dei giorni in cui si fanno sentire gli scoppi diuragano, nella penisola indiana tale numero sale annualmente a oltrecinquanta.

Questo per la meteorologia generale. Nel caso specifico, tenendoconto delle circostanze nelle quali esso si produceva, dovevamoaspettarci un uragano di violenza estrema.

Come fummo rientrati nella Steam-House, consultai il barometro.

La colonna di mercurio subì improvvisamente un abbassamento didue pollici, da 29 a 27 pollici.18

Lo feci notare al colonnello Munro. — Sono preoccupato per l'assenza del capitano Hod e dei suoi

compagni — mi rispose. — L'uragano è imminente, la notte siavvicina, il buio aumenta. I cacciatori si allontanano sempre più diquanto promettono e più anche di quanto vorrebbero. Come potrannoritrovare la strada in questa profonda oscurità?

 — Quei fanatici! — disse Banks. — È stato impossibile far lorointendere ragione! Certamente avrebbero fatto meglio a non partire!

 — Senza dubbio, Banks, ma sono partiti, — rispose il colonnelloMunro, — e bisogna fare di tutto perché ritornino.

 — Non c'è modo di segnalare il luogo in cui siamo? — chiesiall'ingegnere.

18 Circa 730 millimetri. (N.d.A.) 

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 — Sì, — rispose Banks, — accendendo i nostri fanali elettrici, chesono di gran potenza illuminante e si vedono da molto lontano.Inserirò la corrente.

 — Ottima idea, Banks.

 — Volete che vada in cerca del capitano Hod? — domandò ilsergente.

 — No, mio vecchio Neil, — rispose il colonnello Munro, — nonlo troveresti e ti smarriresti a tua volta.

Banks fece in modo di utilizzare i fuochi di cui disponeva. Glielementi della pila vennero attivati, venne inserita la corrente e pocodopo i due occhi del Gigante d'Acciaio, come due fari elettrici, proiettavano i loro fasci luminosi attraverso la buia volta dei baniani.È certo che, in quella notte oscura, la portata di quei fari dovevaessere grande e poteva guidare i nostri cacciatori.

In quel momento si scatenò un uragano di estrema violenza.Lacerò la cima degli alberi, piegò verso il suolo fischiando attraversole colonnette dei baniani, come se avesse attraversato i tubi sonori diun mantice di qualche organo.

Fu una cosa improvvisa.

Una grandine di rami secchi, una pioggia di foglie strappate, coprìla strada. I tetti della Steam-House risuonarono lamentosamente sottoquella tempesta che produceva un rovinio continuo.

Dovemmo rifugiarci nel salotto e chiudere tutte le finestre. La pioggia non cadeva ancora.

 — È una specie di tofan, — disse Banks.Gli indù danno questo nome agli uragani impetuosi e improvvisi

che devastano più particolarmente le regioni montuose e sono molto

temuti nel paese. — Storr! — gridò Banks al macchinista, — hai chiuso bene le

aperture della torretta? — Sì, signor Banks, — rispose il macchinista. — Non c'è nulla da

temere da quel lato. — Dov'è Kâlouth? — Finisce di sistemare il combustibile nel tender.

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 — Domani — rispose l'ingegnere — avremo soltanto la fatica diraccogliere la legna! Il vento si fa boscaiolo e ci risparmia del lavoro.Mantieni la pressione, Storr, e torna a metterti al riparo.

 — Subito, signore.

 — I serbatoi d'acqua sono pieni, Kâlouth? — domandò Banks. — Sì, signor Banks — rispose il fuochista. — Ora la riserva

d'acqua è completa. — Bene! Rientra! Rientra!Il macchinista e il fuochista trovarono ben presto riparo nella

seconda carrozza.I lampi erano frequenti, e l'esplosione dei nembi elettrici faceva

udire un sordo brontolio. Il tofan non aveva rinfrescato l'aria. Era unvento torrido, un alito infuocato, che bruciava come se fosse uscitodalla bocca di un forno.

Sir Edward Munro, Banks, Mac Neil e io, lasciavamo il salottosolamente per recarci sotto la veranda. Guardando gli alti rami dei baniani, lì si vedevano disegnarsi come un fine merletto nero sulfondo igneo del cielo. Non c'era un lampo che non fosse seguito, pochi secondi dopo, dagli scoppi di tuono. Un'eco non aveva il

tempo di spegnersi, che già si sentiva scoppiare un altro fulmine. Diconseguenza, una profonda nota bassa si manteneva costante e suquesto accompagnamento si staccavano quelle secche detonazioniche Lucrezio ha così giustamente paragonato al rumore stridentedella carta che si lacera.

 — Come mai l'uragano non li ha fatti ancora ritornare a casa? —diceva il colonnello Munro.

 — Forse — rispose il sergente — il capitano Hod e i suoi

compagni avranno trovato un riparo nella foresta, nel cavo di qualchealbero o di qualche roccia, e ci raggiungeranno solo domattina.L'accampamento sarà sempre qui per riceverli!

Banks scosse il capo da uomo che non è rassicurato. Egli nonsembrava condividere l'opinione di Mac Neil.

In quel momento - erano quasi le nove — la pioggia cominciò acadere con estrema violenza. Era mista a enormi chicchi di grandine

che ci lapidavano e crepitavano sul tetto sonoro della Steam-House.Era come un secco rullare di tamburi. Sarebbe stato impossibile

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sentirsi parlare, anche nel caso che gli scoppi di tuono non avesseroriempito lo spazio. Le foglie dei baniani, fatte a pezzi dalla grandine,turbinavano da ogni parte.

Banks, non potendo farsi udire in mezzo a quel tumulto

assordante, allungò allora il braccio e ci mostrò i chicchi di grandineche flagellavano i fianchi del Gigante d'Acciaio.

Era da non credere! Tutto scintillava al contatto di quei corpi duri.Si sarebbe detto che dalle nuvole cadessero vere e proprie gocce dimetallo in fusione, che scintillavano nel percuotere la lamiera. Talefenomeno mostrava fino a che punto l'atmosfera fosse satura dielettricità. I fulmini l'attraversavano continuamente, cosicché tutto lospazio sembrava essere in fiamme.

Banks, con un cenno, ci fece rientrare nel salotto, e chiuse la portache dava sulla veranda. Era davvero pericoloso esporsi, all'ariaaperta, all'urto delle correnti elettriche.

All'interno eravamo in un'oscurità resa più completa dall'effettodei fulmini al di fuori. Quale non fu il nostro stupore, quandovedemmo che la nostra stessa saliva era luminosa! Bisognava chefossimo impregnati del fluido ambiente in modo straordinario.

«Sputavamo fuoco», per adoperare l'espressione che è servita acaratterizzare questo fenomeno, che si osserva raramente, ma che èsempre spaventoso. In verità, in mezzo a quella conflagrazionecontinua, fuoco di dentro, fuoco di fuori, nel fracasso di quei tuoniinterrotti da grandi scoppi di fulmine, il cuore più saldo non potevatrattenersi dal battere con più rapidità.

 — E loro? — disse il colonnello Munro. — Loro!... sì! loro! — rispose Banks.

Era terribilmente preoccupante. Non potevamo fare nulla peraiutare il capitano Hod e i suoi compagni, minacciati tantogravemente.

Infatti, se avevano trovato qualche riparo, non poteva essere chesotto gli alberi, ed è noto, in quelle condizioni, quali pericoli sicorrano durante gli uragani. In una foresta così fitta, come avrebbero potuto ripararsi a cinque o sei metri dalla verticale che passa

dall'estremità dei rami più lunghi, come si raccomanda alle personeche si trovano sorprese dalla tempesta in prossimità degli alberi?

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Mi venivano in mente tutti questi pensieri, quando si udìall'improvviso uno scoppio di tuono, più secco degli altri. Mezzosecondo appena lo aveva separato dal lampo.

La Steam-House ne tremò e fu come sollevata sulle sue

sospensioni. Credetti che il treno dovesse rovesciarsi.Contemporaneamente un odore acuto riempi lo spazio, un odore

 penetrante di vapori nitrosi: con tutta probabilità, infatti, l'acqua piovana caduta durante questo uragano doveva contenere una granquantità di acido nitrico.

 — Il fulmine è caduto... — disse Mac Neil. — Storr! Kâlouth! Parazard! — gridò Banks.I tre uomini accorsero nel salotto. Fortunatamente, nessuno era

stato colpito.L'ingegnere spinse allora la porta della veranda e avanzò sul

 balcone. — Là!... guardate!... — disse.Un enorme baniano era stato colpito dal fulmine, a dieci passi,

sulla sinistra della strada. Sotto l'incessante bagliore elettrico, ci sivedeva allora come di pieno giorno. L'immenso tronco, che i suoi

 polloni non potevano più sostenere, era caduto di traverso sugli alberivicini. Era scortecciato nettamente in tutta la sua lunghezza, e unalunga striscia di scorza, che le raffiche agitavano come un serpente,si torceva frustando l'aria. Bisognava che lo scortecciamento fosseavvenuto dal basso in alto sotto l'azione di un fulmine ascendente diincredibile violenza.

 — Per poco la Steam-House non è stata colpita! — dissel'ingegnere. — Tuttavia restiamo qui. È ancora un riparo più sicuro

di quello degli alberi! — Restiamo pure! — rispose il colonnello Munro.In quel momento, si udirono delle grida. Erano i nostri compagni

che finalmente ritornavano? — È la voce di Parazard — disse Storr.Infatti, il cuoco, che era sotto l'ultima veranda, ci chiamava a gran

voce. Corremmo subito da lui.

A meno di cento metri indietro, sulla destra dell'accampamento, laforesta di baniani era in fiamme. Le cime più alte degli alberi erano

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già avvolte da una cortina di fuoco. L'incendio si estendeva conincredibile intensità e si dirigeva verso la Steam-House piùrapidamente di quanto si sarebbe potuto credere.

Il pericolo era imminente. Una lunga siccità, l'elevazione della

temperatura durante i tre mesi della stagione calda, avevano seccatoalberi, arbusti, erbe. L'incendio si alimentava di tutto quelcombustibile estremamente infiammabile. Come accade spesso inIndia, l'intera foresta minacciava di essere divorata.

Infatti, si vedeva il fuoco estendere il suo cerchio di fiamme eavanzare sempre di più. Se fosse giunto sul luogodell'accampamento, in pochi minuti i due vagoni sarebbero statidistrutti, giacché i loro sottili pannelli non potevano difenderli controil fuoco, come fanno le grosse pareti laminate di una cassaforte.

Rimanevamo silenziosi davanti a quel pericolo. Il colonnelloMunro stava a braccia conserte. Poi:

 — Banks, — disse con semplicità, — tocca a te togliercid'impiccio!

 — Sì, Munro, — rispose l'ingegnere, — e poiché non abbiamonessun mezzo per spegnere questo incendio, bisogna fuggirlo!

 — A piedi? — esclamai. — No, con il nostro treno. — E il capitano Hod, e i suoi compagni? — disse Mac Neil. — Non possiamo fare nulla per loro! Se non sono di ritorno prima

della nostra partenza, partiremo ugualmente! — Non bisogna abbandonarli! — disse il colonnello. — Munro, — rispose Banks, — quando il treno sarà al sicuro,

lontano dall'incendio, ritorneremo e batteremo la foresta finché non li

avremo trovati! — Fa', dunque, Banks, — rispose il colonnello Munro, che

dovette arrendersi al consiglio dell'ingegnere, che era in realtà il soloda seguire.

 — Storr, — disse Banks, — alla macchina! Kâlouth, alla caldaia,e attizza i fuochi! Che pressione sul manometro?

 — Due atmosfere, — rispose il macchinista.

 — Bisogna che, entro dieci minuti, ne abbiamo quattro! Andate,amici miei, andate!

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Il macchinista e il fuochista non persero un istante. Poco dopo, deitorrenti di fumo nero scaturirono dalla proboscide dell'elefante e simescolarono ai torrenti di pioggia, che il gigante sembrava sfidare.Ai lampi che illuminavano lo spazio, esso rispondeva con turbini di

scintille. Un getto di vapore fischiava nella ciminiera, e il tiraggioforzato attivava la combustione della legna che Kâlouthammucchiava nel suo forno.

Sir Edward Munro, Banks e io, eravamo rimasti sotto la veranda posteriore, osservando i progressi dell'incendio attraverso la foresta.Erano rapidi e spaventosi. I grandi alberi crollavano inquell'immenso braciere, i rami crepitavano come rivoltellate, le lianesi contorcevano da un tronco all'altro, il fuoco si comunicava quasiimmediatamente a nuovi focolai. In cinque minuti, l'incendio eraavanzato di cinquanta metri, e le fiamme frastagliate, o si potrebbedire lacerate dalla raffica, raggiungevano un'altezza tale che i lampile solcavano in ogni senso.

 — Bisogna che fra cinque minuti abbiamo lasciato questo posto, — disse Banks, — oppure tutto prenderà fuoco!

 — Cammina veloce, questo incendio! — risposi io.

 — Andremo più in fretta di lui. — Se Hod fosse qui, se i suoi compagni fossero di ritorno! —disse sir Edward Munro.

 — Dei fischi! dei fischi! — gridò Banks. — Forse li sentiranno.E precipitandosi verso la torretta, fece subito echeggiare l'aria di

suoni acuti che superavano il brontolio profondo del tuono, edovevano udirsi da lontano.

Ci si può immaginare la situazione ma non si saprebbe

descriverla.Da un lato, necessità di fuggire al più presto; dall'altro, obbligo di

aspettare coloro che non erano ancora tornati!Banks era ritornato sotto la veranda posteriore. La fronte

dell'incendio era ora a meno di cinquanta piedi dalla Steam-House.Un calore insopportabile si propagava, e l'aria ardente sarebbe ben presto diventata irrespirabile. Numerose scintille cadevano già fin sul

nostro treno. Fortunatamente la pioggia torrenziale lo proteggeva

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ancora abbastanza, ma non avrebbe potuto evidentemente difenderlocontro gli attacchi diretti del fuoco.

La macchina mandava sempre i suoi fischi striduli. Né Hod néFox né Goûmi riapparivano.

In quel momento, il macchinista raggiunse Banks. — Siamo sotto pressione, — disse. — Ebbene, partiamo, Storr! — rispose Banks, — ma non troppo

in fretta! Quanto è necessario soltanto per tenerci fuori portatadell'incendio!

 — Aspetta, Banks, aspetta! — disse il colonnello Munro, che non poteva decidersi a lasciare l'accampamento.

 — Tre minuti ancora, Munro, — rispose freddamente Banks, —ma non di più. Fra tre minuti, la parte posteriore del trenocomincerebbe a prendere fuoco!

Passarono due minuti. Ormai era impossibile rimanere sotto laveranda. Non era addirittura più possibile appoggiare la mano sullelastre ardenti che cominciavano a «imbarcarsi». Rimanere alcuniistanti di più sarebbe stata un'enorme imprudenza!

 — Andiamo, Storr! — gridò Banks.

 — Ah! — esclamò il sergente. — Loro!... — feci io.Il capitano Hod e Fox apparivano sulla destra della strada.

Portavano a braccia Goûmi, come un corpo inerte, e giunsero al predellino posteriore.

 — Morto! — esclamò Banks. — No, colpito dal fulmine che gli ha spezzato il fucile in mano,

 — rispose il capitano Hod, — e paralizzato, ma solo alla gamba

sinistra! — Sia ringraziato Dio! — disse il colonnello Munro. — Grazie, Banks! — aggiunse il capitano. — Senza i vostri fischi,

non avremmo potuto ritrovare l'accampamento! — Andiamo! — esclamò Banks. — Andiamo!Hod e Fox si erano precipitati sul treno, e Goûmi, che non aveva

 perduto conoscenza, fu deposto nella sua cabina.

 — Che pressione abbiamo? — domandò Banks, che avevaraggiunto il macchinista.

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 — Quasi cinque atmosfere, — rispose Storr. — Andiamo! — ripeté Banks.Erano le dieci e mezzo. Banks e Storr andarono a mettersi nella

torretta. Venne azionato l'acceleratore, il vapore precipitò nei

cilindri, si fecero udire i primi barriti, e il treno avanzò a piccolavelocità, in mezzo a quella triplice intensità di luce, prodottadall'incendio della foresta, dall'elettricità dei fanali e dai fulmini delcielo.

In poche parole, il capitano Hod ci narrò quanto era accadutodurante la sua escursione. I suoi compagni e lui non avevano trovatotraccia d'animali. Con l'uragano che si avvicinava, l'oscurità calò piùrapidamente, e soprattutto più profondamente di quanto avesserosupposto. Perciò vennero sorpresi dal primo scoppio di tuono quandosi trovavano già a più di tre miglia dall'accampamento. Allora vollerotornare indietro, ma in qualsiasi modo facessero per orientarsi, nontardarono a smarrirsi in mezzo a quei gruppi di baniani che siassomigliano tutti, e senza che nessun sentiero indicasse loro ladirezione che bisognava seguire.

L'uragano scoppiò poco dopo con estrema violenza. In quel

momento erano tutti e tre fuori della portata dei fanali elettrici.Perciò non poterono dirigersi in linea retta verso la Steam-House. Lagrandine e la pioggia cadevano a torrenti. Non c'era nessun riparo,tranne la volta insufficiente degli alberi, che non tardò a esserecrivellata.

A un tratto un tuono scoppiò accompagnato da un violento lampo.Goûmi cadde colpito dal fulmine accanto al capitano Hod, ai piedi diFox. Del fucile che egli stringeva non rimaneva che il calcio; la

canna, la camera di scoppio, il ponticello, tutto quello che era metalloera stato distrutto istantaneamente.

I suoi compagni lo credettero morto. Fortunatamente non era così;ma la sua gamba sinistra, benché non fosse stata colpita direttamentedal fluido, era paralizzata. Il povero Goûmi non poteva fare un passo.Bisognava portarlo, dunque. Invano egli chiese che lo lasciassero là, pronti a venirlo a riprendere più tardi. I suoi compagni non vollero

acconsentirvi, e, uno reggendolo per le spalle, l'altro per i piedi, siavventurarono alla meglio nella buia foresta.

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Per due ore Hod e Fox vagarono a casaccio, esitando,arrestandosi, ripigliando il cammino, senza alcun punto diriferimento che potesse indicare loro la direzione della Steam-House.

Per fortuna, finalmente, i fischi, più percettibili delle fucilate in

mezzo al frastuono degli elementi, echeggiarono nella bufera. Era lavoce del Gigante d'Acciaio.

Un quarto d'ora dopo, tutti e tre arrivavano nel momento in cui illuogo di fermata stava per essere abbandonato. Appena in tempo!

Frattanto, se il treno correva sulla strada larga e piana dellaforesta, l'incendio camminava presto quanto lui. Ciò che rendeva il pericolo più minaccioso, era che il vento era cambiato, come fa difrequente durante questi fenomeni sconvolgenti che sono gli uragani.Invece di soffiare di fianco, soffiava ora di dietro, e con la suaviolenza, attizzava tutto quell'incendio, come un ventilatore chesaturi di ossigeno un focolare. Il fuoco guadagnava visibilmenteterreno. I rami accesi, le scintille ardenti piovevano in mezzo ad unanuvola di ceneri calde, sollevate dal suolo come se qualche cratereavesse vomitato nello spazio del materiale eruttivo. Effettivamente,non si sarebbe potuto paragonare quell'incendio ad altro che

all'avanzare di un fiume di lava attraverso la campagna divorandoogni cosa al suo passaggio.Banks lo notò. E anche se non lo avesse visto, lo avrebbe sentito

dall'alito infuocato che passava nell'atmosfera.La corsa fu perciò accelerata, benché fosse piuttosto pericoloso

farlo su quella strada sconosciuta. Ma la strada, allora invasa dalleacque del cielo, era scavata così profondamente, che la macchina non poteva venire spinta come avrebbe voluto l'ingegnere.

Verso le undici e mezzo, nuovo scoppio di tuono, che fu terribile,e nuovo fulmine! Un grido ci sfuggì. Credemmo che Banks e Storrfossero stati colpiti entrambi nella torretta dalla quale dirigevano lemosse del treno.

Quella sventura ci fu risparmiata. Era il nostro elefante che erastato colpito dalla scarica elettrica, alla punta di una delle sue lungheorecchie pendenti.

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 Non ne era derivato, fortunatamente, nessun danno per lamacchina, e sembrò che il Gigante d'Acciaio volesse rispondere aicolpi dell'uragano con i suoi più precipitati barriti.

 — Hurrah! — gridò il capitano Hod, — hurrah! Un elefante in

carne e ossa sarebbe caduto stecchito! Tu, invece, sfidi il fulmine, enulla può arrestarti! Hurrah, Gigante d'Acciaio, hurrah!

Per mezz'ora ancora, il treno mantenne la sua distanza. Nel timoredi urtare troppo violentemente in qualche ostacolo, Banks lospingeva solamente alla velocità necessaria per non essere raggiuntodal fuoco.

Dalla veranda su cui il colonnello Munro, Hod e io avevamo preso posto, vedevamo passare delle grandi ombre, che balzavano nei raggiluminosi dell'incendio e dei lampi. Erano belve, finalmente.

Per precauzione, il capitano Hod afferrò il fucile, perché era possibile che quelle bestie spaventate volessero gettarsi sul treno percercarvi un riparo o un rifugio.

E infatti, un'enorme tigre lo tentò; ma slanciandosi con un balzo prodigioso, fu presa per il collo fra due polloni di baniani. L'albero principale, curvandosi in quel momento sotto l'uragano, tese i polloni

come due immense corde, che strangolarono l'animale. — Povera bestia! — disse Fox. — Queste belve, — rispose il capitano Hod sdegnato, — sono

fatte per essere uccise da un'onesta pallottola di carabina! Sì! povera bestia!

Davvero, il capitano Hod non aveva fortuna! Quando cercava letigri, non ne vedeva, e quando non le cercava più, gli passavano alvolo sotto il naso, senza che egli potesse prenderle di mira, oppure si

strangolavano come un topo nel cappio di una trappola!All'una del mattino, il pericolo, per grande che fosse stato fino

allora, raddoppiò ancora.Sotto l'influenza di quei venti impazziti che saltavano da un punto

all'altro della bussola, l'incendio aveva raggiunto la strada davanti anoi, e ormai, eravamo completamente accerchiati.

Tuttavia l'uragano era diminuito molto di violenza, come accade

quasi sempre, quando questi fenomeni atmosferici passano sopra unaforesta, i cui alberi carpiscono ed esauriscono a poco a poco

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l'elettricità. Ma se i lampi erano più rari, i tuoni più distanziati, se la pioggia cadeva con minor forza, il vento soffiava sempre con furoreincredibile.

Ad ogni costo si dovette affrettare la corsa del treno, a rischio di

mandarlo a sbattere contro un ostacolo, o di farlo precipitare inqualche larga buca; 

Così fece Banks, ma con un sangue freddo meraviglioso, con gliocchi fissi ai vetri lenticolari della torretta, con la manosull'acceleratore che non lasciava più.

La strada sembrava ancora semiaperta fra due siepi di fuoco. Eradunque indispensabile passarvi in mezzo.

Banks vi si lanciò risolutamente a una velocità di sei o sette migliaall'ora.

Credetti che vi saremmo rimasti, soprattutto quando si dovettesuperare un punto strettissimo della fornace per un tratto di cinquantametri. Le ruote del treno stridettero sui carboni ardenti cheingombravano il suolo e un'aria infuocata lo avvolse tutto quanto!...

Eravamo passati!Finalmente, alle due del mattino, al bagliore dei rari lampi,

apparve l'estremo limite del bosco. Dietro di noi si spiegava unagrande distesa di fiamme. L'incendio si sarebbe estinto solo dopoaver divorato fino all'ultimo baniano dell'immensa foresta.

All'alba, il treno finalmente si fermò; l'uragano si era calmato deltutto, e si preparò un accampamento provvisorio.

Il nostro elefante, che venne visitato con cura, aveva la puntadell'orecchio destro forata da molti buchi, le cui frastagliatureirregolari erano piegate io direzioni contrarie.

Certamente, sotto un simile fulmine qualsiasi animale, che nonfosse stato d'acciaio, sarebbe caduto per non rialzarsi più e l'incendioavrebbe divorato rapidamente il treno.

Alle sei del mattino, dopo un sommario riposo, ci rimettemmo incammino, e a mezzogiorno ci accampavamo nei dintorni di Rewah.

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C  APITOLO XIII

PRODEZZE   DEL CAPITANO  HOD

LA MEZZA giornata del 5 giugno e la notte seguente vennerotrascorse tranquillamente nell'accampamento. Dopo tante fatiche,accresciute da tanti pericoli, quel riposo ci era proprio dovuto.

 Non era più il regno di Oudh che stendeva le sue ricche pianuredavanti a noi. La Steam-House correva allora attraverso quelterritorio, ancora fertile, ma fratturato da nullahs o precipizi, cheforma il Rohilkhand. Bareilli è la capitale di questo ampio quadratodi centocinquantacinque miglia di lato, abbondantemente irrigato dainumerosi affluenti o sub-affluenti del Cogra, :on gruppi di magnificimanghi qua e là, disseminato di fitte jungle, che tendono ascomparire davanti alle coltivazioni.

Qui fu il centro dell'insurrezione, dopo la presa di Delhi, qui ebbeluogo una delle campagne di sir Colin Campbell; qui la colonna delgenerale di brigata Walpole iniziò la sua campagna non troppofelicemente; qui perì un unico di sir Edward Munro, colonnello del93° Scozzese, che si era distinto nei due assalti di Lucknow il famoso14 aprile.

Data la sua costituzione, nessun altro terreno sarebbe stato piùfavorevole alla marcia del nostro treno. Belle strade, ben livellate,corsi d'acqua facili da guadare fra le due arterie più importanti chescendono dal nord, tutto concorreva a rendere facile questa partedell'itinerario. Non ci rimanevano più che poche centinaia dichilometri da percorrere prima di avvertire i primi rilievi del suoloche congiungono la pianura alle montagne del Nepal.

Soltanto, ora bisognava tener seriamente conto della stagionedelle piogge.

Il monsone, che soffia da nord-est a sud-ovest durante i primimesi dell'anno, aveva appena invertito direzione. Il periodo delle

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 piogge è più violento sul litorale che non nell'interno della penisola,ed anche un po' più tardivo. Ciò deriva dal fatto che le nuvole sisciolgono prima di giungere nel centro dell'India. Inoltre, la lorodirezione viene anche un po' modificata dalla barriera delle alte

montagne, che forma come una specie di gorgo atmosferico. Sullacosta del Malabar, il monsone comincia nel mese di maggio; inmezzo alle province centrali e settentrionali, esso si fa sentire soloalcune settimane più tardi, nel mese di giugno.

Ora eravamo in giugno, ed era in queste circostanze particolari,ma previste, che il nostro viaggio doveva ormai effettuarsi.

Devo dire anzitutto che, fino dal giorno dopo, il nostro bravoGoûmi, disarmato in così malo modo dal fulmine, stava meglio. La paralisi alla gamba sinistra fu solo temporanea. Non gliene restòtraccia, ma mi sembrò che gli serbasse rancore al fuoco del cielo.

Durante le due giornate del 6 e del 7 giugno, il capitano Hod feceuna caccia migliore con l'aiuto di Phann e di Black. Egli potéuccidere una coppia di quelle antilopi che, nella zona, si chiamanonilgau. Sono i buoi azzurri degli indù, che sarebbe più giustochiamare cervi, perché assomigliano più ai cervi che non ai

confratelli del dio Api. Bisognerebbe anzi chiamarli cervi grigio perla, poiché il loro colore ricorda certamente meglio quello del cielo burrascoso che non quello del cielo azzurro. Si assicura tuttavia chein qualche esemplare di questi magnifici animali, dalle piccole cornaacuminate e diritte, dalla testa lunga e leggermente bombata, ilmantello diventa quasi azzurro, tinta che la natura sembra aversempre rifiutato ai quadrupedi, perfino alla volpe azzurra, la cui pelliccia è piuttosto nera.

 Non erano ancora i carnivori sognati dal capitano Hod. Però, ilnilgau, se non è feroce, diventa pericoloso quando, feritoleggermente, si avventa sul cacciatore. Una prima pallottola delcapitano, una seconda di Fox, arrestarono di colpo nel loro slancioquei due superbi animali. Furono uccisi quasi al volo. Perciò, perFox, non era che selvaggina da penna!

Il signor Parazard, invece, fu di tutt'altra opinione, e gli ottimi

cosciotti arrostiti proprio a puntino, che ci servì quello stesso giorno,ci fecero schierare dalla sua parte.

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L'8 giugno, all'alba, lasciavamo il nostro accampamento che erastato posto presso un piccolo villaggio del Rohilkhand. Vi eravamogiunti la sera prima, dopo aver percorso i quaranta chilometri che loseparano da Rewah. Il nostro treno aveva dunque camminato a una

velocità molto moderata su un terreno che le piogge continuavano adammollare. Inoltre, i corsi d'acqua cominciavano a gonfiarsi, e parecchi guadi ci causarono un ritardo di alcune ore. Ma, dopo tutto,non si trattava che di uno o due giorni. La regione montuosa in cuicontavamo di sistemare la Steam-House durante molti mesi dellastagione estiva, come in mezzo a un sanitarium, eravamo sicuri diraggiungerla prima della fine di giugno. Perciò nessuna preoccupazione al riguardo.

Durante questa giornata dell'8, il capitano Hod dovetterimpiangere un bel tiro.

La via era fiancheggiata da folte jungle di bambù, come se neincontrano di frequente intorno a questi villaggi, che sembranocostruiti dentro cesti di fiori. Non era ancora la jungla vera e propria,quella che, per gli indù, è la pianura aspra, nuda, sterile, dominata daarbusti grigiastri. Eravamo, al contrario, in un paese coltivato, in un

territorio fertile, disseminato generalmente di risaie acquitrinose.Il Gigante d'Acciaio se ne andava tranquillamente, diretto dallamano di Storr, lanciando i suoi eleganti pennacchi di vapore, che ilvento sparpagliava sui bambù della via.

Ad un tratto, un animale si slanciò con agilità sorprendente e sigettò al collo del nostro elefante.

 — Un tchîta, un tchîta! — gridò il macchinista.A quel grido, il capitano Hod balzò sul balcone anteriore, e afferrò

il suo fucile, sempre carico e a portata di mano. — Un tchîta — esclamò a sua volta. — Via, tirate! — gridai. — Ho tempo! — rispose il capitano Hod, che si accontentò di

 prendere di mira l'animale.Il tchîta  è una specie di leopardo caratteristico dell'India, meno

grosso della tigre, ma quasi altrettanto temibile, tanto è vivace,

svelto, robusto.

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Il colonnello Munro, Banks e io, ritti sotto la veranda, loosservavamo, aspettando la fucilata del capitano.

Evidentemente, quel leopardo era stato ingannato dall'aspetto delnostro elefante. Gli si era arditamente gettato addosso; ma là dove

credeva di trovare della carne viva, nella quale affondare i denti o gliartigli, trovava invece una carne di lamiera che né i suoi artigli né isuoi denti potevano intaccare. Furibondo del proprio scacco, siaggrappava alle lunghe orecchie del falso animale, e stava senzadubbio per abbandonarlo, quando ci vide.

Il capitano Hod lo teneva sempre sotto mira, da cacciatore che,sicuro del proprio colpo, non vuole colpire la belva se non nelmomento opportuno e nel punto migliore.

Il tchîta si rizzò, ruggendo. Senza dubbio sentì il pericolo, ma non parve che lo volesse fuggire. Forse, cercava il momento favorevole per slanciarsi sulla veranda.

Infatti, lo vedemmo di lì a poco arrampicarsi sulla testadell'elefante, abbracciare con le zampe la proboscide che serviva daciminiera, poi salire fin quasi al suo orifizio, dal quale sfuggivano glisbuffi di vapore.

 — Tirate dunque, Hod! — dissi ancora. — Ho tempo — rispose il capitano.Poi rivolgendosi a me, senza peraltro perdere di vista il leopardo,

che ci guardava: — Non avete mai ammazzato un tchîta, Maucler? — mi

domandò. — Mai. — Volete ammazzarne uno?

 — Capitano, — risposi, — non voglio privarvi di questo colpomagnifico...

 — Peuh! — disse Hod, — non è un colpo da cacciatore! Prendeteun fucile, mirate quella bestia all'attaccatura della spalla! Se lasbagliate, la prenderò al volo!

 — E va bene.Fox, che era venuto a raggiungerci, mi passò una carabina a due

canne che teneva in mano. La presi, la caricai, mirai alla spalla delleopardo sempre immobile, e feci fuoco.

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L'animale, ferito, ma leggermente, fece un balzo enorme, e passando sopra la torretta del macchinista, venne a cadere sul primotetto della Steam-House.

Il capitano Hod, per buon cacciatore che fosse, non aveva avuto il

tempo di colpirlo al volo... — A noi, Fox, a noi! — esclamò.Ed entrambi, slanciandosi fuori della veranda, andarono ad

appostarsi nella torretta.Il leopardo, che andava e veniva, si slanciò sul secondo tetto, dopo

aver attraversato con un balzo la passerella. Nel momento in cui il capitano stava per far fuoco, l'animale

spiccò un altro balzo, si precipitò al suolo, si rialzò con slanciovigoroso, e scomparve nella jungla.

 — Ferma! ferma! — gridò vivamente Banks al macchinista, ilquale, fermando l'immissione del vapore, bloccò istantaneamente leruote di tutto il treno con il freno ad aria.

Il capitano e Fox balzarono sulla strada, e si slanciarono nellamacchia per raggiungere il tchîta. 

Passarono alcuni minuti. Ascoltavamo, non senza una certa

impazienza, ma non si sentirono fucilate. I due cacciatori ritornaronoa mani vuote. — Scomparso! fuggito! — esclamò il capitano Hod, — e neppure

una traccia di sangue sull'erba! — È colpa mia, — dissi al capitano. — Avreste fatto meglio a far

fuoco su quel tchîta in vece mia. Non lo avreste sbagliato. — Bene! lo avete ferito, — rispose Hod, — ne sono sicuro, ma

non nel punto giusto.

 — Non è quello, capitano, che farà la mia trentottesima, né lavostra quarantunesima! — disse Fox un po' dispiaciuto.

 — Bah! — replicò Hod con tono di noncuranza un po' affettato, — un tchîta non è una tigre! Altrimenti, caro Maucler, non sarei statocapace di cedervi quel tiro!

 — A tavola, amici, — disse allora il colonnello Munro. — Lacolazione ci aspetta e vi consolerà...

 — Tanto più, — disse Mac Neil, — che la colpa è tutta di Fox.

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 — Colpa mia? — rispose l'attendente, sbigottito da quellaosservazione inaspettata.

 — Senza dubbio, Fox, — riprese il sergente. — La carabina chehai consegnato al signor Maucier era stata caricata solo con del

 piombo da sei!E Mac Neil mostrava la seconda cartuccia che aveva estratto

dall'arma di cui mi ero servito. Non conteneva, infatti, che pallini da pernice.

 — Fox! — disse il capitano Hod. — Capitano? — Due giorni di cella di rigore! — Sì, capitano.E Fox se ne andò nella sua cabina, deciso a non ricomparirci

davanti se non quarantotto ore dopo. Si vergognava profondamentedel proprio errore, e voleva nascondere la sua vergogna.

Il giorno dopo, 9 giugno, il capitano Hod, Goûmi e io andammo a battere la pianura lungo la strada, durante la mezza giornata di sostache Banks aveva concesso. Era piovuto tutta la mattina, ma, versomezzogiorno, il cielo si era un po' rasserenato, e si poteva sperare in

una schiarita di alcune ore.Del resto, non era Hod, il cacciatore di belve, che mi conduceva,questa volta era il cacciatore di selvaggina. Nell'interesse dellamensa, egli andava a gironzolare tranquillamente sul bordo dellerisaie, in compagnia di Black e di Phann. Il signor Parazard avevafatto sapere al capitano che la dispensa era vuota, ed egli aspettava daSuo Onore, che Suo Onore volesse «prendere i provvedimentinecessari» per riempirla.

Il capitano Hod si rassegnò, e partimmo armati di semplici fucilida caccia. Per due ore, la nostra battuta non ebbe altro risultato chequello di far alzare qualche pernice o di far stanare qualche lepre, maa tali distanze, che, nonostante la buona volontà dei nostri cani, sidovette rinunciare alla speranza di raggiungerle.

Perciò il capitano Hod era di pessimo umore. D'altra parte, inmezzo a quell'ampia pianura, senza jungle, senza boschi cedui,

sparsa di villaggi e di fattorie, non poteva fare assegnamentosull'incontro di un carnivoro qualsiasi, che lo avrebbe compensato

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del leopardo mancato il giorno prima. Era lì solo comeapprovvigionatore e si preoccupava del modo in cui lo avrebbericevuto il signor Parazard nel caso che fosse ritornato con il carnierevuoto.

Eppure, non era colpa nostra. Alle quattro non avevamo ancoraavuto occasione di tirare una sola fucilata. Soffiava un vento asciuttoe, come ho detto, tutta la selvaggina si portava fuori tiro...

 — Caro amico, — mi disse allora il capitano Hod, —decisamente, la cosa non va! Lasciando Calcutta, vi ho promessodelle cacce magnifiche, e una cattiva fortuna, una fatalità persistente,di cui non capisco un bel nulla, m'impedisce di mantenere la promessa!

 — Via, capitano, — risposi, — non bisogna disperare. Se provoun po' di rammarico, è meno per me che per voi!... Ci prenderemo larivincita, del resto, nelle montagne del Nepal.

 — Sì, — disse il capitano Hod, — là, su quelle prime balzedell'Himalaya, le condizioni operative saranno migliori. Vedete,Maucler, scommetterei che il nostro treno, con tutti i suoi congegni, imuggiti del suo vapore, e soprattutto il suo elefante gigantesco,

spaventa queste dannate belve più ancora di quanto le spaventi untreno ferroviario, e sarà così finché sarà in moto! Quando sarà fermo,speriamolo, saremo più fortunati. Davvero, quel leopardo era pazzo!Bisognava che morisse di fame per gettarsi sul nostro Giganted'Acciaio e si meritava di essere fatto secco da una buona pallottola!Dannato Fox! Non dimenticherò mai quello che ha combinato! Cheora è?

 — Sono quasi le cinque.

 — Già le cinque, e non abbiamo ancora potuto bruciare unacartuccia!

 — All'accampamento non ci aspettano che per le sette. Forse prima di allora...

 — No! la fortuna ci è contraria, — esclamò il capitano Hod, — e,vedete, la fortuna è metà della riuscita!

 — Anche la perseveranza, — risposi. — Ebbene, scommettiamo,

capitano, che non ritorneremo a casa con le mani vuote. Vi va? — Se mi va! — esclamò Hod. — Muoia chi si disdice!

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 pollo spennato, per abbandonarlo come rappresaglia ai colpi delnostro indispettito capitano!

Intanto, la notte si avvicinava. Fra un'ora non ci sarebbe più stataabbastanza luce per poter continuare quella spedizione infruttuosa.

Benché ci fossimo giurati che non saremmo ritornatiall'accampamento con il carniere vuoto, pure vi saremmo staticostretti, a meno di voler passare la notte nella pianura. Ma, senzacontare che quella notte minacciava di essere piovosa, il colonnelloMunro e Banks, non vedendoci ritornare, sarebbero rimasti in unostato di preoccupazione che bisognava risparmiare loro.

Il capitano Hod, con gli occhi spalancati, guardando da sinistra adestra e da destra a sinistra con la rapidità di un uccello, camminavadieci passi avanti, e in una direzione che non ci avvicinavaassolutamente alla Steam-House.

Stavo per affrettare il passo e raggiungerlo per dirgli di rinunciareuna buona volta a lottare contro la cattiva sorte, quando alla miadestra si udì un forte sbatter d'ali. Guardai.

Una massa biancastra si alzava lentamente sopra una macchia.Subito, senza lasciare al capitano Hod il tempo di voltarsi,

imbracciai il fucile, e i miei due colpi partirono successivamente.Il volatile ignoto a cui avevo sparato cadde pesantemente sull'orlodi una risaia.

Phann si slanciò d'un balzo, si impadronì della selvaggina cheavevo abbattuto, e la riportò al capitano.

 — Finalmente! — esclamò Hod. — Se il signor Parazard non ècontento, che si precipiti nella pentola, a capofitto!

 — Ma, almeno, è una selvaggina che si mangia? — domandai.

 — Certamente... in mancanza di meglio! — rispose il capitano. — Fortunatamente nessuno vi ha visto, signor Maucler! — mi

disse Goûmi. — Che cosa ho fatto dunque di riprovevole? — Eh! Avete ucciso un pavone, ed è proibito uccidere i pavoni,

che sono uccelli sacri in tutta l'India. — Il diavolo si porti gli uccelli sacri e quelli che li consacrano! —

esclamò il capitano Hod. — Questo è ucciso, e lo mangeremo... condevozione, se vorrete, ma lo mangeremo!...

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Infatti nel paese dei bramini, dopo la spedizione di Alessandro,epoca in cui il pavone si diffuse nella penisola, esso è un animale frai più sacri. Gli indù ne hanno fatto l'emblema della dea Saravasti, che presiede alle nascite e ai matrimoni. È proibito distruggere questo

volatile pena gravi sanzioni che la legge inglese ha confermato.Quell'esemplare dei gallinacei, che formava la gioia del capitano

Hod, era magnifico, con le sue ali verde cupo a riflessi metallici,orlate da una striscia d'oro. La sua coda, ben fornita e tutta occhiuta,formava un superbo ventaglio di barbe seriche.

 — Andiamo! andiamo! — disse il capitano. — Domani il signorParazard ci farà mangiare del pavone, checché ne possano pensaretutti i bramini dell'India! Dato che il pavone, in sostanza, non è cheun pollo pretenzioso, questo, con le sue penne artisticamente rialzate,farà bella figura sulla nostra tavola.

 — Finalmente eccovi soddisfatto, capitano? — Soddisfatto... di voi, sì, caro amico, ma assolutamente

scontentissimo di me! La mia cattiva sorte non è ancora passata, e bisognerà pure che passi! Andiamo!

Eccoci dunque ritornare sui nostri passi verso l'accampamento da

cui dovevamo essere lontani tre miglia circa. Sul sentiero chedisegnava il suo sinuoso tracciato attraverso le fitte jungle di bambù,il capitano Hod e io, camminavamo l'uno accanto all'altro. Goûmi,che portava la nostra selvaggina, era due o tre passi più indietro. Ilsole non era ancora scomparso, ma grosse nubi lo velavano, e bisognava cercare la via nella semioscurità.

Ad un tratto, un ruggito formidabile esplose in una macchia sulladestra. Questo ruggito mi parve così terrificante, che mi fermai di

colpo, quasi mio malgrado.Il capitano Hod mi afferrò la mano. — Una tigre! — disse.Poi gli sfuggì una bestemmia. — Fulmini delle Indie! — esclamò, — e abbiamo solo pallini da

 pernice nei nostri fucili!Purtroppo era vero, e né Hod né Goûmi né io avevamo cartucce a

 palla.

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D'altra parte non avremmo avuto il tempo di caricare le nostrearmi. Dieci secondi dopo aver emesso il suo ruggito, l'animale sislanciava fuori dalla macchia e ricadeva con un solo balzo a venti passi sulla strada.

Era una magnifica tigre, di quella specie che gli indù chiamanomangiatrici d'uomini, eater men, feroci carnivori, le cui vittime sicontano ogni anno a centinaia.

La situazione era terribile.Io guardavo la tigre, la divoravo con gli occhi, e, lo confesso, il

fucile mi tremava in mano. Misurava nove o dieci piedi di lunghezzae aveva il mantello fulvo, solcato da strisce bianche e nere.

Anche lei ci guardava. I suoi occhi da gatto fiammeggiavano nella penombra. La sua coda spazzava febbrilmente il terreno. Siappiattiva al suolo e si raccoglieva su se stessa come per slanciarsi.

Hod non aveva perduto il suo sangue freddo. Teneva sotto miral'animale, e mormorava con un tono impossibile a rendere:

 — Pallini da sei! Fulminare una tigre con dei pallini da sei! Senon faccio fuoco a bruciapelo, negli occhi, siamo...

Il capitano non poté finire. La tigre avanzava, non a balzi, ma a

 piccoli passi.Goûmi, raggomitolato dietro, la teneva lui pure sotto mira, maanche il suo fucile non conteneva che dei pallini. Quanto al mio, nonera nemmeno carico.

Volli prendere una cartuccia nella cartuccera. — Non movetevi — mi disse il capitano a bassa voce. — La tigre

 balzerebbe, e non bisogna che lo faccia!Ce ne stavamo perciò tutti e tre immobili.

La tigre avanzava lentamente. La sua testa, che un attimo primadondolava, non si muoveva più. I suoi occhi guardavano fisso, macome di sotto in su. Con la grande mandibola semiaperta, tenuta rasoal suolo, sembrava aspirarne le emanazioni.

In breve, la formidabile belva fu a soli dodici passi dal capitano.Hod, ben piantato sulle gambe, immobile come una statua,

concentrava tutta la sua vita nello sguardo. La lotta spaventosa che si

 preparava, da cui forse nessuno di noi sarebbe uscito vivo, non glifaceva nemmeno aumentare i battiti del cuore!

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Credetti, in quel momento, che la tigre stesse finalmente per balzare.

Fece ancora cinque passi. Ebbi bisogno di tutta la mia forza pernon gridare al capitano Hod:

 — Ma sparate, dunque! Sparate, dunque! No! Il capitano lo aveva detto, ed era evidentemente il solo mezzo

di salvezza, egli voleva bruciare gli occhi all'animale; ma, per farquesto, bisognava sparargli solamente a bruciapelo.

La tigre fece ancora tre passi e si rizzò per lanciarsi...Risuonò una violenta detonazione, che fu seguita quasi subito da

una seconda.Il secondo scoppio era avvenuto nel corpo stesso dell'animale,

che, dopo tre o quattro sussulti e dei ruggiti di dolore, ricaddeesanime al suolo.

 — Miracolo! — esclamò il capitano Hod. — Il mio fucile eracarico a palla, dunque, e a proiettile esplosivo! Ah! questa voltagrazie, Fox, grazie!

 — Possibile! — esclamai. — Guardate!

E, aprendo la sua arma, il capitano Hod ne estrasse la cartucciadella canna di sinistra.Era una cartuccia a palla.Tutto si spiegava.Il capitano Hod aveva una carabina doppia e un fucile doppio,

entrambi dello stesso calibro. Ora, Fox, mentre per errore avevacaricato la carabina con le cartucce a pallini, aveva caricato il fucileda caccia con le cartucce a proiettili esplosivi, e se, il giorno prima,

quell'errore aveva salvato la vita al leopardo, oggi l'aveva salvata anoi!

 — Sì, — riprese il capitano Hod, — e non mi sono mai trovato più vicino alla morte!

Mezz'ora dopo eravamo di ritorno all'accampamento. Hod facevachiamare Fox e raccontava quanto era accaduto.

 — Capitano, — rispose l'attendente, — questo dimostra che,

invece di due giorni di consegna, ne merito quattro, poiché mi sonoingannato due volte!

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 — È anche il mio parere, — rispose il capitano Hod; — ma poiché il tuo errore mi ha fruttato la mia quarantunesima, è mio parere pure offrirti questa ghinea...

 — E parere mio prenderla, — rispose Fox, che intascò la moneta

d'oro. Questi furono gli incidenti che segnalarono il primo incontrodel capitano Hod e della sua quarantunesima tigre.

La sera del 12 giugno, il nostro treno si fermava presso una borgata poco importante, e, il giorno seguente, ripartivamo persuperare i centocinquanta chilometri che ci separavano ancora dallemontagne del Nepal.

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C  APITOLO XIV

UNO CONTRO TRE

ALCUNI giorni ancora e avremmo finalmente cominciato adarrampicarci sulle prime balze di quelle regioni settentrionalidell'India che, di piano in piano, di collina in collina, di montagna in

montagna, vanno a raggiungere le maggiori altezze del globo. Finoallora, il suolo non aveva seguito che un dislivello insensibile, la sua pendenza si notava solo leggermente, e il nostro Gigante d'Acciaionon sembrava nemmeno accorgersene.

Il tempo era burrascoso, soprattutto piovoso, ma la temperatura simanteneva ad una media sopportabile. Le strade non erano ancoracattive e resistevano bene sotto i larghi cerchioni delle ruote deltreno, per quanto esso fosse pesante. Quando qualche solco

affondava eccessivamente, bastava un colpetto della mano di Storrall'acceleratore per provocare una più energica spinta del fluidoobbediente, e l'ostacolo veniva superato. La potenza non mancavaalla nostra macchina, lo si sa, e un quarto di giro, impresso allevalvole di immissione, aggiungeva istantaneamente alla sua forzaeffettiva alcune dozzine di cavalli-vapore.

Per la verità, finora non avevamo che da complimentarci tanto perquel genere di locomozione quanto del motore che Banks avevaadottato e della comodità delle nostre case ambulanti, sempre incerca di nuovi orizzonti che si modificavano continuamente sotto ilnostro sguardo.

Infatti non era più quella pianura sconfinata che si stende dallavalle del Gange fino ai territori dell'Oudh e del Rohilkhand. Le vettedell'Himalaya formavano a nord una gigantesca barriera, contro laquale venivano a inciampare le nuvole cacciate dal vento di sud-

ovest. Era ancora impossibile vedere bene il pittoresco profilo di unacatena che si stagliava a una media di ottomila metri sopra il livello

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del mare; ma, avvicinandoci alla frontiera tibetana, l'aspetto del paese diventava più selvaggio, e le jungle invadevano il suolo a spesedei campi coltivati.

Anche la flora di quella parte del territorio indù non è più la

stessa. Già i palmizi erano scomparsi per cedere il posto a queimagnifici baniani, a quei manghi fronzuti che forniscono il fruttomigliore dell'India e più ancora ai gruppi di bambù, i cui rami siaprivano a mazzo fino a cento piedi dal suolo. Si vedevano anchemagnolie dai larghi fiori che impregnavano l'aria di profumi penetranti, aceri superbi, querce di diverse specie, castani dai fruttiirti di punte come ricci di mare, alberi della gomma la cui linfasgorgava dalle vene semiaperte, pini dalle foglie enormi della speciedei pandani; poi, più modesti di dimensioni, più splendidi di colori,gerani, rododendri, lauri, disposti ad aiuole, che fiancheggiavano lestrade.

Si vedevano ancora dei villaggi con capanne di paglia o di bambù,due o tre fattorie, perdute in mezzo ai grandi alberi, ma giàdistanziati da un maggior numero di miglia. La popolazionediminuiva con l'avvicinarsi alle alte terre.

Sopra questi ampi paesaggi, come sfondo, bisogna ora mettere uncielo grigio e nebbioso. Aggiungerò anzi che la pioggia cadevageneralmente in violenti acquazzoni. Per quattro giorni, dal 13 al 17giugno, non avemmo forse una mezza giornata di tregua. Quindi,eravamo costretti a rimanere nel salotto della Steam-House e aingannare le lunghe ore come si sarebbe fatto in una casa stabile,fumando e chiacchierando, giocando a whist. 

Frattanto, i fucili restavano inoperosi, con gran dispiacere del

capitano Hod; ma due slam, che egli fece in una sera sola, gli reseroil suo solito buon umore.

 — Si può sempre ammazzare una tigre, — disse, — ma nonsempre si può fare uno slam! 

 Non c'era nulla da ribattere a una proposizione tanto esatta eformulata così nettamente.

Il 17 giugno, l'accampamento venne rizzato presso un serai, nome

che portano i bungalow riservati in particolar modo ai viaggiatori. Iltempo si era leggermente schiarito, e il Gigante d'Acciaio, che aveva

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lavorato duramente in quei quattro giorni, reclamava, se non un po'di riposo, almeno delle cure. Si stabilì quindi di passare la mezzagiornata e la notte seguente in quel luogo.

Il serai è il caravanserraglio, la locanda pubblica delle strade

 principali della penisola, un quadrilatero di costruzioni poco elevateche circondano una corte interna, e, per lo più, sormontate da quattrotorrette agli angoli, il che dà loro un'aria decisamente orientale. Inquesti serai, vi è del personale addetto in particolar modo al serviziointerno; il bhisti o portatore d'acqua, il cuoco, provvidenza deiviaggiatori che, poco esigenti, sanno accontentarsi di uova e di pollame, e il khansama, cioè il fornitore di viveri, con il quale si puòtrattare direttamente, e, generalmente, a buon prezzo.

Il guardiano del serai, il fante, è semplicemente un agentedell'onorevolissima Compagnia, alla quale appartengono quasi tuttiquesti stabilimenti, che essa fa ispezionare dall'ingegnere capo deldistretto.

Una regola abbastanza strana, ma osservata rigorosamente inquegli stabilimenti, è questa: qualsiasi viaggiatore può occupare ilserai  per ventiquattro ore; se vi vuol soggiornare più a lungo, deve

avere un permesso dell'ispettore. In mancanza di tale permesso, il primo venuto, inglese o indù, può esigere che gli ceda il posto. Naturalmente, appena fummo arrivati al nostro luogo di fermata,

il Gigante d'Acciaio produsse il solito effetto, ossia fu moltoosservato, forse anche molto invidiato. Tuttavia devo ammettere chegli ospiti che si trovavano allora nel serai lo considerarono piuttostocon una specie di disprezzo, disprezzo troppo affettato per esseresincero.

È vero che non avevamo a che fare con dei semplici mortali, cheviaggiassero per commercio o per diporto. Non si trattava né diqualche ufficiale inglese che ritornasse agli accantonamenti dellafrontiera nepalese né di qualche mercante indù, che conducesse lasua carovana verso le steppe dell'Afghanistan, al di là di Labore o diPeshawar.

Era nientemeno che il principe Guru Singh in persona, figlio di un

rajah indipendente del Guzarate, anch'egli rajah, che viaggiava congran pompa nel nord della penisola indiana.

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carovana, né i suonatori che deliziavano le orecchie di Sua Altezza,né le baiadere che rallegravano i suoi occhi, né i giocolieri chedivertivano i suoi ozi. Trecento portatori e duecento alabardiericompletavano il seguito, i cui stipendi avrebbero esaurito qualsiasi

 borsa che non fosse stata quella di un rajah indipendente dell'India.I musicisti erano suonatori di piccoli tamburi, di cembali, di tam-

tam, appartenenti a quella scuola che sostituisce ai suoni i rumori; poi degli strimpellatori di chitarra e di violino a quattro corde, i cuistrumenti non erano mai passati per le mani dell'accordatore.

Fra i giocolieri c'erano alcuni di quei sapwallah, o incantatori diserpenti, che con i loro incantesimi allontanano e attirano i rettili; deinutui, abilissimi nelle evoluzioni con la sciabola; degli acrobati che ballano sulla corda lenta, con in testa una piramide di vasi di coccio eai piedi zoccoli di corna di bufalo; e finalmente di quei prestigiatoriche hanno l'abilità di trasformare in velenosi cobra delle vecchie pellidi serpente o viceversa, a piacimento dello spettatore.

Le baiadere appartenevano alla classe di quelle graziosissimeboundeli, tanto ricercate per le nautch o feste serali, nelle qualiadempiono la doppia funzione di cantanti e di ballerine. Vestite

molto elegantemente, alcune di mussola ricamata d'oro, altre digonne a pieghe e di sciarpe che sciolgono eseguendo i loro passi,quelle ballerine erano adorne di ricchi gioielli, braccialetti preziosialle braccia, anelli d'oro alle dita dei piedi e delle mani, sonaglid'argento alle caviglie. In tale abbigliamento, esse eseguono lafamosa danza delle uova con grazia e destrezza veramentestraordinarie, e io speravo che mi sarebbe stato concesso diammirarle dietro invito speciale del rajah.

Poi un certo numero d'uomini, di donne e di fanciulli figurava nonso a quale titolo nel personale della carovana. Gli uomini eranoavvolti in una lunga striscia di stoffa che si chiama dhoti o vestitidella camicia angarkah e della lunga veste bianca  jamah, che formaun costume molto pittoresco.

consiste in un tiro di quattro cavalli attaccati alla carrozza senza timone e guidatida due postiglioni che montano i primi due animali. (N.d.T.) 

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Le donne portavano il choli, specie di giacchetta a maniche corte,e il sari, equivalente del dhoti degli uomini, che esse si avvolgonointorno al corpo, e la cui estremità gettano con civetteria sul capo.

Questi indù, sdraiati sotto gli alberi, aspettando l'ora del pasto,

fumavano delle sigarette avvolte in una foglia verde, oppure ilgarguli destinato all'incenerazione del gurago, specie di marmellatanerastra composta di tabacco, melassa e oppio. Altri masticavanoquel miscuglio di foglia di betel, noce di arek e calce spenta, che hacertamente delle proprietà digestive, utilissime sotto il clima infocatodell'India.

Tutta quella gente, abituata a muoversi in carovana, viveva in buon accordo, e mostrava animazione solo in occasione delle feste.Si sarebbero dette comparse di una compagnia teatrale, che ricadononella più completa apatia appena sono fuori di scena.

Tuttavia, quando giungemmo all'accampamento, quegli indù siaffrettarono a rivolgerci dei salam inchinandosi fino a terra. Lamaggior parte di loro gridava: Sahib! Sahib! che significa: Signore!Signore! e noi rispondemmo loro con gesti amichevoli.

Come ho detto, mi era venuto in mente che il principe Guru Singh

avrebbe forse voluto dare in nostro onore una di quelle feste di cui irajah non sono avari. La grande corte del bungalow, adattissima peruna cerimonia di questo genere, mi pareva una degna cornice per ledanze delle baiadere, gli incantesimi degli incantatori e i giochi degliacrobati. Sarei stato felice, lo confesso, di poter assistere a questospettacolo in un serai, sotto l'ombra di magnifici alberi, e con lascenografia naturale costituita dal personale della carovana. Sarebbestato meglio certamente del palcoscenico di un teatro ristretto, con le

quinte di tela dipinta, le strisce di falso verde e le poche comparse.Comunicai il mio pensiero ai miei compagni, i quali, pur

condividendo il mio desiderio, non credettero che potesse realizzarsi. — Il rajah di Guzarate, — mi disse Banks, — è un indipendente

che si è appena sottomesso, dopo la rivolta dei Cipay, durante laquale la sua condotta è stata per lo meno ambigua. Egli non amaaffatto gli inglesi, e suo figlio non farà nulla per farci piacere.

 — Ebbene, faremo a meno delle sue nautch! — rispose il capitanoHod con una sdegnosa alzata di spalle.

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stava per mettere in moto. Poi, dopo averlo esaminato, non senza uncerto senso di curiosità, benché non volesse lasciarlo vedere:

 — Chi ha costruito questa macchina? — domandò a Storr.Il macchinista mostrò l'ingegnere, che ci aveva raggiunti e stava a

 pochi passi.Il principe Guru Singh si esprimeva facilmente in inglese, e,

rivolgendosi a Banks: — Siete voi che avete?... — disse a labbra strette. — Sono io che ho! — rispose Banks. — Mi hanno detto che è stato un capriccio del defunto rajah di

Buthan. Banks fece un cenno affermativo con il capo. — A che cosa serve, — riprese Sua Altezza, con una scortese

alzata di spalle, — a che serve farsi trascinare da una macchinaquando si hanno al proprio servizio degli elefanti di carne e d'ossa?

 — Beh, probabilmente, questo elefante è più potente di tutti quellidi cui il defunto rajah si serviva.

 — Oh! — disse Guru Singh, allungando sdegnosamente le labbra — più potente!...

 — Infinitamente di più! — rispose Banks.

 — Non uno dei vostri, — disse allora il capitano Hod, al qualequel modo di fare dava estremamente fastidio, — non uno dei vostrisarebbe capace di far muovere una zampa a questo elefante, se non lovolesse.

 — Voi dite?... — disse il principe. — Il mio amico afferma, ribatté l'ingegnere, — e anch'io lo

affermo con lui, che questo animale artificiale potrebbe resistere allatrazione di dieci coppie di cavalli, e che i vostri tre elefanti, attaccati

insieme, non riuscirebbero a farlo indietreggiare di un passo. — Non lo credo affatto, — rispose il principe. — Avete torto a non crederlo affatto, — replicò il capitano Hod. — E quando Vostra Altezza vorrà spendere, — aggiunse Banks

 — mi impegno a fornirgliene uno che avrà la forza di venti elefantiscelti fra i migliori delle sue scuderie!

 — Cose che si dicono, — disse molto seccamente Guru Singh.

 — E che si fanno, — rispose Banks.

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erano aggrottate per un istante, e mi domandai se egli non avesse presunto troppo dalla potenza meccanica della sua macchina.

Quanto al capitano Hod, era raggiante, si fregava le mani, eavanzando verso l'elefante:

 — Attento, Gigante d'Acciaio! — esclamò. — Si tratta di lavorare per l'onore della nostra vecchia Inghilterra!

Tutti i nostri uomini si erano schierati su uno dei lati della via. Uncentinaio di indù avevano lasciato l'accampamento del serai eaccorrevano per assistere alla lotta che si preparava.

Banks ci aveva lasciati per salire nella torretta, accanto a Storr, ilquale, con un tiraggio forzato, attivava il forno lanciando un getto divapore attraverso la proboscide del Gigante d'Acciaio.

Frattanto, a un cenno del principe Guru Singh, alcuni dei suoiservitori erano andati al serai, e riconducevano i tre elefanti,sbarazzati di tutta la loro bardatura da viaggio. Erano tre magnificianimali, originari del Bengala, e di statura più alta di quelli dell'Indiameridionale. Quei superbi animali, in tutta la forza dell'età, miispirarono una specie di inquietudine.

I mahout, aggrappati sul loro enorme collo, li dirigevano con la

mano e li incitavano con la voce.Quando quegli elefanti passarono davanti a Sua Altezza, il piùgrande dei tre, un vero gigante della specie, si fermò, piegò leginocchia anteriori, alzò la proboscide e salutò il principe dacortigiano ben educato. Poi, i suoi due compagni e lui siavvicinarono al Gigante d'Acciaio che sembrarono guardare constupore misto a un po' di paura.

Forti catene di ferro furono allora fissate sul piano del tender alle

 barre d'attacco nascoste nella parte posteriore del nostro elefante.Confesso che mi batteva il cuore. Quanto al capitano Hod, si

mordeva i baffi e non poteva star fermo.Il colonnello Munro era calmo quanto il principe Guru Singh,

direi anzi di più. — Siamo pronti, — disse l'ingegnere. — Quando Vostra Altezza

desidera...

 — Va bene, — rispose il principe.

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Quanto al principe, non meno irritato che vergognoso, se ne eraandato senza nemmeno aspettare la fine della prova.

I tre elefanti vennero allora staccati. Si rialzarono, visibilmenteumiliati della loro disfatta. Quando ripassarono davanti al Gigante

d'Acciaio, il più grande, nonostante il suo cornac, non potétrattenersi dal piegare le ginocchia e dal salutare con la proboscide,così come aveva fatto davanti al principe Guru Singh.

Un quarto d'ora dopo, un indù, il kàmdar o segretario di SuaAltezza, giungeva al nostro accampamento e consegnava alcolonnello un sacco contenente diecimila rupie, l'ammontare dellascommessa perduta.

Il colonnello Munro prese il sacco e gettandolo sdegnosamente: — Per il seguito di Sua Altezza! — disse.Poi, si diresse tranquillamente verso la Steam-House. Non si poteva dare una lezione migliore al principe arrogante, che

ci aveva provocato così sdegnosamente.Frattanto, poiché il Gigante d'Acciaio era stato attaccato, Banks

diede subito il segnale della partenza, e fra un enorme concorso diindù attoniti, il nostro treno parti a gran velocità.

Delle grida lo salutarono al passaggio, e ben presto avevamo perduto di vista, a una svolta della strada, il serai del principe GuruSingh.

Il giorno seguente, la Steam-House cominciò a salire le prime pendenze che congiungono la pianura alla base della frontierahimalayana.

Fu uno scherzo per il nostro Gigante d'Acciaio, al quale gli ottantacavalli-vapore chiusi nei suoi fianchi avevano permesso di lottare

senza alcun fastidio contro i tre elefanti del principe Guru Singh.Esso si inerpicò dunque facilmente sulle strade in salita di questaregione, senza che fosse necessario aumentare la pressione normaledel vapore.

Per la verità, era uno spettacolo bizzarro vedere il colosso,vomitante fasci di scintille, che trascinava, con barriti meno precipitati ma più prolungati, i due vagoni che salivano su per il

tracciato a zig-zag delle strade. I cerchioni rigati delle ruote striavanoil suolo la cui pavimentazione strideva cedendo. Bisogna pur

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confessarlo, il nostro pesante animale si lasciava dietro delle profonde carreggiate e danneggiava la strada, già inzuppata dalle piogge torrenziali.

Ad ogni modo, a poco a poco la Steam-House saliva, il panorama

si allargava alle nostre spalle, la pianura si abbassava, e, vèrso sud,l'orizzonte, svolgendosi su un perimetro più largo, indietreggiava a perdita d'occhio.

L'effetto prodotto era ancora più sensibile quando, per qualcheora, la strada si cacciava sotto gli alberi di una folta foresta. Allora,quando qualche ampia radura si apriva come un'immensa finestrasulla groppa della montagna, il treno si fermava, un attimo appena, sequalche nebbia umida oscurava il paesaggio, una mezza giornata, seil paesaggio si disegnava più nitidamente agli sguardi. E tutti equattro, con i gomiti appoggiati alla balaustra della veranda posteriore, ce ne stavamo a contemplare lungamene il magnifico panorama che si svolgeva sotto i nostri occhi.

Questa ascensione, intervallata da soste più o meno prolungate,secondo il caso, interrotta dagli accampamenti notturni, non duròmeno di sette giorni, dal 19 al 25 giugno.

 — Con un po' di pazienza, — diceva il capitano Hod, — il nostrotreno salirebbe fino alle più alte vette dell'Himalaya! — Non tanta ambizione, capitano, — rispondeva l'ingegnere. — Credete, Banks, lo farebbe! — Sì, Hod, lo farebbe, se la strada praticabile non venisse ben

 presto a mancargli, e a condizione di portare con sé del combustibile,che non troverebbe più sui ghiacciai, e dell'aria respirabile, che glimancherebbe a duemila tese d'altezza. Ma a noi non interessa affatto

di superare la zona abitabile dell'Himalaya. Quando il Giganted'Acciaio avrà raggiunto l'altezza media dei sanitarium, si fermerà inqualche bella località, sul ciglio di una foresta montana, in un climarinfrescato dagli strati superiori dell'atmosfera.

Il nostro amico Munro avrà trasferito il suo bungalow da Calcuttanelle montagne del Nepal, ecco tutto, e vi soggiorneremo fintantoche egli vorrà.

Questo luogo di sosta, dove dovevamo accamparci per alcunimesi, venne trovato fortunatamente nella giornata del 25 giugno. Da

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quarantotto ore, la strada diventava sempre meno praticabile, sia cheavesse un fondo costruito meno bene, sia che le piogge l'avesseroguastata. Il Gigante d'Acciaio dovette «sudare», come si dicevolgarmente, ma se la cavò consumando un po' più di combustibile.

Alcuni pezzi di legno, aggiunti nel forno di Kâlouth, bastavano adaumentare la pressione del vapore. Ma non fu mai necessario caricarele valvole, la cui farfalla non lasciava sfuggire il fluido che sotto una pressione di sette atmosfere, pressione che non venne superata.

Da quarantotto ore, poi, il nostro treno si avventurava su unterritorio pressappoco deserto. Di borgate o villaggi, non se neincontravano più. Appena qualche abitazione isolata, talvolta unafattoria, perduta in quelle grandi foreste di pini che rendono irta lagroppa meridionale dei contrafforti. Tre o quattro volte, dei rarimontanari ci salutarono con interiezioni ammirative. Nel vederequella macchina meravigliosa arrampicarsi sulla montagna, non eralecito che credessero che Brahma si concedesse il capriccio ditrasportare tutta una pagoda su qualche altura inaccessibile dellafrontiera nepalese?

Finalmente, in quella giornata del 25 giugno, Banks ci gettò

un'ultima volta la parola: «Alt!» che poneva termine alla prima partedel nostro viaggio nell'India settentrionale. Il treno si fermava inun'ampia radura, vicino a un torrente, la cui acqua limpida doveva bastare a tutte le necessità di un accampamento per qualche mese. Daquel punto, lo sguardo poteva abbracciare la pianura su un perimetrodi cinquanta o sessanta miglia.

La Steam-House si trovava allora a trecentoventicinque leghe dalsuo punto di partenza, a duemila metri circa sopra il livello del mare,

e ai piedi di quel Dawalaghiri, la cui vetta si perdeva aventicinquemila piedi nell'aria.

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C  APITOLO XV

 IL «PÀL»  DI  TANDÎT

DOBBIAMO lasciare per un poco il colonnello Munro e i suoicompagni: l'ingegner Banks, il capitano Hod, il francese Maucler, einterrompere per qualche pagina il racconto di questo viaggio, la

 prima parte del quale comprende l'itinerario da Calcutta alla frontieraindocinese e termina alla base delle montagne del Tibet.Si ricorderà l'incidente che era accaduto al passaggio della Steam-

House da Allahabad. Un numero del giornale cittadino, recante ladata del 25 maggio, aveva informato il colonnello Munro della mortedi Nana Sahib. Questa notizia, spesso diffusa e sempre smentita,questa volta era vera? Sir Edward Munro, con dei particolari così precisi, poteva dubitare ancora, e non doveva finalmente rinunciare a

farsi giustizia del ribelle del 1857?Se ne giudicherà.Ecco quanto era accaduto dopo quella notte tra il 7 e l’8 marzo,

nella quale Nana Sahib, accompagnato da suo fratello Balao Rao,scortato dai suoi più fedeli compagni d'armi, e seguito dall'indianoKâlagani, aveva lasciato le grotte di Adjuntah.

Sessanta ore più tardi, il nababbo giungeva alle strette gole deimonti Sautpurra dopo avere attraversato il Tapi, che va a gettarsisulla costa occidentale della penisola, presso Surate. Egli era allora acento miglia da Adjuntah, in una zona poco frequentata della provincia, il che, per il momento, gli garantiva una certa sicurezza.

Il luogo era scelto bene.I monti Sautpurra, di media altezza, dominano verso sud il bacino

del Nerbudda, il cui limite settentrionale è coronato dai montiVindhya. Queste due catene, correndo quasi parallele l'una all'altra,

intersecano le loro ramificazioni, e offrono, in questo paeseaccidentato, dei rifugi difficili da scoprire. Ma se i Vindhya,

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all'altezza del 23° grado di latitudine, tagliano l'India quasiinteramente da ovest a est, formando uno dei lati maggiori deltriangolo centrale della penisola, non è così dei Sautpurra, che nonsuperano il 75° grado di longitudine, e vengono a congiungervisi nel

monte Kaligong.Là, Nana Sahib si trovava all'ingresso del paese dei Gound,

temibili tribù di quei popoli di vecchia razza, non ancora benassoggettati, che egli voleva indurre alla rivolta.

Un territorio di duecento miglia quadrate, una popolazione di oltretre milioni d'abitanti, questo è il paese del Gondwana, di cui il signorRousselet considera gli abitanti come autoctoni e nel quale i fermentidi ribellione sono sempre all'ordine. È questa una parte importantedell'Indostan, e, a dire la verità, non è che nominalmente sotto ildominio inglese. La ferrovia Bombay-Allahabad attraversa si questaregione da sud-ovest a nord-est, getta anzi un tronco fino al centrodella provincia di Nagpore, ma le tribù sono rimaste selvagge,refrattarie a ogni idea di civilizzazione, insofferenti del giogoeuropeo, insomma, difficilissime da sottomettere nelle loromontagne, e Nana Sahib lo sapeva bene.

Era dunque là che egli aveva voluto inizialmente cercare rifugio, per sfuggire alle ricerche della polizia inglese, aspettando l'ora di provocare il movimento insurrezionale.

Se il nababbo fosse riuscito nella propria impresa, se i Goundfossero insorti alla sua voce e lo avessero seguito, la ribellioneavrebbe potuto prendere rapidamente una grande estensione.

Infatti, a nord del Gondwana, c'è il Bundelkund, che comprendetutta la regione montuosa situata fra l'altipiano superiore dei Vindhya

e l'importante corso d'acqua Jumna. In questo paese, coperto omeglio irto delle più belle foreste vergini dell'Indostan, vive un popolo di Boundelas, astuto e crudele, presso il quale tutti i criminali, politici o di altra natura, cercano volentieri e trovano facilmente unrifugio; là si ammassa una popolazione di due milioni e mezzo diabitanti su una superficie di ventottomila chilometri quadrati; là, le province sono rimaste barbare; là vivono ancora alcuni di quei vecchi

 partigiani che lottarono contro gli invasori sotto Tippo Sahib; là sononati i celebri strangolatori Thug, che furono per tanto tempo il terrore

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liberamente in tutta la presidenza. Balao Rao, che non era preso dimira dal manifesto del governatore, avrebbe potuto godere anch'eglidella stessa immunità, se non fosse stato per la sua somiglianza con ilfratello. Dopo la sua fuga, fino alle frontiere del Nepal, l'attenzione

non era più stata richiamata sulla sua persona, e c'erano tutte leragioni per crederlo morto. Ma, preso per Nana Sahib, sarebbe statoarrestato, cosa che bisognava evitare ad ogni costo.

Perciò dunque, per quei due fratelli uniti nello stesso pensiero,diretti a un identico scopo, era necessario un unico rifugio. Quanto altrovarlo, non doveva essere né lungo né difficile in quelle gole deimonti Sautpurra.

E infatti, il rifugio fu subito indicato da uno degli indù deldrappello, un Gound, che conosceva la vallata fin nei suoi più profondi recessi.

Sulla riva destra di un piccolo affluente del Nerbudda, si trovavaun pâl abbandonato, che si chiamava il pâl di Tandît.

Il  pâl è meno di un villaggio, è appena un minuscolo paese, ungruppo di capanne, spesso addirittura un'abitazione isolata. Lafamiglia nomade che lo occupa è venuta a stabilirvisi

temporaneamente. Dopo aver bruciato qualche albero, le cui cenericoncimano il terreno per una breve stagione, il Gound ed i suoi sisono costruiti la casa. Ma, siccome il paese è tutt'altro che sicuro, lacasa ha preso l'aspetto di un fortino. La circonda una palizzata, ed èin grado di difendersi contro una sorpresa. Del resto, nascosta inqualche fitta macchia, sepolta, per così dire, sotto una pergola dicactus e di cespugli, non è facile scoprirla.

Per lo più, il pâl si trova in cima a qualche monticello, sul pendio

di una valle stretta, fra due contrafforti scoscesi, in mezzo a fustaieimpenetrabili. Pare impossibile che delle creature umane abbiano potuto cercarvi rifugio. Niente strade che vi conducano; nessunatraccia di sentieri che vi diano accesso. Per giungervi, bisognatalvolta risalire il letto scosceso di un torrente, la cui acqua cancellaogni impronta. Chi lo supera, non lascia impronte dietro di sé: nellastagione calda, vi si entra fino alla caviglia, nella stagione fredda fino

al ginocchio, e nulla indica che un essere vivente vi sia passato.Inoltre, una valanga di rocce che la mano di un fanciullo basterebbe a

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far precipitare, schiaccerebbe chiunque tentasse di giungere al  pâlcontro il volere dei suoi abitanti.

Pure, per quanto siano isolati nei loro recessi inaccessibili, iGound possono comunicare rapidamente di pâl in pâl. Dalla sommità

delle giogaie diseguali dei Sautpurra, i segnali si propagano in pochiminuti per venti leghe di paese. Ora è un fuoco acceso sulla vetta diun picco aguzzo, ora è un albero trasformato in torcia gigantesca, oraun semplice fumo che impennacchia la vetta di un contrafforte. Si sache cosa significano questi segnali. Il nemico, ossia un distaccamentodi soldati dell'esercito reale, un drappello di agenti della poliziainglese, è penetrato nella valle, risale il corso del Nerbudda, fruganelle gole della catena, in cerca di qualche malfattore, al quale questo paese offre volentieri rifugio. Il grido di guerra, così familiareall'orecchio dei montanari, diventa grido di allarme. Uno straniero loconfonderebbe con l'ululato degli uccelli notturni o con il fischio deirettili. Il Gound, invece, non si sbaglia. Bisogna vegliare, si veglia; bisogna fuggire, si fugge. I  pâl sospetti vengono abbandonati,talvolta anzi bruciati. Questi nomadi si rifugiano in altri recessi, cheabbandoneranno ancora, se sono serrati troppo da vicino, e su quei

terreni coperti di cenere, gli agenti dell'autorità non trovano più cherovine.Era a uno di questi pâl - il pâl di Tandît - che Nana Sahib e i suoi

erano venuti a chiedere rifugio. Li aveva condotti direttamente là ilfedele Gound devoto al nababbo. Essi arrivarono là nella giornata del12 marzo.

Prima preoccupazione dei due fratelli, appena ebbero preso possesso del  pâl di Tandît, fu di riconoscerne con cura i dintorni.

Essi osservarono in quale direzione e a quale distanza lo sguardo si poteva spingere, si fecero indicare quali erano le abitazioni piùvicine, si informarono circa coloro che le occupavano. Studiarono la posizione di quella cresta isolata, sormontata dal  pâl di Tandît, inmezzo a una macchia di alberi, e si resero infine contodell'impossibilità di penetrarvi, senza seguire il letto di un torrente, iltorrente di Nazzur, che avevano risalito essi stessi.

Il  pâl di Tandît offriva dunque tutte le condizioni di sicurezza,tanto più che si elevava sopra un sotterraneo le cui uscite segrete si

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aprivano sul fianco del contrafforte, e all'occorrenza permettevano difuggire.

 Nana Sahib e suo fratello non avrebbero potuto trovare un rifugio più sicuro.

Ma a Balao Rao non bastava sapere che cosa fosse al momento il pâl di Tandît, egli voleva conoscere che cosa era stato, e, mentre ilnababbo visitava l'interno del fortino, egli continuò a interrogare ilGound.

 — Alcune domande ancora, — gli disse. — Da quanto tempo èabbandonato questo pâl? 

 — Da più di un anno, — rispose il Gound. — Chi lo abitava? — Una famiglia di nomadi, che vi è rimasta solo pochi mesi. — Perché lo hanno lasciato? — Perché il terreno, destinato a nutrirli, non poteva più assicurare

loro il nutrimento. — E dopo la loro partenza, nessuno, che tu sappia, vi ha cercato

rifugio? — Nessuno.

 — Nessun soldato dell'esercito reale, nessun agente di polizia hamai messo piede nel recinto di questo pâl?  — Mai. — Nessuno straniero lo ha visitato? — Nessuno... — rispose il Gound, — tranne una donna. — Una donna? — rispose vivamente Balao Rao. — Sì, una donna, che, da circa tre anni, vaga nella valle del

 Nerbudda.

 — Chi è questa donna? — Chi sia, lo ignoro, — rispose il Gound, — di dove venga, non

 posso dirlo, ed in tutta la valle, nessuno ne sa più di me sul suoconto! È una straniera, è un'indù? Non si è mai potuto saperlo!

Balao Rao rifletté un istante; poi riprese: — Che cosa fa questa donna? — Va, viene, — rispose il Gound. — Vive unicamente di

elemosine. In tutta la valle, si ha per lei una specie di venerazionesuperstiziosa. Molte volte, l'ho ricevuta nel mio  pâl.  Non parla mai.

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Si potrebbe credere che sia muta, e non mi meraviglierei che lo fosse.La notte, la si vede passeggiare, con in mano un ramo resinosoacceso. Perciò non la si conosce che con il nome di «FiammaErrante»!

 — Ma, — disse Balao Rao, — se questa donna conosce il  pâl diTandît, non può tornarci mentre noi lo occupereremo, e noi nonabbiamo nulla da temere di lei?

 — Nulla, — rispose il Gound. — Questa donna ha perduto laragione. La testa non le appartiene più; i suoi occhi non guardanoquello che vedono; le sue orecchie non ascoltano quello che sentono;la sua lingua non sa più pronunciare una parola. È come se fossecieca, sorda, muta, per tutte le cose esterne. È una pazza, e una pazzaè una morta che continua a vivere!

Il Gound, con quel linguaggio proprio degli indù delle montagneaveva fatto il ritratto di una strana creatura, conosciutissima nellavalle, la «Fiamma Errante» del Nerbudda.

Era una donna, il cui viso pallido, ancora bello, invecchiato e nonvecchio, ma privo di qualsiasi espressione, non indicava né l'originené l'età. Si sarebbe detto che i suoi occhi smarriti si fossero chiusi

alla vita intellettuale su qualche scena spaventosa che continuavano avedere «dal di dentro».A questa creatura inoffensiva e priva della ragione, i montanari

avevano fatto buona accoglienza. I pazzi, per questi Gound, come pertutti i popoli selvaggi, sono esseri sacri protetti da un rispettosuperstizioso. Perciò la Fiamma Errante era ricevuta ospitalmentedovunque ella si presentava. Nessun  pâl le chiudeva la porta. La sinutriva quando aveva fame, le si dava un giaciglio quando cadeva di

stanchezza, senza aspettare una parola di ringraziamento che la sua bocca non poteva più pronunciare.

Da quanto tempo durava quell'esistenza? Di dove veniva quelladonna? In quale periodo era apparsa nel Gondwana? Sarebbe statodifficile dirlo con precisione. Perché passeggiava con una fiamma inmano? Era per guidare i propri passi? Era per allontanare le belve?non si sarebbe potuto dire. Le accadeva di sparire per dei mesi interi.

Che ne era allora? Lasciava forse le gole dei monti Sautpurra perquelle dei Vindhya? Si smarriva al di là del Nerbudda, fino nel

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Malwa o nel Bundelkund? Nessuno lo sapeva. Più d'una volta, la suaassenza si era prolungata tanto, che si poté credere che la sua tristevita avesse avuto termine. Ma no! La si vedeva ritornare, sempreuguale, senza che né la fatica né la malattia né la miseria sembrassero

avere logorato la sua natura, in apparenza così fragile.Balao Rao aveva ascoltato l'indù con grande attenzione.

Continuava ancora a domandarsi se non vi fosse un qualche pericolonel fatto che la Fiamma Errante conoscesse il  pâl di Tandît, che viavesse già cercato rifugio, che il suo istinto potesse ricondurvela.

Ritornò dunque su questo punto, e domandò al Gound se lui o isuoi sapevano dove si trovasse ora quella pazza.

 — Lo ignoro, — rispose il Gound. — Sono più di sei mesi chenessuno l'ha rivista nella valle. Perciò è possibile che sia morta. Ma poi, se anche riapparisse e ritornasse al pâl di Tandît, non vi sarebbenulla da temere dalla sua presenza. Non è che una statua vivente; nonvi vedrebbe, non vi ascolterebbe, non saprebbe chi siete. Entrerebbe,si siederebbe al vostro focolare, per un giorno, per due giorni, poiriaccenderebbe la sua torcia spenta, vi lascerebbe e ricomincerebbe avagare di casa in casa. Questa è tutta la sua vita. Del resto, la sua

assenza si prolunga tanto questa volta, che è probabile che non ritornimai. Colei che era già morta di spirito deve ormai essere morta anchedi corpo.

Balao Rao non credette di dover parlare di questo incidente a Nana Sahib, ed egli stesso non gli diede ben presto più nessunaimportanza.

Un mese dopo il loro arrivo al  pâl di Tandît, il ritorno dellaFiamma Errante non era stato segnalato nella valle del Nerbudda.

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C  APITOLO XVI

 LA FIAMMA ERRANTE

PER UN mese intero, dal 12 marzo al 12 aprile, Nana Sahib rimasenascosto nel  pâl. Egli voleva dare alle autorità inglesi il tempo od'abbandonare le ricerche, o di mettersi su qualche falsa pista.

Se, durante il giorno, i due fratelli non uscivano, i loro fedeli percorrevano la vallata, visitavano i villaggi e i casali, annunciavanocon parole velate la prossima apparizione di un «formidabile moniti»,metà dio e metà uomo, e preparavano gli spiriti a un'insurrezionenazionale.

Venuta la notte, Nana Sahib e Balao Rao si arrischiavano alasciare il loro covo, avventurandosi fin sulle rive del Nerbudda.Andavano di villaggio in villaggio, di  pâl in  pâl, aspettando l'ora

nella quale avrebbero potuto percorrere con una certa sicurezza ildominio dei rajah infeudati agli inglesi. Nana Sahib sapeva, del resto,che molti semindipendenti, insofferenti del giogo straniero, sisarebbero uniti a lui. Ma, per il momento, non si trattava che delle popolazioni selvagge del Gondwana.

Questi Bhîl barbari, questi Kound nomadi, questi Gound, non piùcivili degli indigeni delle isole del Pacifico, il Nana li trovò tutti pronti a insorgere, tutti pronti a seguirlo. Se, per prudenza, egli non sidiede a conoscere che a due o tre potenti capi tribù, ciò bastò a provargli che il suo solo nome avrebbe trascinato molti milioni diquegli indù, che sono sparsi sull'altipiano centrale dell'Indostan.

Quando i due fratelli erano rientrati al  pâl di Tandît, si rendevanoconto a vicenda di ciò che avevano udito, visto, fatto. Allora i lorocompagni li raggiungevano, portando da ogni parte la notizia che lospirito di ribellione soffiava come un vento di tempesta nella valle

del Nerbudda. I Gound non chiedevano che di lanciare il kisri, il

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grido di guerra dei montanari, e di precipitarsi sugli accantonamentimilitari della presidenza.

Il momento non era ancora venuto. Non sarebbe bastato, infatti, che tutta la regione compresa fra i

monti Sautpurra e i Vindhya fosse in fuoco. Bisognava anche chel'incendio potesse estendersi sempre più. Era dunque necessarioammucchiare gli elementi infiammabili nelle province vicine al Nerbudda, che erano più direttamente sotto le autorità inglesi. Diogni città, di ogni borgata del Bhopal, del Malwa, del Bundelkund, edi tutto quell'ampio regno di Scindia, bisognava fare un immensofocolare, pronto ad accendersi. Ma Nana Sahib, con ragione, voleva prendere su di sé la cura di visitare gli antichi partigianidell'insurrezione del 1857, tutti quegli indigeni che, rimasti fedelialla sua causa e non avendo mai creduto alla sua morte, siaspettavano di vederlo ricomparire di giorno in giorno.

Un mese dopo il suo arrivo al  pâl di Tandît, Nana Sahib credettedi poter agire in tutta sicurezza. Pensò che il fatto della suariapparizione nella provincia fosse stato riconosciuto falso. Alcunifidi lo tenevano informato di tutto quanto aveva fatto il governatore

della presidenza di Bombay per effettuare la sua cattura. Egli sapevache, nei primi giorni, le autorità si erano dedicate alle ricerche piùattive, ma senza risultato. Il pescatore di Aurangabad, l'ex prigionierodel Nana, era caduto sotto il pugnale, e nessuno aveva potutosospettare che il fachiro fuggitivo fosse il nababbo Dandu-Pand, sullatesta del quale era stata messa una taglia. Una settimana dopo, ledicerie cessarono, gli aspiranti al premio di duemila sterline perseroogni speranza, e il nome di Nana Sahib ricadde nell'oblio.

Il nababbo poté dunque agire personalmente, e, senza timore diessere riconosciuto, ricominciare la sua campagna insurrezionale.Ora sotto le vesti di un parsi, ora sotto quelle d'un semplice raiot, ungiorno da solo, un altro accompagnato da suo fratello, egli cominciòad allontanarsi dal  pâl di Tandît, a risalire verso il nord, sull'altrasponda del Nerbudda, e anche al di là del versante settentrionale delVindhya.

Una spia, che avesse voluto seguirlo in tutte le sue mosse, loavrebbe trovato a Indore, fin dal 12 aprile.

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In questa capitale del regno di Holcar, Nana Sahib, purconservando il più stretto incognito, si mise in contatto con lanumerosa popolazione rurale, addetta alla coltivazione dei campi di papaveri. Erano dei Rihilla, dei Mèkrani, dei Valayali, ardenti,

coraggiosi, fanatici, per lo più Cipay disertori dell'esercito indigeno,che si nascondevano sotto le vesti del contadino indù.

Poi, Nana Sahib passò il Betwa, affluente del Jumna, che correverso nord, sulla frontiera occidentale del Bundelkund, e il 19 aprile,attraversando una magnifica valle nella quale le palme da dattero e imanghi si moltiplicavano a profusione, giungeva a Suari.

Là sorgono alcune curiose costruzioni antichissime. Sono deitôpes, specie di tumuli sormontati da cupole emisferiche, cheformano il gruppo principale di Saldhara, nella parte settentrionaledella valle. Da questi monumenti funebri, da queste abitazioni deimorti, i cui altari, dedicati ai riti buddistici, sono riparati sotto dei baldacchini di pietra, da queste tombe vuote da tanti secoli, uscirono,alla voce di Nana Sahib, centinaia di fuggitivi. Nascosti in quellerovine per sfuggire alle terribili rappresaglie degli inglesi, bastò una parola per far comprendere loro ciò che il nababbo si aspettava dal

loro concorso: sarebbe bastato un cenno, quando fosse venuta l'ora per gettarli in massa sugli invasori.Il 24 aprile, Nana Sahib era a Bhîlsa, capoluogo di un distretto

importante del Malwa, e, nelle rovine dell'antica città, egli radunavadegli elementi di ribellione che la nuova non gli avrebbe fornito.

Il 27 aprile, Nana Sahib giunse a Raygurh, vicino alla frontiera delregno di Pannah, ed il 30, ai ruderi della vecchia città di Sangor, nonlontano dal luogo in cui il generale sir Hugh Rose diede contro gli

insorti una sanguinosa battaglia, che lo rese padrone del colle diMandapore, la chiave delle gole dei Vindhya.

Là, il nababbo fu raggiunto da suo fratello, accompagnato daKâlagani, ed entrambi si fecero conoscere ai capi delle principalitribù, di cui erano assolutamente sicuri. In quei conciliaboli furonodiscussi e stabiliti i preliminari di un'insurrezione generale. Mentre Nana Sahib e Balao Rao avrebbero agito a sud, i loro alleati

dovevano manovrare sul versante settentrionale dei Vindhya.

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Prima di ritornare nella valle del Nerbudda, i due fratelli vollerovisitare anche il regno di Pannah. Si spinsero lungo il Keyne, sotto lavolta di tek giganteschi, di bambù colossali, protetti da quelleinnumerevoli piante che si moltiplicano, le quali sembrano destinate

a invadere tutta quanta l'India. Là furono arruolati numerosi e ferociadepti fra il miserabile personale che sfrutta, per conto del rajah, lericche miniere di diamanti del territorio. Questo rajah, dice il signorRousselet, «comprendendo la posizione che fa il dominio inglese ai principi del Bundelkund ha preferito la parte del ricco proprietario aquella di un insignificante principotto». Ricco proprietario, lo èdavvero! La regione diamantifera che possiede si stende per unalunghezza di trenta chilometri a nord di Pannah, e il traffico delle sueminiere di diamanti, le più stimate sui mercati di Bénares e diAllahabad, occupa un gran numero di indù. Ma fra questi disgraziati,sottoposti ai lavori più duri e che il rajah fa decapitare appenadiminuisce la rendita della miniera, Nana Sahib doveva trovaremigliaia di partigiani, pronti a farsi uccidere per l'indipendenza delloro paese, e li trovò.

Partendo da questo punto, i due fratelli ridiscesero verso il

 Nerbudda per ritornare al  pâl di Tandît. Tuttavia, prima di andare a provocare l'insurrezione del sud, che doveva coincidere con quelladel nord, vollero fermarsi a Bhopal. Si tratta di un'importante cittàmusulmana, che è rimasta la capitale dell'islamismo nell'India, e lacui begum rimase fedele agli inglesi durante tutto il periodoinsurrezionale.

 Nana Sahib e Balao Rao, accompagnati da una dozzina di Gound,giunsero a Bhopal il 24 maggio, ultimo giorno delle feste del

Moharum, istituite per celebrare il rinnovamento dell'annomusulmano. Entrambi avevano indossato i cenci dei  joguis, sinistrimendicanti religiosi armati di lunghi pugnali a lama arrotondata, coni quali si feriscono per fanatismo, ma senza gran male né pericolo.

I due fratelli, irriconoscibili sotto quel travestimento, avevanoseguito la processione per le vie della città, in mezzo ai numerosielefanti, che portavano sul dorso dei tadzias, specie di tempietti alti

venti piedi; avevano potuto mescolarsi con i musulmani, riccamentevestiti di tuniche ricamate d'oro, e con in capo dei tocchi di mussola;

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si erano confusi nelle schiere dei suonatori, dei soldati, delle baiadere, dei giovani travestiti da donna, gruppi bizzarri che davanoa quella cerimonia un aspetto carnevalesco. Con quegli indù di ognigenere, fra i quali essi avevano numerosi fedeli, avevano potuto

scambiare una specie di segno massonico, familiare agli antichiribelli del 1857.

Venuta la sera, tutta quella gente si era recata verso il lago, che bagna il sobborgo orientale della città.

Là, fra grida assordanti, spari di armi da fuoco, scoppi di petardi,alla luce di migliaia di torce, tutti quei fanatici gettarono i tadziasnelle acque del lago. Le feste del Moharum erano finite.

In quel momento, Nana Sahib sentì una mano posarsi sulla suaspalla. Si voltò. Un bengalese gli stava accanto.

 Nana Sahib riconobbe in quell'indù uno dei suoi vecchi compagnid'armi di Lucknow. Lo interrogò con lo sguardo.

Il bengalese si limitò a mormorare le seguenti parole che NanaSahib udì senza che un gesto tradisse la sua emozione:

 — Dov'è? — Ieri era a Bénares.

 — Dove va? — Alla frontiera del Nepal. — Per quale motivo? — Per soggiornarvi per qualche mese. — E poi?... — Ritornare a Bombay.Echeggiò un fischio; un indù, cacciandosi nella folla, giunse

vicino a Nana Sahib. Era Kâlagani.

 — Parti subito, — disse il nababbo. — Raggiungi Munro cherisale verso nord. Stagli accanto. Imponiti rendendo qualche servizio,e rischia la vita, se occorre. Non lasciarlo prima che sia ridisceso aldi là dei Vindhya, fino alla valle del Nerbudda. Allora, ma allorasoltanto, vieni ad avvertirmi della sua presenza.

Kâlagani si accontentò di rispondere con un cenno affermativo, escomparve nella folla. Un cenno del nababbo era un ordine per lui.

Dieci minuti dopo, aveva lasciato Bhopal.In quel momento, Balao Rao si avvicinò al fratello.

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 — È tempo di partire, — gli disse. — Sì, — rispose Nana Sahib, — e bisogna che prima dell'alba

siamo al pâl di Tandît. — Andiamo.

Entrambi, seguiti dai loro Gound, risalirono la riva settentrionaledel lago fino a una fattoria isolata. Là, li aspettavano dei cavalli, perloro e per la loro scorta. Erano di quei cavalli veloci, ai quali si dà unnutrimento misto a droghe, e che possono fare cinquanta miglia inuna sola notte. Alle otto, galoppavano sulla via che da Bhopal portaai Vindhya.

Se il nababbo voleva giungere prima dell'alba al pâl di Tandît, erasolo per misura di prudenza. Infatti era meglio che il suo ritorno nellavalle passasse inosservato.

Il piccolo drappello camminò dunque velocissimamente. Nana Sahib e Balao Rao, l'uno accanto all'altro, non parlavano,

ma lo stesso pensiero occupava la loro mente. Da quell'escursione aldi là dei Vindhya, essi riportarono più che la speranza, la certezzache innumerevoli partigiani si univano alla loro causa. L'altipianocentrale dell'India era interamente nelle loro mani. Gli

accantonamenti militari, ripartiti su quell'ampio territorio, nonavrebbero potuto resistere ai primi assalti degli insorti. La lorodistruzione avrebbe lasciato libero il posto alla rivolta, che nonavrebbe tardato a sollevare da una costa all'altra tutta una barriera diindù fanatici, contro la quale sarebbe venuto a rompersi l'esercitoreale.

Ma, nello stesso tempo, Nana Sahib pensava a quel caso fortunatoche stava per consegnargli Munro. Il colonnello aveva finalmente

lasciato Calcutta, dove era difficile colpirlo. Ormai nessuno dei suoimovimenti sarebbe sfuggito al nababbo. Senza che egli potessedubitarne, la mano di Kâlagani lo avrebbe guidato verso la selvaggiaregione dei Vindhya, e là nessuno avrebbe potuto sottrarlo alsupplizio che gli riservava l'odio di Nana Sahib.

Balao Rao non sapeva ancora nulla di quanto era stato detto fra il bengalese e suo fratello. Fu solo nelle vicinanze del  pâl di Tandît,

mentre i cavalli respiravano un istante, che Nana Sahib si limitò afarglielo sapere con queste parole:

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 — È lui, — risposero due soldati del distaccamento che, essendostati di guarnigione a Cawnpore, conoscevano perfettamente ilnababbo.

 — E ora agli altri! — gridò l'ufficiale.

E tutto il distaccamento si gettò nella foresta dietro ai Gound.Era appena scomparso, che un'ombra scivolava sulla scarpa sopra

la quale sorgeva il pâl. Era la Fiamma Errante, avvolta in un lungo cencio bruno, che il

cordone di un languti stringeva alla vita.La sera precedente, la pazza era stata la guida incosciente

dell'ufficiale inglese e dei suoi uomini. Rientrata nella valle fin dalgiorno prima, ella ritornava macchinalmente al pâl di Tandît, verso ilquale la riconduceva una specie di istinto. Ma, questa volta, la stranacreatura, che si credeva muta, lasciava sfuggire dalle sue labbra unnome, uno solo, quello del massacratore di Cawnpore!

 — Nana Sahib! Nana Sahib! — ripeteva, come se l'immagine delnababbo, per qualche presentimento inesplicabile, le si fosse levatadavanti alla mente.

Questo nome fece sussultare l'ufficiale. Egli seguì i passi della

 pazza. Questa non parve nemmeno vedere lui e i soldati che laseguirono fino al  pâl. Era dunque là che si era rifugiato il nababbo,sulla cui testa era stata messa la taglia? L'ufficiale prese le misurenecessarie e fece sorvegliare il letto del Nazzur, aspettando il giorno.Quando Nana Sahib e i suoi Gound vi si furono inoltrati, li accolsecon una scarica, che ne gettò molti a terra, e, fra loro, il capo dellarivolta dei Cipay.

Questo fu lo scontro che il telegrafo segnalò il giorno stesso al

governatore della presidenza di Bombay. Quel telegramma si diffusein tutta la penisola, i giornali lo riprodussero immediatamente, e fucosì che il colonnello Munro poté prenderne conoscenza il 26maggio, sul giornale di Allahabad.

 Non c'era da dubitare, questa volta, della morte di Nana Sahib. Lasua identità era stata accertata, e il giornale poteva dire con ragione:«Il regno dell'India non ha più nulla da temere ormai dal crudele

rajah che gli è costato tanto sangue!».

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Frattanto, la pazza, dopo avere lasciato il pâl, scendeva il letto del Nazzur. Dai suoi occhi smarriti usciva come il bagliore di un fuocointerno che si fosse ad un tratto riacceso in lei, e le sue labbralasciavano sfuggire macchinalmente il nome del nababbo.

Ella giunse così al luogo in cui giacevano i cadaveri, e si fer mòdavanti a colui che era stato riconosciuto dai soldati di Lucknow.20 Ilviso contratto di quel morto sembrava minacciare ancora. Si sarebbedetto che, dopo aver vissuto soltanto per la vendetta, l'odio fossesopravvissuto in lui.

La pazza s'inginocchiò, posò le due mani su quel corpo crivellatodai proiettili, il cui sangue macchiò le pieghe del suo cencio. Loguardò a lungo, poi, rialzandosi e scuotendo la testa, sceselentamente il letto del Nazzur.

Ma, allora, la Fiamma Errante era ricaduta nella sua consuetaindifferenza, e la sua bocca non ripeteva più il nome maledetto di Nana Sahib.

20  Lapsus dell'Autore: poco più sopra egli ha parlato di Cawnpore. (N.d.T.) 

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PARTE SECONDA

C  APITOLO I

 IL  NOSTRO «SAMTARIUM»

GLI INCOMMENSURABILI della creazione! questa espressionemagnifica, di cui il mineralologo Haüy si è servito per definire leAnde americane, non sarebbe forse più giusta se la si applicasse alcomplesso di quella catena dell'Himalaya, che l'uomo è ancoraimpotente a misurare con precisione matematica?

Ecco ciò che io provo davanti all'aspetto di questa regione

incomparabile, nella quale il colonnello Munro, il capitano Hod,Banks ed io dovremo soggiornare per alcune settimane. — Non solamente questi monti sono incommensurabili, — ci dice

l'ingegnere, — ma la loro vetta deve essere considerata comeinaccessibile, poiché l'organismo umano non può funzionare a talialtezze, dove l'aria non è più abbastanza densa per bastare ai bisognidella respirazione!

Una barriera di rocce primitive, granito, gneiss, micaschisto, lunga

duemilaottocento chilometri, che si erge dal 72° meridiano fino al95°, coprendo due presidenze, Agra e Calcutta, due regni, il Buthan eil Nepal; - una catena la cui altezza media, superiore di un terzo allavetta del monte Bianco, comprende tre zone distinte, la prima, altacinquemila piedi, più temperata della pianura inferiore, e che produceun raccolto di grano durante l'inverno, un raccolto di riso durantel'estate; la seconda, da cinque a novemila piedi, dove la neve si

scioglie al ritorno della primavera; la terza da novemila piedi aventicinquemila, coperta di grossi ghiacci, i quali, anche nellastagione più calda, sfidano i raggi solari; - attraverso questa

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grandiosa tumescenza del globo, undici passi, alcuni dei quali foranola montagna a ventimila piedi d'altezza, e che, minacciati di continuodalle valanghe, scavati dai torrenti, invasi dai ghiacci, non permettono di andare dall'India nel Tibet se non a prezzo di difficoltà

estreme; - al disopra di questa cresta, ora arrotondata in larghecupole, ora piatta come la Tavola del capo di Buona Speranza, sette ootto picchi aguzzi, alcuni vulcanici, che dominano le sorgenti delCogra, del Djumna e del Gange, il Dukia e il Kinchinjinga, chesuperano i settemila metri, il Dhiodunga che tocca gli ottomila, ilDawalaghiri gli ottomilacinquecento, il Tchamulari gliottomilasettecento, il monte Everest, che innalza a novemila metri lasua vetta, dall'alto della quale l'occhio d'un osservatore potrebbe percorrere una circonferenza uguale a quella della Francia intera; -un mucchio di montagne, infine, che le Alpi sulle Alpi, i Pirenei sulleAnde, non supererebbero nella scala delle altitudini terrestri, eccocome è questo sollevamento colossale, di cui il piede dei più arditialpinisti non calpesterà forse mai le più alte vette, e che si chiama imonti Himalaya!

I primi gradini di questi propilei giganteschi sono ampiamente e

fittamente coperti di boschi. Vi si trovano ancora diversirappresentanti di quella ricca famiglia delle palme, che, in una zonasuperiore, cederanno il posto alle grandi foreste di querce, di cipressie di pini, ai fitti ciuffi di bambù e di piante erbacee.

Banks, che ci dà questi particolari, ci dice anche che, se la lineainferiore delle nevi scende a quattromila metri sul versante indianodella catena, sale a seimila sul versante tibetano. Ciò dipende dalfatto che i vapori, portati dai venti del sud, vengono fermati

dall'enorme barriera. Ecco perché, sull'altro versante, si son potutifondare dei villaggi fino a un'altezza di quindicimila piedi, in mezzoa campi d'orzo e a praterie magnifiche. Stando agli indigeni, bastauna notte perché quei pascoli siano tappezzati da una messe di erbe.

 Nella zona media, pavoni, pernici, fagiani, ottarde, quaglie,rappresentano i volatili. Le capre vi abbondano, e così i montoni. Nella zona alta, s'incontrano solo il cinghiale, il camoscio, il gatto

selvatico, e l'aquila è la sola a librarsi al disopra dei rari vegetali, chenon sono più se non gli umili campioni di una flora artica.

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Ma quella non era roba che potesse tentare il capitano Hod.Perché mai questo Nemrod sarebbe venuto nella regione himalayana,se non si fosse trattato che di proseguire il suo mestiere di cacciatoredi selvaggina domestica? Fortunatamente per lui i grandi carnivori,

degni del suo Enfield e dei suoi proiettili esplosivi, non dovevanomancare.

Infatti, al piede dei primi declivi della catena, si stende una zonainferiore, che gli indù chiamano la cintura del Tarryani. È una lunga pianura in pendio, larga da sette a otto chilometri, umida, calda, dallavegetazione scura, coperta di fitte foreste, nelle quali le belvecercano volentieri rifugio. Questo Eden del cacciatore che ama leforti emozioni della lotta era dominato dal nostro accampamento asoli millecinquecento metri. Era dunque facile ridiscendere su quellariserva di caccia che si custodiva da sola.

Perciò era probabile che il capitano Hod avrebbe visitato i pianiinferiori dell'Himalaya più volentieri delle zone superiori. Là, in ognicaso, anche dopo il più umorista dei viaggiatori, Victor Jasquemont,rimangono ancora da fare importanti scoperte geografiche.

 — Dunque questa enorme catena è conosciuta molto

imperfettamente, vero? — domandai a Banks. — Molto imperfettamente, — rispose l'ingegnere. — L'Himalayaè come una specie di piccolo pianeta, che si è attaccato al nostroglobo, e che conserva i suoi segreti.

 — Tuttavia è stata percorsa — risposi, — è stata frugata perquanto era possibile!

 — Oh! i viaggiatori himalayani non sono mancati! — risposeBanks. — I fratelli Gerard de Webb, gli ufficiali Kirpatrik e Fraser,

Hogdson, Herbert, Lloyd, Hooker, Cunningham, Strabing, Skinner,Johnson, Moorcroft, Thomson Griffith, Vigne, Hügel, i missionariHuc e Gabet, e più recentemente i fratelli Schlagintweit, il colonnelloWangh, i tenenti Reuillier e Montgomery, mediante lavoriconsiderevoli, hanno fatto conoscere ampiamente la disposizioneorografica di questo sollevamento. Tuttavia, amici miei, rimangonoancora molti desiderata da realizzare. L'altezza esatta delle vette

 principali ha richiesto innumerevoli rettifiche. Così, una volta, ilDawalaghiri era il re di tutta la catena; poi, in seguito a nuove

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misure, ha dovuto cedere il posto al Kinchinjinga, che sembra ormaidetronizzato dal monte Everest. Per ora, quest'ultimo, batte tutti isuoi rivali. Però, stando ai cinesi, il Kuin-Lun, al quale, è vero, imetodi precisi dei geometri europei non sono ancora stati applicati,

supererebbe un po' il monte Everest, e non sarebbe più nell'Himalayache bisognerebbe cercare il punto più elevato del nostro globo. Ma,in realtà, queste misure non potranno venir considerate comematematiche se non il giorno in cui saranno state ottenute barometricamente, e con tutte le precauzioni che esige questadeterminazione diretta. Ma come ottenerle, senza portare un barometro sulla punta estrema di questi picchi quasi inaccessibili? Edè appunto questo che finora non si è potuto fare.

 — Lo si farà, — rispose il capitano Hod, — come si faranno ungiorno i viaggi al polo Sud e al polo Nord!

 — Evidentemente! — Il viaggio fino nelle massime profondità dell'Oceano! — Senza dubbio! — Il viaggio al centro della terra! — Bravo, Hod!

 — Come si farà tutto! — aggiunsi io. — Anche un viaggio in ognuno dei pianeti del mondo solare, —rispose il capitano Hod, che niente poteva più fermare.

 — No, capitano, — risposi. — L'uomo, semplice abitante dellaterra, non riuscirebbe a superarne i confini! Ma se è incatenato allasua scorza, può penetrarne tutti i segreti.

 — Lo può, lo deve! — rispose Banks. — Tutto ciò che è nei limitidel possibile deve essere e sarà compiuto. Poi, quando l'uomo non

avrà più nulla da conoscere del globo che abita... — Sparirà con il pianeta che non avrà più misteri per lui, —

rispose il capitano Hod. — Niente affatto! — riprese Banks. — Ne godrà da padrone,

allora, e ne ricaverà un miglior profitto. Ma, amico Hod, dato chesiamo nella regione himalayana, vi indicherò una scoperta curiosa dafare, fra le tante, e che certamente vi interesserà.

 — Di che si tratta, Banks?

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 — Nel racconto dei suoi viaggi, il missionario Huc parla di unostrano albero, che nel Tibet chiamano «l'albero dalle diecimilaimmagini». Secondo la leggenda indiana, Tong-Kabac, il riformatoredella religione buddistica, sarebbe stato trasformato in albero, alcune

migliaia d'anni dopo che la stessa sorte era toccata a Filemone, aBauci, a Dafne, bizzarri esseri vegetali della flora mitologica. Icapelli di Tong-Kabac sarebbero diventati le fronde di quest'alberosacro, e su queste foglie, il missionario afferma di aver visto (vistocon i suoi occhi) dei caratteri tibetani, distintamente formati dai trattidelle loro nervature.

 — Un albero che produce delle foglie stampate! — esclamai. — E sulle quali si leggono detti della più alta morale, — rispose

l'ingegnere. — Questo vale la pena di essere accertato, — dissi ridendo. — Cercatelo dunque, amici miei, — rispose Banks. — Se esistono

alberi del genere nella parte meridionale del Tibet, se ne devonotrovare anche nella zona superiore, sul versante sud dell'Himalaya.Dunque, durante le vostre escursioni, cercate questo... come lochiamerò?... questo «sentenziano»...

 — In fede mia, no! — rispose il capitano Hod. — Sono qui perandare a caccia, e non ho niente da guadagnare a fare l'alpinista. — Ma, amico Hod! — soggiunse Banks, — un audace

arrampicatore come voi non farà proprio nessuna ascensione nellacatena?

 — Mai! — gridò il capitano. — E perché dunque? — Ho rinunciato alle ascensioni.

 — E da quando?... — Dal giorno in cui, dopo avervi rischiato la vita venti volte, —

rispose il capitano Hod, — sono riuscito a raggiungere la vetta delVrigel, nel regno di Buthan. Si affermava che mai essere umanoaveva calpestato la cima di quella montagna! Ci mettevo dunque un po' d'amor proprio! Finalmente, dopo mille pericoli, giungo sullavetta, e che cosa vedo? Queste parole incise in una roccia: «Durand,

dentista, 14 rue Caumartin, Parigi»! Da quel giorno, non faccio piùascensioni!

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Bravo capitano. Però bisogna confessare che narrandoci questosmacco, Hod faceva una smorfia così divertente, che era impossibilenon ridere di cuore!

Ho parlato molte volte dei sanitarium della penisola. Queste

stazioni climatiche, situate nella montagna, sono molto frequentate,durante l'estate, dai ricchi possidenti, dai funzionari e dai negoziantidell'India, che sono bruciati dall'ardente canicola della pianura.

Prima di tutto, bisogna citare Simla, posta sul 31° parallelo, ed aovest del 75° meridiano. È un angolino di Svizzera, con i suoitorrenti, i suoi ruscelli, i suoi chalets  posti in amene posizioniall'ombra dei cedri e dei pini a duemila metri sopra il livello delmare.

Dopo Simla, citerò Dorjiling, dalle case bianche, dominata dalKinchinjinga, cinquecento chilometri a nord di Calcutta, e aduemilatrecento metri d'altezza, vicino all'86° grado di longitudine eal 27° grado di latitudine, una posizione incantevole nel più bel paesedel mondo.

Altri sanitarium sono pure stati fondati in diversi punti dellacatena himalayana.

E ora, a queste stazioni climatiche fresche e sane, reseindispensabili dal clima ardente dell'India, bisogna aggiungere lanostra Steam-House. Ma questa, ci appartiene. Offre tutte lecomodità delle più lussuose abitazioni della penisola. Vi troveremo,in una zona fortunata, unitamente alle esigenze della vita moderna,una calma che si cercherebbe invano a Simla o a Dorjiling, dove glianglo-indiani abbondano.

Il luogo è stato scelto opportunamente. La strada che porta alla

 parte inferiore della montagna, a questa altezza si biforca perraggiungere alcuni paesini sparsi a est e a ovest. Il più vicino diquesti villaggi è a cinque miglia dalla Steam-House. È abitato da unarazza ospitale di montanari, allevatori di capre e di montoni, e checoltivano ricchi campi di grano e d'orzo.

Con l'intervento del nostro personale, sotto la direzione di Banks,ci sono volute solo poche ore per organizzare un accampamento nel

quale dobbiamo soggiornare per sei o sette settimane.

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Un contrafforte, che si stacca da una di quelle capricciose piccolecatene che puntellano l'enorme ossatura dell'Himalaya, ci ha offertoun altipiano dolcemente ondulato, lungo un miglio circa e largomezzo. Il tappeto di verde che lo copre è una spessa moquette di erba

corta, compatta, felpata si potrebbe dire, e tutta cosparsa di violette.Ciuffi di rododendri arborescenti, alti come piccole querce, cestinaturali di camelie, vi formano un centinaio di macchie di effetto piacevolissimo. La natura non ha avuto bisogno degli operai diIspahan o di Smirne per fabbricare questo tappeto di folta lanavegetale. Alcune migliaia di semi, portati dal vento di mezzogiornosu quel terreno fecondo, un po' d'acqua, un po' di sole, sono bastati per fare questo tessuto morbido e che non si consuma.

Una dozzina di gruppi d'alberi magnifici si ergono su questoaltipiano. Si direbbe che si siano staccati, quasi fuorilegge,dall'immensa foresta che rende irti i fianchi del contrafforte,risalendo sulle piccole catene vicine, a un'altezza di seicento metri.Cedri, querce, pandani dalle lunghe foglie, faggi, aceri, si mescolanoai banani, ai bambù, alle magnolie, ai carrubi, ai fichi del Giappone.Alcuni di questi giganti stendono i loro rami più alti a più di cento

 piedi dal suolo. Sembra che siano stati disposti in questo luogo perfare ombra a qualche casa forestale. La Steam-House, giunta a proposito, ha completato il paesaggio. I tetti a cupola delle sue due pagode si sposano felicemente con tutti quei rami variati, rigidi oflessibili, foglie piccole e fragili come ali di farfalle, larghe e lunghecome pagaie polinesiane. Il treno con i vagoni è scomparso sotto unmucchio di verde e di fiori. Nulla rivela la casa mobile, e là c'èsolamente una casa stabile, fissa al suolo, fatta per non muoversi più.

Sullo sfondo, un torrente, di cui si può seguire il corso argenteofino a molte migliaia di piedi d'altezza, scorre sulla destra del quadrosul fianco del contrafforte, e si precipita in un bacino naturaleombreggiato da un ciuffo di begli alberi.

Da questo bacino, il sovrappiù si versa in un ruscello, correattraverso la prateria, e finisce in una cascata rumorosa che cade inun abisso la cui profondità sfugge allo sguardo.

Ecco come è stata disposta la Steam-House per la maggiorcomodità della vita comune e il maggior piacere degli occhi.

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Se si va sulla cresta anteriore dell'altipiano, lo si vede dominarealtre terrazze meno importanti dello zoccolo dell'Himalaya, chescendono come giganteschi scaglioni fino alla pianura. Daquell'altezza, lo sguardo può abbracciarne tutto l'insieme.

A destra, la prima casa della Steam-House è sistematadiagonalmente in modo che la vista dell'orizzonte verso sud si presenti altrettanto bene sia al balcone della veranda sia alle finestrelaterali del salotto, della sala da pranzo e delle cabine di sinistra.Grandi cedri la sovrastano e si stagliano robustamente in nero sullosfondo lontano della gran catena, tappezzata di nevi eterne.

A sinistra, la seconda casa è addossata al fianco di un'enorme rupedi granito. Questa rupe, sia per la sua strana forma sia per il suocolore caldo, ricorda quei giganteschi  plum puddings di sasso di cui parla il signor Russell-Killough nel racconto del suo viaggioattraverso l'India meridionale. Di questa abitazione, riservata alsergente Mac Neil e ai suoi compagni del personale, si vede solo ilfianco. Essa è piazzata a venti passi dalla casa principale, come unadipendenza di qualche pagoda più importante. All'estremità di unodei tetti che la coprono un sottile filo di fumo azzurrognolo sfugge

dal laboratorio culinario del signor Parazard. Più a sinistra un gruppodi alberi, appena staccati dalla foresta, risale sul dorso ovest, e formala quinta laterale di questo paesaggio.

In fondo, fra le due case, si erge un gigantesco mastodonte. È ilnostro Gigante d'Acciaio. Esso è stato messo al coperto sotto un padiglione di grandi pandani. Con la sua proboscide rialzata, sidirebbe che ne mangi i rami più alti. È fermo; si riposa benché nonabbia nessun bisogno di riposo. Ora, immobile guardiano della

Steam-House, come un enorme animale antidiluviano, ne vietal'ingresso al termine di quella strada su per la quale ha trainato tuttoquel villaggio mobile.

Per esempio, per colossale che sia il nostro elefante, a meno distaccarlo con il pensiero dalla catena che si erge a seimila metri sopral'altipiano, non sembra avere più nulla di quel gigante artificiale, dicui la mano di Banks ha dotato la fauna indù.

 — Una mosca sulla facciata di una cattedrale! — dice il capitanoHod, non senza un certo dispetto.

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E non c'è nulla di più vero. Vi è, sullo sfondo, un blocco di granitonel quale si potrebbero tagliare facilmente mille elefanti dellagrandezza del nostro, e questo blocco non è che un semplice scalino,uno dei cento di quella scala che sale fino alla cresta della catena, e

che il Dawalaghiri domina con la sua cima aguzza.A volte, il cielo di questo quadro si abbassa fino all'occhio

dell'osservatore. Non solo le alte cime, ma la cresta media dellacatena, spariscono in un istante. Sono densi vapori che corrono sullazona mediana dell'Himalaya e avvolgono di nebbia tutta la sua partesuperiore. Il paesaggio rimpicciolisce, e allora, per un effetto ottico,si direbbe che le case, gli alberi, le terrazze vicine e anche il Giganted'Acciaio riprendano le loro vere dimensioni.

Accade anche che, spinte da certi venti umidi, le nuvole, ancora più basse, si stendano al di sotto dell'altipiano. L'occhio allora nonvede altro che un mare tempestoso di nuvole, alla cui superficie ilsole provoca meravigliosi giochi di luce. Tanto in alto quanto in basso, l'orizzonte è scomparso, e ci sembra di essere trasportati inqualche regione aerea, oltre i confini della terra.

Ma il vento cambia, una brezza dal nord, precipitandosi per le

 brecce della catena, viene a spazzare tutta questa nebbia, il mare divapori si condensa quasi istantaneamente, la pianura ricompareall'orizzonte a sud, le sublimi proiezioni dell'Himalaya si profilano dinuovo sullo sfondo spazzato del cielo, la cornice del quadro ritrova lasua grandezza normale, e lo sguardo, di cui nulla limita più la portata, afferra tutti i particolari di un panorama per un orizzonte disessanta miglia.

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C  APITOLO II

 MATHIAS  VAN  GUITT

IL GIORNO dopo, 26 giugno, un rumore di voci ben note mirisvegliò fino dall'alba. Mi alzai subito. Il capitano Hod e il suoattendente Fox erano in gran conversazione nella sala da pranzo della

Steam-House. Li raggiunsi immediatamente. Nello stesso momento Banks lasciava la sua cabina, e il capitanointerpellandolo con la sua voce sonora:

 — Ebbene, amico Banks, — gli disse, — eccoci finalmentearrivati in porto! Questa volta, è definitivo. Non si tratta più di unasosta di poche ore, ma di un soggiorno di qualche mese.

 — Sì, caro Hod, — rispose l'ingegnere, — e potete organizzare levostre cacce a vostro piacimento. Il fischio del Gigante d'Acciaio non

vi richiamerà più all'accampamento. — Hai sentito, Fox? — Sì, capitano, — rispose l'attendente. — Il cielo mi aiuti! — esclamò Hod, — ma non lascerò il

sanitarium della Steam-House prima che la cinquantesima sia cadutasotto i miei colpi! La cinquantesima, Fox! Ho idea che debba esserela più difficile di tutte da acchiappare!

 — Ma la acchiapperemo lo stesso, — rispose Fox. — Da dove vi viene quest'idea, capitano Hod? — gli chiesi. — Oh! Maucler, è un presentimento da cacciatore, nient'altro! — Dunque, — disse Banks, — fin da oggi lascerete

l'accampamento per mettervi in campagna? — Fin da oggi — rispose il capitano Hod. — Cominceremo prima

di tutto con il riconoscere il terreno, in modo da esplorare la zonainferiore, scendendo fino alle foreste del Tarryani. Purché le tigri non

abbiano abbandonato questa residenza! — Potete crederlo?...

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 — Eh! la mia cattiva sorte! — La cattiva sorte!... nell'Himalaya!... — rispose l'ingegnere. —

È possibile? — Insomma, vedremo! Ci accompagnerete, Maucler? —

domandò il capitano Hod, rivolgendosi a me. — Sì, certamente. — E voi, Banks? — Anch'io, — rispose l'ingegnere — e credo che Munro verrà con

voi come me... da dilettante! — Oh! — rispose il capitano Hod, — da dilettanti, va bene! ma da

dilettanti ben armati! Non si tratta di andare a spasso col bastone inmano! Sarebbe una cosa che umilierebbe le belve del Tarryani!

 — D'accordo! — rispose l'ingegnere. — Dunque, Fox, — soggiunse il capitano, rivolgendosi al suo

attendente, — niente sbagli questa volta! Quattro carabine Enfield per il colonnello, Banks, Maucler e me, due fucili a proiettiliesplosivi per te e per Goûmi.

 — State tranquillo, capitano, — rispose Fox. — La selvagginanon avrà da lamentarsi.

La giornata doveva dunque essere dedicata alla ricognizione diquella foresta del Tarryani che ricopre la parte inferioredell'Himalaya al disotto del nostro sanitarium. Così, verso le undici,dopo la colazione, sir Edward Munro, Banks, Hod, Fox, Goûmi e io,tutti ben armati, scendevamo la strada che obliqua verso la pianura,dopo aver avuto cura di lasciare all'accampamento i due cani, di cuinon sapevamo che fare in quella spedizione.

Il sergente Mac Neil era rimasto alla Steam-House, con Storr,

Kâlouth e il cuoco, per terminare i lavori di installazione. Dopo unviaggio di due mesi, il Gigante d'Acciaio aveva bisogno di essere,all'interno e all'esterno, visitato, pulito e messo in assetto. Ciòrappresentava un lavoro lungo, minuzioso, delicato, che non avrebbe permesso ai suoi cornac abituali, il fuochista e il macchinista, di starein ozio.

Alle undici avevamo lasciato il sanitarium, e, alcuni minuti dopo,

alla prima svolta della strada, la Steam-House spariva dietro la fittacortina d'alberi.

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 Non pioveva più. Sotto la spinta di un vento fresco di nord-est, lenuvole, più scomposte, correndo negli alti strati dell'atmosfera,fuggivano velocemente. Il cielo era grigio, la temperatura adatta a dei pedoni; ma mancavano anche quei giochi di luce e d'ombra che

formano il fascino dei grandi boschi.Duemila metri da scendere per una strada diretta, sarebbero stati

questione di venticinque o trenta minuti, ma la strada era allungata datutte le sinuosità con le quali compensava la ripidezza dei pendii.Impiegammo non meno di un'ora e mezzo per giungere al limitesuperiore delle foreste del Tarryani, cinque o seicento piedi al disopra della pianura. La passeggiata era stata compiuta allegramente.

 — Attenzione! — disse il capitano Hod. — Entriamo nel regnodelle tigri, dei leoni, delle pantere, dei leopardi e di altri animali benefattori della regione himalayana! È bene distruggere le belve, maè meglio non lasciarsi distruggere da loro! Dunque, nonallontaniamoci gli uni dagli altri, e siamo prudenti!

Una raccomandazione simile nella bocca di quell'accanitocacciatore aveva gran valore. Perciò ognuno di noi ne tenne conto.Le carabine e i fucili furono caricati, le batterie controllate, i grilletti

messi in sicura. Eravamo pronti a qualsiasi avvenimento.Aggiungerò che bisognava diffidare non solo dei carnivori, maanche dei serpenti, i più pericolosi dei quali si incontrano nelleforeste dell'India. I belongas, i serpenti verdi, i serpenti-staffile, emolti altri, sono velenosissimi. Il numero delle vittime chesoccombono annualmente per il morso di tali rettili è cinque o seivolte maggiore di quello degli animali domestici o degli uomini periti sotto le zanne delle belve.

Dunque, in quella regione di Tarryani, sono norme di elementare prudenza lo stare attenti a tutto, il guardare dove si mettono i piedi,dove si appoggia la mano, il prestare orecchio ai minimi rumori checorrono sotto le erbe o si propagano attraverso i cespugli.

Alle dodici e mezzo, eravamo entrati sotto le chiome dei grandialberi riuniti sul limitare della foresta. I loro alti rami si stendevano aldi sopra di alcuni larghi viali, per i quali il Gigante d'Acciaio, seguito

dal treno che trascinava solitamente, sarebbe passato con facilità.Infatti, questa parte della foresta era da tempo sistemata in modo da

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lasciare passare i carri di legna dei montanari: lo si capiva da certisolchi scavati di fresco nella creta molle. Questi viali principalicorrevano nel senso della catena montuosa e, seguendo la lunghezzamaggiore del Tarryani, congiungevano tra loro le radure aperte qua e

là dalla scure del boscaiolo; ma, sui lati, non davano accesso che astretti sentieri che si perdevano sotto fustaie impenetrabili.

Seguivamo dunque questi viali, più come agrimensori che comecacciatori, per riconoscere la loro direzione generale. Nessun urloturbava il silenzio nella profondità del bosco. Tuttavia alcune largheimpronte, lasciate di recente sul suolo, provavano che i carnivori nonavevano abbandonato il Tarryani.

All'improvviso, mentre stavamo facendo il giro di una delle svoltedel viale, un'esclamazione del capitano Hod, che procedeva in testa,ci fece arrestare.

A venti passi, nell'angolo di una radura, bordata da grandi pandani, sorgeva una costruzione per lo meno curiosa per la suaforma. Non era una casa: non aveva né camino né finestre. Non eraun capanno per cacciatori: non aveva né finestrelle né feritoiestrombate. La si sarebbe detta piuttosto una tomba indù, sperduta nel

cuore di quella foresta.Infatti, si immagini una specie di lungo cubo, formato di tronchi,accostati verticalmente, saldamente piantati nel terreno, tenuti vicininella loro parte superiore mediante un robusto cordone di rami. Pertetto, altri tronchi trasversali, solidamente incastrati nella partesuperiore della costruzione. Evidentemente, il costruttore di quelridotto aveva voluto dargli una solidità a tutta prova sui suoi cinquelati. Esso misurava circa sei piedi di altezza per dodici di lunghezza e

cinque di larghezza. Di apertura, non si vedeva traccia, a meno chenon fosse nascosta, sulla sua facciata anteriore, da una grossa trave,la cui testa arrotondata sorpassava di un poco l'insieme dellacostruzione.

Al disopra del tetto si ergevano delle lunghe pertiche flessibilidisposte in uno strano modo e riunite fra loro. Dall'estremità di unaleva orizzontale, che sosteneva questa armatura, pendeva un nodo

scorsoio, o meglio un anello formato da una grossa treccia di liane. — Ma che cos'è questo? — esclamai.

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 — Questo, — rispose Banks dopo aver osservato bene, — èsemplicemente una trappola, ma vi lascio indovinare, amici miei, cherazza di topi sia destinata a prendere!

 — Una trappola per tigri! — esclamò il capitano Hod.

 — Sì, — rispose Banks, — una trappola per tigri, il cui usciolo,chiuso dalla trave che era trattenuta da questo anello di liane, èricaduto giù, perché il bilanciere interno è stato toccato da qualcheanimale.

 — È la prima volta, — rispose Hod, — che vedo in una forestadell'India una costruzione di questo genere. È una trappola infatti!Una cosa veramente indegna di un cacciatore!

 — E di una tigre, — aggiunse Fox. — Senza dubbio, — replicò Banks, — ma se si tratta di

distruggere questi feroci animali e non di dar loro la caccia perdivertimento, la migliore trappola è quella che ne prende di più. Ora,questa mi sembra eseguita abbastanza abilmente per attirare etrattenere delle belve, per diffidenti e robuste che siano!

 — Aggiungo, — disse allora il colonnello Munro, — che, datoche l'equilibrio del bilanciere che sosteneva l'usciolo della trappola è

stato rotto, è probabile che qualche animale vi si sia fatto pigliare. — Lo sapremo subito, — esclamò il capitano Hod, — e se il toponon è morto!...

Il capitano, unendo il gesto alle parole, fece scattare la batteriadella sua carabina. Tutti lo imitarono e si tennero pronti a far fuoco.

Evidentemente, non potevamo mettere in dubbio che quellacostruzione non fosse una trappola, sul tipo di quelle che siincontrano frequentemente nelle foreste della Malesia. Ma, se non

era opera di un indù, presentava tutti i requisiti che rendono praticiquesti congegni di distruzione: sensibilità eccessiva e solidità a tutta prova.

Prese le nostre disposizioni, il capitano Hod, Fox e Goûmi siavvicinarono alla trappola di cui volevano prima di tutto fare il giro. Nessun interstizio fra i tronchi verticali permise loro di guardareall'interno.

Ascoltarono attentamente. Nessun rumore rivelava la presenza diun essere vivente in quel cubo di legno, muto come una tomba.

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Il capitano Hod e i suoi compagni ritornarono verso la parteanteriore. Accertarono che la trave mobile era scivolata in due larghescanalature disposte verticalmente. Bastava dunque risollevarla per penetrare nell'interno della trappola.

 — Non il minimo rumore! — disse il capitano Hod, che avevaappoggiato l'orecchio alla porta. — Nemmeno un alito! La trappola èvuota!

 — Non importa, abbiate prudenza! — rispose il colonnelloMunro.

E andò a sedersi su un tronco d'albero, a sinistra della radura; iomi posi accanto a lui.

 — Andiamo, Goûmi! — disse il capitano Hod.Goûmi, svelto, dal fisico atletico, nonostante la piccola statura,

agile come una scimmia, flessibile come un leopardo, vero clownindiano, comprese che cosa voleva il capitano. La sua agilità lodesignava naturalmente per il compito che si voleva da lui. Egli saltòcon un balzo sul tetto della trappola, e in un istante, a forza di polsi,raggiunse una delle pertiche che formavano l'armatura superiore. Poiscivolò lungo la leva fino all'anello di liane, e, con il suo peso, lo

abbassò fino alla testa della trave che chiudeva l'apertura.Quel cappio venne allora passato in un incavo praticatotutt'intorno alla testa della trave. Non restava più che da produrre unmovimento di contrappeso, facendo forza sull'altra estremità dellaleva.

Ma allora, bisognò ricorrere alle forze riunite del nostro piccolodrappello. Il colonnello Munro, Banks, Fox e io, andammo dunquedietro la trappola per produrre questo movimento.

Goûmi era rimasto sull'armatura per liberare la leva nel caso chequalche ostacolo le avesse impedito di agire liberamente.

 — Amici miei, — ci gridò il capitano Hod, — se è necessario chemi unisca a voi, verrò, ma se potete far a meno di me, preferiscorimanere davanti alla trappola. Almeno, se ne esce una tigre, saràsalutata da una pallottola al suo passaggio!

 — E sarà la quarantaduesima? — chiesi al capitano.

 — Perché no? — rispose Hod. — Se cade sotto la mia fucilata,sarà almeno caduta in piena libertà!

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Ad un tratto, all'interno si udì un movimento. Echeggiò un gridodi terrore che fu subito seguito da queste parole, pronunciate in buoninglese:

 — Non fate fuoco, per Dio! non fate fuoco! Un uomo si slanciò

fuori della trappola.Il nostro stupore fu tale, che le nostre mani lasciarono andare

l'armatura e la trave ricadde pesantemente con un sordo rumoredavanti all'orifizio, che otturò un'altra volta.

Frattanto il personaggio comparso in modo tanto inatteso andavaincontro al capitano Hod, la cui carabina gli era spianata in pieno petto, e in tono pretenzioso, accompagnato da un gesto enfatico, glidisse:

 — Abbiate la cortesia di abbassare la vostra arma, signore. Nonavete a che fare con una tigre del Tarryani!

Il capitano Hod, dopo un po' d'esitazione, sistemò la carabina in posizione meno minacciosa.

 — Con chi abbiamo l'onore di parlare? — domandò Banksavanzando verso quel personaggio.

 — Con il naturalista Mathias Van Guitt, fornitore regolare di

 pachidermi, tardigradi, plantigradi, proboscidati, carnivori e altrimammiferi, delle ditte Charles Rice di Londra e Hagenbeck diAmburgo!

Poi, accennando a noi con un gesto circolare: — I signori?... — Il colonnello Munro e i suoi compagni di viaggio, — rispose

Banks. — A passeggio per le foreste dell'Himalaya, — soggiunse il

fornitore. — Piacevole escursione, in verità! A buon rendere, signori,a buon rendere!

Chi era questo strano uomo con cui avevamo a che fare? Non si poteva pensare che gli avesse dato di volta il cervello durante quella prigionia nella trappola per tigri? Era pazzo o in tutte le sue facoltàmentali? Insomma, a quale categoria di bimani appartenevaquell'individuo?

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Dovevamo saperlo poco dopo, e in seguito, dovevamo imparare aconoscere meglio quel curioso personaggio che si definiva naturalistae che lo era stato infatti.

Il signor Mathias Van Guitt, fornitore di zoo, era un tipo con gli

occhiali, sulla cinquantina. Il viso glabro, gli occhi che sbattevanocontinuamente, il naso voltato all'insù, la persona in continuomovimento, i gesti estremamente espressivi, appropriati a ognunadelle frasi che uscivano dalla sua larga bocca, tutto ciò ne faceva iltipo conosciutissimo del vecchio commediante di provincia. Chi nonha incontrato in qualche angolo del mondo uno di questi vecchiattori, la cui esistenza, ristretta all'orizzonte di una ribalta e di unfondale, è trascorsa tutta quanta fra il «lato corte e il «lato giardino»di un teatro da melodramma? Parlatori instancabili, gesticolatorinoiosi, infatuati di se stessi, essi tengono alta, gettandola all'indietro,la testa, troppo vuota nella vecchiaia per non essere mai stata molto piena nell'età matura. C'era certamente del vecchio guitto in questoMathias Van Guitt.

Una volta ho udito raccontare questo divertente aneddoto su un povero diavolo di cantante, che credeva di dover sottolineare con un

gesto particolare tutte le parole della sua parte.Per esempio, nel Masaniello, quando intonava a piena voce:

Se mai d'un pescato napoletano...

il suo braccio destro, teso verso il pubblico, si muovevafebbrilmente, come se avesse tenuto all'estremità della lenza dellasua canna da pesca il luccio preso all'amo. Poi continuando:

Il Ciel voleva fare un gran monarca,

mentre una delle sue mani si alzava dritta verso lo zenit perindicare il cielo, l'altra, tracciando un cerchio intorno alla testafieramente alzata, dava l'immagine d'una corona reale.

Direbbe egli al destin: Decreto vano!

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E tutto il suo corpo resisteva violentemente a una spinta chetendeva a gettarlo indietro.

Seguitando a vogar nella sua barca...

E allora, le sue due braccia, vivamente spinte da sinistra a destra eda destra a sinistra, come se egli avesse manovrato il remo,mostravano la sua abilità nel dirigere la barca.

Ebbene, questi sistemi, familiari al cantante in questione, erano, pressappoco, quelli del fornitore Mathias Van Guitt. Nel suolinguaggio egli non adoperava che vocaboli fioriti, e dava un belfastidio al suo interlocutore che non avesse potuto mettersi fuori

 portata dei suoi gesti.Come venimmo a sapere più tardi e dalla sua stessa bocca,

Mathias Van Guitt era un ex professore di storia naturale al Museo diRotterdam, a cui l'insegnamento non era riuscito. Certo che quel brav'uomo si prestava alla presa in giro, e se gli allievi correvano infolla alle sue lezioni, era per divertirsi e non per imparare. In fin deiconti, le circostanze avevano fatto si che, stanco di insegnare senza

risultato la zoologia teorica, egli era venuto in India per fare dellazoologia pratica. Questo genere di commercio gli riuscì meglio, eegli divenne il fornitore ufficiale delle importanti ditte di Amburgo edi Londra, dalle quali si riforniscono generalmente gli zoo pubblici e privati dei due mondi.

E se Mathias Van Guitt si trovava in quel periodo nel Tarryani,era perché ve lo aveva portato un'importante ordinazione di belve perl'Europa. Infatti, il suo accampamento era a sole due miglia da quella

trappola, dalla quale lo avevamo tirato fuori.Ma come mai il fornitore era in quella trappola? È quanto Banks

gli chiese subito, ed ecco che cosa egli rispose in un linguaggiosottolineato da una grande varietà di gesti:

 — Ieri, quando il sole aveva già quasi concluso il semicerchiodella sua rotazione diurna, mi venne in mente d'andare a visitare unadelle trappole per tigri preparate di mia mano. Lasciai dunque il miokraal, che voi, signori, vorrete onorare di una vostra visita, e giunsi aquesta radura. Ero solo; il mio personale era occupato in alcuni lavoriurgenti dai quali non avevo voluto distrarlo. Era un'imprudenza.

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Quando fui arrivato davanti a questa trappola, notai subito che la botola, formata dalla trave mobile, era sollevata. Dal che dedussi,non senza logica, che nessuna belva vi si era lasciata pigliare.Tuttavia, volli verificare se l'esca era sempre al suo posto, e se il

 bilanciere a contrappeso funzionasse sempre. Perciò, con un agilemovimento di reptazione, mi insinuai nella stretta apertura.

La mano di Mathias Van Guitt indicava con un'eleganteondulazione il movimento di un serpente che si caccia attraverso lealte erbe.

 — Quando fui giunto in fondo alla trappola, — riprese ilfornitore, — esaminai il quarto di capra, le cui emanazioni dovevanoattirare gli ospiti di questa parte della foresta. L'esca era intatta.Stavo per ritirarmi, quando un urto involontario del mio braccio feceoscillare il bilanciere; l'armatura si staccò, la botola cadde, e io mitrovai preso nella mia stessa trappola, senza nessuna possibilità diuscirne.

Qui, Mathias Van Guitt, si arrestò un istante per far comprenderemeglio tutta la gravità della sua situazione.

 — Ciononostante, signori — soggiunse, — non vi nasconderò

che, da principio, considerai la cosa dal suo lato comico. Ero prigioniero, sia pure! Nessun carceriere che potesse aprirmi la porta,ne convengo! Ma pensai che i miei servi non vedendomi ricomparireal kraal, si sarebbero preoccupati per la mia assenza prolungata eavrebbero iniziato delle ricerche, che, presto o tardi, avrebbero dato illoro frutto. Non era che questione di tempo.

Car que faire en un gîte, à moins que l'on ne songe,21

ha detto un favolista francese. Perciò io mi misi a riflettere, e passarono alcune ore senza che nulla venisse a modificare la miasituazione. Venuta la sera, la fame si fece sentire. Pensai che ilmeglio che mi rimanesse da fare fosse d'ingannarla con il sonno.Presi dunque la mia decisione da filosofo, e mi addormentai profondamente. La notte fu calma in mezzo al gran silenzio dellaforesta. Nulla turbò il mio sonno, e forse dormirei ancora se non fossi

21 «E che fare in una tana se non pensare?» La Fontaine, Fables, II, 14. (N.d.T.) 

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stato svegliato da un rumore insolito. La botola della trappola sialzava, la luce entrava a fiotti nel mio oscuro ridotto, non mirimaneva più che lanciarmi fuori!... Quale fu il mio turbamentoquando vidi lo strumento mortifero diretto verso il mio petto! Un

istante ancora, e sarei stato colpito! L'ora della mia liberazionesarebbe stata l'ultima della mia vita!... Ma il signor capitano fu tantogentile da riconoscere in me una creatura della sua specie... e non mirimane che ringraziarvi, signori, per avermi restituito alla libertà.Questo fu il racconto del fornitore. Bisogna confessare che non fusenza fatica che riuscimmo a frenare il sorriso provocato dal suo tonoe dai suoi gesti.

 — Dunque, signore, — gli domandò Banks, — il vostroaccampamento è posto in questa parte del Tarryani?

 — Sì, signore, — rispose Mathias Van Guitt. — Come ho avuto il piacere di dirvi, il mio kraal è a due miglia da qui, e se voleteonorarlo della vostra presenza, sarò felice di ricevervi.

 — Certamente, signor Van Guitt, — rispose il colonnello Munro, — verremo a farvi visita!

 — Siamo cacciatori, — aggiunse il capitano Hod, — e la

sistemazione di un kraal c'interesserà. — Cacciatori! — esclamò Mathias Van Guitt, — cacciatori!E non poté impedire alla sua fisionomia di rivelare che egli aveva

una stima molto relativa per i figli di Nemrod. — Voi cacciate le belve... per ucciderle, senza dubbio? —

soggiunse rivolgendosi al capitano. — Unicamente per ucciderle, — rispose Hod. — E io unicamente per prenderle! — replicò il fornitore, che

trovò un bel gesto di fierezza. — Ebbene, signor Van Guitt, non ci faremo concorrenza! —

ribatté il capitano Hod.Il fornitore crollò il capo. Tuttavia la nostra qualità di cacciatori

non era tale da farlo pentire del suo invito. — Quando vorrete seguirmi, signori! — disse inchinandosi con

grazia. Ma, in quel momento si fecero udire nel bosco molte voci, ed

una mezza dozzina di indù apparve alla svolta del grande viale che siapriva al di là dalla radura.

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 — Ah! ecco i miei servi, — disse Mathias Van Guitt.Poi, avvicinandosi a noi e mettendosi un dito sulla bocca,

spingendo un po' avanti le labbra: — Non una parola della mia vicenda! — aggiunse. — Non

 bisogna che il personale del kraal sappia che mi sono lasciato pigliare nella mia trappola come una belva qualunque! Ciò potrebbediminuire il grado di correttezza che devo sempre conservare ai suoiocchi!

Un segno di consenso da parte nostra rassicurò il fornitore. — Padrone — disse allora uno degli indù, il cui viso impassibile

ed intelligente attirò la mia attenzione — padrone, vi cerchiamo da più di un'ora senza aver...

 — Ero con questi signori che acconsentono ad accompagnarmifino al kraal — rispose Van Guitt. — Ma, prima di lasciare la radura, bisogna rimettere a posto la trappola.

Su un ordine del fornitore, gli indù procedettero a risistemare la botola.

Frattanto Mathias Van Guitt ci invitò a visitare l'interno dellatrappola. Il capitano Hod vi si cacciò dietro di lui, ed io lo seguii.

Il luogo era un po' stretto per lo sviluppo dei gesti del nostroospite, che si comportava come se fosse stato in una sala. — Complimenti — disse il capitano Hod, dopo aver esaminato il

congegno. — È molto bene escogitato! — Statene certo, signor capitano — rispose Mathias Van Guitt. —

Questo genere di trappole è infinitamente preferibile alle vecchiefosse munite di pioli di legno indurito e agli alberi flessibili, ricurviad arco, trattenuti da un nodo scorsoio. Nel primo caso, l'animale si

sventra; nel secondo si strangola. Ciò importa poco, evidentemente,quando non si tratta che di distruggere le belve! Ma a me che vi parlo, occorrono vive, intatte, senza alcuna avaria!

 — Certamente — rispose il capitano Hod — non procediamo nelmedesimo modo.

 — Il mio è forse quello buono! — replicò il fornitore. — Se siconsultassero le belve...

 — Io non le consulto! — rispose il capitano.

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Decisamente il capitano Hod e Mathias Van Guitt avrebberostentato a intendersi.

 — Ma, — domandai al fornitore, — quando questi animali sono presi in trappola, come fate per tirarli fuori?

 — Una gabbia a ruote viene spinta davanti alla botola — risposeMathias Van Guitt — i prigionieri vi si gettano da sé, e a me nonrimane che riportarli al kraal al passo tranquillo e lento dei miei bufali domestici.

Questa frase era appena finita, che delle grida si udivano al difuori.

Il nostro primo movimento, del capitano Hod e mio, fu di precipitarci fuori della trappola.

Che cosa era accaduto?Un serpente-staffile, della specie più maligna, era stato tagliato in

due dal bastone che un indù teneva in mano, e ciò nel momentostesso in cui il rettile velenoso si slanciava sul colonnello.

Quell'indù era quello che io avevo già notato. Il suo rapidointervento aveva certamente salvato sir Edward Munro da una morteimmediata, come ci fu dato di vedere.

Infatti le grida che avevamo udito erano lanciate da uno dei servidel kraal, che si dibatteva a terra nelle ultime contorsioni dell'agonia.Per una deplorevole fatalità, la testa del serpente, tagliata di netto,

era balzata al suo petto, i denti vi si erano fissati, e il disgraziato, pervaso dal sottile veleno, spirava in meno di un minuto, senza chefosse stato possibile portargli soccorso.

Atterriti da principio da questo orribile spettacolo, ci eravamo poi precipitati verso il colonnello Munro.

 — Non sei stato toccato? — domandò Banks, che gli afferrò precipitosamente la mano.

 — No, Banks, rassicurati — rispose sir Edward Munro. Poi,rialzandosi e andando verso l'indù a cui doveva la vita:

 — Grazie, amico — gli disse.L'indù, con un gesto, fece comprendere che non gli era dovuto

nessun ringraziamento per ciò.

 — Come ti chiami? — gli domandò il colonnello Munro. — Kâlagani — rispose l'indù.

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C  APITOLO III

 IL «KRAAL»

LA MORTE di quel disgraziato ci aveva vivamente impressionati,soprattutto nelle condizioni in cui si era verificata. Ma il morso delserpente-staffile, uno dei più velenosi della penisola, non perdona.

Era una vittima in più da aggiungere alle migliaia che questi terribilirettili fanno ogni anno in India.22 Si dice, - per scherzo, penso - che,un tempo, non vi erano serpenti alla Martinica, e che sono stati gliinglesi a portarveli, quando hanno dovuto restituire l'isola allaFrancia. I francesi non hanno avuto bisogno di ricorrere a questogenere di rappresaglie, quando hanno abbandonato le loro conquistenell'India. Era inutile, e bisogna convenire che la natura si è mostrata prodiga a questo proposito.

Il corpo dell'indù, sotto l'influenza del veleno, si decomponevarapidamente. Si dovette procedere immediatamente a seppellirlo. Isuoi compagni vi si occuparono, ed il cadavere fu deposto in unafossa abbastanza profonda, che i carnivori non potesserodissotterrarlo.

Compiuta questa triste cerimonia, Mathias Van Guitt ci invitò adaccompagnarlo al kraal, invito che fu accettato subito.

Una mezz'ora ci bastò per giungere al campo del fornitore. Questocampo giustificava il nome di kraal, che vien adoperato più particolarmente dai coloni del Sud Africa.

Era un gran recinto oblungo, sistemato nel cuore della foresta, inuna ampia radura. Mathias Van Guitt lo aveva allestito con una perfetta comprensione delle necessità del suo mestiere. Una fila dialte palizzate, in cui si apriva una porta larga tanto da lasciar passare

22 Nel 1877, 1677 esseri umani sono morti a causa del morso dei serpenti. I premi pagati dal Governo per la distruzione di questi rettili indicano che in quello stessoanno ne vennero uccisi 127.295. (N.d.A.) 

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i carri, lo circondava sui quattro lati. In fondo, al centro, una lungacapanna, fatta di tronchi d'albero e di tavole, serviva da unicaabitazione a tutti gli abitanti del kraal. Sei gabbie, divise in variscompartimenti, montate ognuna su quattro ruote, erano disposte a

squadra all'estremità sinistra del recinto. Dai ruggiti che ne uscivano,si poteva giudicare che gli ospiti non vi mancavano. A destra, unadozzina di bufali nutriti dai grossi pascoli della montagna, se nestavano all'aria aperta. Era il tipo ordinario del serraglio viaggiante.

Sei carrettieri, addetti alla guida dei carri, dieci indù, particolarmente addestrati alla caccia delle belve, completavano il personale del campo.

I carrettieri erano noleggiati soltanto per la durata della campagna;il loro servizio consisteva nel guidare i carri sui luoghi di caccia, poinel ricondurli alla più vicina stazione ferroviaria. Là, i carri erano posti su trucks, e potevano raggiungere rapidamente, via Allahabad,o Bombay o Calcutta.

I cacciatori, di razza indù, appartenevano a quella categoria di persone del mestiere che si chiamano chikaris. Essi hanno il compitodi cercare le tracce degli animali feroci, di stanarli e di catturarli.

Ecco il personale del kraal. Mathias Van Guitt e i suoi servi vivivevano da alcuni mesi. Vi si trovavano esposti, non solo agliattacchi delle fiere, ma anche alle febbri, da cui il Tarryani è particolarmente infestato. L'umidità delle notti, l'evaporazione deifermenti perniciosi del suolo, il caldo umido sviluppato sotto lachioma degli alberi, che i raggi solari penetrano solo a stento, fannodella zona inferiore dell'Himalaya una regione malsana.

Eppure, il fornitore ed i suoi indù si erano così ben acclimatati a

quella regione, che la malaria non li colpiva più di quanto colpisse letigri o gli altri animali del Tarryani. Ma a noi non sarebbe stato permesso il soggiornare impunemente nel kraal; del resto, ciò nonfaceva parte dei piani del capitano Hod. Salvo qualche notte passatain agguato, dovevamo vivere nella Steam-House in quella zonasuperiore, che i vapori malsani della pianura non possonoraggiungere.

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Eravamo dunque arrivati all'accampamento di Mathias Van Guitt,e la porta si aperse per lasciarci entrare. Mathias Van Guitt sembrava particolarmente lusingato dalla nostra visita.

 — Ora, signori — ci disse — permettetemi di farvi gli onori del

kraal. Questo campo risponde a tutte le esigenze della mia arte.Veramente, non è che una capanna in grande, ciò che, nella penisola,i cacciatori chiamano un houddi. 

Così parlando, il fornitore ci aveva aperta la porta della capanna,che lui e i suoi servi occupavano in comune. Nulla di meno lussuoso.Una prima camera per il padrone, una seconda per i chikaris, unaterza per i carrettieri; in ognuna di quelle camere, come unicoarredamento, un letto da campo; una quarta sala, più ampia, cheserviva nello stesso tempo da cucina e da sala da pranzo. L'abitazionedi Mathias Van Guitt, come si vede, non era che rudimentale, emeritava giustamente la qualifica di houddi. Un vagabondo nella suacapanna, niente di più.

Dopo aver visitato l'abitazione di quei «bimani appartenenti al primo gruppo dei mammiferi», fummo invitati ad esaminare più davicino l'abitazione dei quadrupedi.

Era la parte interessante della sistemazione del kraal, e ricordava più quella di un serraglio da fiera, che le installazioni confortevoli diun giardino zoologico. Vi mancavano, infatti, soltanto quelle teledipinte a tempera, appese sopra il palco e rappresentanti a coloriaccesi un domatore in maglietta rosa e frac di velluto, in mezzo aun'orda tumultuante di quelle belve che con le fauci insanguinate, gliartigli protesi, si piegano sotto la frusta di un Bidel o d'un eroicoPezon! È vero che mancava il pubblico per invadere il palco.

Pochi passi più in là erano riuniti i bufali domestici. Essioccupavano, sulla destra, un settore laterale del kraal, nel qualeveniva loro portata ogni giorno la razione d'erba fresca. Sarebbe statoimpossibile lasciare quegli animali vagare nei pascoli vicini. Comedisse elegantemente Mathias Van Guitt: «quella libertà di pascolo, permessa nelle regioni del Regno Unito, è incompatibile con i pericoli che presentano le foreste himalayane».

Il serraglio propriamente detto comprendeva sei gabbie montatesu quattro ruote. Ogni gabbia, munita di sbarre sul lato anteriore, era

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gabbie mobili un movimento avanti e indietro da far credere chedovessero spezzarsi!

Sì, povere bestie! si sarebbe tentati di ripetere col capitano Hod.Ma Mathias Van Guitt non agiva così senza ragione. Quell'astinenza

nella prigionia risparmiava alle sue belve le affezioni cutanee, eaumentava il loro valore sui mercati dell'Europa.

Frattanto, lo si immaginerà facilmente, mentre Mathias Van Guittci mostrava la sua collezione, più da naturalista che da domatore di belve, la sua bocca non stava in ozio. Tutt'altro. Egli parlava,narrava, raccontava, e poiché i carnivori del Tarryani costituivanol'argomento principale dei suoi periodi ridondanti, la cosa ciinteressava abbastanza. Perciò, non dovevamo lasciare il kraal se nonquando la zoologia dell'Himalaya ci avesse svelato tutti i suoi segreti.

 — Ma, signor Van Guitt, — disse Banks, — potreste dirmi se lerendite del mestiere sono proporzionate ai suoi rischi?

 — Signore, — rispose il fornitore, — un tempo erano moltorimunerative. Tuttavia, da alcuni anni, devo riconoscerlo, gli animaliferoci sono in ribasso. Potreste giudicarne dai prezzi correntidell'ultimo bollettino. Il nostro mercato principale è il giardino

zoologico di Anversa. Volatili, ofidi, campioni delle famigliescimmiesche e sauriane, rappresentanti dei carnivori dei due mondi, èlà che io spedisco abitudinariamente...

Il capitano Hod s'inchinò davanti a questa parola. — ... i prodotti delle nostre cacce avventurose nelle foreste della

 penisola. Ad ogni modo, il gusto del pubblico sembra mutare, e i prezzi di vendita arriveranno a essere inferiori ai prezzi di costo! Peresempio, recentemente, uno struzzo maschio è stato venduto a soli

millecento franchi, e la femmina a ottocento franchi soltanto. Una pantera nera ha trovato un compratore solo per milleseicento franchi,una tigre di Giava per duemilaquattrocento, e una "famiglia di leoni(padre, madre, uno zio e due leoncini promettenti) a settemila franchitutti insieme!

 — Sono veramente regalati! — rispose Banks. — Quanto ai proboscidati... — soggiunse Mathias Van Guitt.

 — Proboscidati? — fece il capitano Hod.

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 — Noi definiamo con questo vocabolo scientifico i pachidermi aiquali la natura ha fornito una proboscide.

 — Gli elefanti, allora! — Sì, gli elefanti, dall'era quaternaria, i mastodonti nei periodi

 preistorici... — Vi ringrazio, — rispose il capitano Hod. — Quanto ai proboscidati, — soggiunse Mathias Van Guitt, —

 bisogna rinunciare a catturarli, se non per raccoglierne le zanne, datoche il consumo dell'avorio non è diminuito. Infatti da quando alcuniautori drammatici, a corto di espedienti, hanno immaginato dimostrarli nelle loro commedie, gli impresari li portano in giro di cittàin città, e lo stesso elefante, che percorre la provincia con lacompagnia ambulante, basta alla curiosità di tutto un paese. Cosìanche gli elefanti sono meno ricercati di un tempo.

 — Ma, — domandai, — voi dunque fornite questi campioni dellafauna indiana, solo agli zoo d'Europa?

 — Mi perdonerete, signore — rispose Mathias Van Guitt, — se, aquesto proposito, mi permetto, senza essere troppo curioso, di farviuna semplice domanda.

M'inchinai in segno d'assenso. — Voi siete francese, signore, — soggiunse il fornitore. — Lo siriconosce non solo dal vostro accento, ma anche dal vostro tipo, cheè un miscuglio piacevole di galloromano e di celtico. Ora, comefrancese, non dovete avere molta propensione per i viaggi lontani, e,senza dubbio, non avete mai fatto il giro del mondo?

Qui il gesto di Mathias Van Guitt descrisse uno dei cerchimassimi della sfera.

 — Non ho ancora avuto questo piacere! — risposi. — Vi domanderò dunque, signore, — soggiunse il fornitore, —

non se siete venuto in India, dato che ci siete, ma se conoscete afondo la penisola indiana.

 — La conosco ancora male, — risposi. — Però ho già visitatoBombay, Calcutta, Bénares, Allahabad, la valle del Gange. Ho visto iloro monumenti, ho ammirato...

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 — Eh! ma che cosa c'entra, signore, che cosa c'entra questo! —rispose Mathias Van Guitt voltando il capo dall'altra parte, mentre lasua mano, agitata febbrilmente, esprimeva un supremo disprezzo.

Poi, procedendo per ipotiposi, ossia abbandonandosi a una

descrizione vivace e animata: — Sì, che cosa c'entra questo, se non avete visitato i serragli di

quei potenti rajah che hanno conservato il culto degli animali superbidi cui si onora il territorio sacro dell'India. Orsù, signore, riprendeteil bastone del turista! Andate nel Guicowar a rendere omaggio al redi Baroda! Esaminate i suoi serragli, che devono a me la maggior parte dei loro ospiti, leoni del Kattyawar, orsi, pantere, tchîta, linci,tigri! Assistete alla celebrazione del matrimonio dei suoisessantamila piccioni, che si celebra, ogni anno, con gran pompa!Ammirate i suoi cinquecento bulbuls, usignoli della penisola, dellacui educazione si ha cura come se fossero gli eredi del trono!Contemplate i suoi elefanti, uno dei quali, consacrato al mestiere dicarnefice, ha per missione di schiacciare la testa del condannato sulceppo del supplizio! Poi, recatevi nella dimora del rajah di Maissur,il più ricco sovrano dell'Asia! Penetrate in quel palazzo in cui si

contano a centinaia i rinoceronti, gli elefanti, le tigri e tutte le belvedi alta classe che appartengono all'aristocrazia animalesca dell'India!E quando avrete visto tutto questo, signore, allora forse non potrete più essere accusato di ignoranza circa le meraviglie di questoincomparabile paese!

 Non mi rimaneva che inchinarmi alle osservazioni di Mathias VanGuitt. La sua maniera appassionata di presentare le cose non permetteva evidentemente la discussione.

Tuttavia, il capitano Hod lo bloccò più particolarmente sulla fauna propria di quella regione del Tarryani.

 — Datemi qualche particolare, per cortesia — gli chiese — a proposito dei carnivori che sono venuto a cercare in questa partedell'India. Benché io non sia che un cacciatore, ve lo ripeto, non vifarò concorrenza, signor Van Guitt, e anzi se posso aiutarvi a prendere qualcuna delle tigri che mancano ancora alla vostra

collezione, mi ci dedicherò volentieri. Ma, quando il vostro serraglio

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sarà completo, non ve ne avrete a male se io mi dedicherò alladistruzione di questi animali per mio divertimento personale!

Mathias Van Guitt prese l'atteggiamento di chi è rassegnato asubire una cosa che disapprova, ma che non potrebbe impedire.

Convenne, del resto, che il Tarryani racchiudeva un grandissimonumero di animali nocivi, generalmente poco richiesti sui mercatidell'Europa, e che gli sembrava permesso di sacrificare.

 — Ammazzate i cinghiali, d'accordo — rispose. — Benché questisuini, dell'ordine dei pachidermi, non siano carnari...

 — Carnari? — disse il capitano Hod. — Voglio dire che sono erbivori; la loro ferocia è tale, che fanno

correre i più grandi pericoli ai cacciatori che sono tanto audaci daassalirli!

 — E i lupi? — I lupi sono numerosi in tutta le penisola, e molto temibili,

quando si gettano in branchi contro qualche fattoria isolata. Questianimali assomigliano un po' al lupo rosso di Polonia, e io li consideroalla stregua degli sciacalli o dei cani selvatici. Non nego, tuttavia, idanni che essi fanno, ma siccome non hanno nessun valore

commerciale e sono indegni di figurare fra gli zoocrati delle classialte, vi lascio anche questi, capitano Hod. — E gli orsi? — domandai. — Gli orsi hanno del buono, signore — rispose il fornitore

approvando con un cenno del capo. — Quelli dell'India non sonoricercati tanto quanto i loro confratelli della famiglia degli ursidi, però possiedono un certo valore commerciale che li raccomanda alla benevola attenzione dei conoscitori. Il gusto può esitare fra i due tipi

che troviamo nelle valli del Cashmir e nelle colline del Raymahal.Ma, tranne forse che nel periodo del letargo, questi animali sonoquasi inoffensivi, e, in sostanza, non possono tentare gli istinticinegetici di un vero cacciatore quale appare ai miei occhi il capitanoHod.

Il capitano si inchinò in tono significativo, mostrando chiaramenteche, con o senza il permesso di Mathias Van Guitt, egli su queste

questioni particolari avrebbe fatto affidamento solo su se stesso.

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 — Del resto — soggiunse il fornitore — questi orsi sonosolamente animali botanofagi...

 — Botanofagi? — disse il capitano. — Sì — rispose Mathias Van Guitt — vivono solo di vegetali e

non hanno nulla in comune con le specie feroci, di cui la penisolagiustamente s'inorgoglisce.

 — Fra queste belve contate il leopardo? — domandò il capitanoHod.

 — Senza dubbio, signore. Questo felino è agile, audace, pieno dicoraggio; si arrampica sugli alberi, e, per questo stesso fatto, èqualche volta più temibile della tigre...

 — Oh! — disse il capitano Hod. — Signore — rispose Mathias Van Guitt in tono secco — quando

un cacciatore non è più sicuro di trovare un rifugio sugli alberi, èmolto vicino ad essere cacciato a sua volta!

 — E la pantera? — domandò il capitano Hod, che volle troncarequella discussione.

 — La pantera è superba — rispose Mathias Van Guitt — e potetevedere, signori, che ne ho dei magnifici esemplari! Meravigliosi

animali, che, per una bizzarra contraddizione, un'antilogia, per usareuna parola meno comune, possono essere addestrati alle lotte dellacaccia! Sì, signori, nel Guicowar specialmente, i rajah allenano le pantere a questo nobile esercizio! Vengono condotte in palanchino,con la testa incappucciata, come i girifalchi o gli smerigli! Per laverità sono autentici falchi a quattro zampe! Appena i cacciatori sonoin vista di un gregge di antilopi, la pantera viene scappucciata, e sislancia sui timidi ruminanti, che le loro gambe, per agili che siano,

non possono sottrarre ai suoi terribili artigli! Sì, signor capitano, si!Troverete delle pantere nel Tarryani! Ne troverete più di quante nevorreste, forse, ma vi avverto cortesemente che queste non sonoaddomesticate!

 — Lo spero bene — rispose il capitano Hod. — Non più dei leoni, del resto — aggiunse il fornitore piuttosto

seccato da quella risposta.

 — Ah! i leoni! — disse il capitano Hod. — Parliamo un po' deileoni, di grazia!

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domatore entra nella gabbia della tigre! Quale animale i rajah paganoa peso d'oro per ornamento dei loro giardini reali? La tigre! Qual èl'animale più ricercato sulle piazze di Londra, Anversa e Amburgo?La tigre! In quali cacce si illustrano i cacciatori indiani, ufficiali

dell'esercito reale o dell'esercito indigeno? Nella caccia della tigre!Sapete, signori, quale divertimento offrono i sovrani dell'Indiaindipendente ai loro ospiti? Viene portata una tigre reale in gabbia.La gabbia viene posta in mezzo a un'ampia pianura. Il rajah, i suoiinvitati, i suoi ufficiali, le sue guardie, sono armati di lance, rivoltellee carabine e montati per lo più su valenti solipedi...»

 — Solipedi? — disse il capitano Hod. — I loro cavalli, se preferite questa parola un po' volgare. Ma i

solipedi, spaventati dalla vicinanza del felino, dal suo odore diselvatico, dal lampo che brilla nei suoi occhi, si impennano .e civuole tutta l'abilità dei cavalieri per trattenerli. Ad un tratto, vieneaperta la porta della gabbia! Il mostro si slancia, balza, vola, si gettasui gruppi sparsi, immola alla sua rabbia una ecatombe di vittime! Sequalche volta riesce a rompere il cerchio di ferro e di fuoco che lostringe, generalmente però soccombe, uno contro cento! Ma almeno

la sua morte è gloriosa, è anticipatamente vendicata! — Bravo! signor Mathias Van Guitt, — esclamò il capitano Hodche cominciava a rianimarsi a sua volta. — Sì! Dev'essere un bellospettacolo! Sì! la tigre è il re degli animali!

 — Regalità che sfida le rivoluzioni, — aggiunse il fornitore. — E se voi, signor Van Guitt, ne avete catturate, io ne ho

ammazzate e spero di non lasciare il Tarryani prima che lacinquantesima sia caduta sotto i miei colpi!

 — Capitano, — disse il fornitore corrugando le sopracciglia, — viho ceduto i cinghiali, i lupi, gli orsi, i bufali! Questo non bastadunque alla vostra rabbia venatoria?

Vidi che il nostro amico Hod stava per accalorarsi con lo stessotrasporto di Mathias Van Guitt su questa questione palpitante.

L'uno aveva preso più tigri di quante l'altro avesse ucciso? Cheargomento per una discussione! Era meglio catturarle o distruggerle?

Che tesi da far trionfare!

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Entrambi, il capitano e il fornitore, cominciavano già a scambiarsidelle frasi rapide, e per dire tutto, a parlare contemporaneamentesenza capirsi più.

Banks intervenne.

 — Le tigri, — disse, — sono le regine della creazione, siamod'accordo, signori, ma mi permetterò di aggiungere che sono regine pericolosissime per i loro sudditi. Nel 1862, se non mi sbaglio, questiottimi felini hanno divorato gli impiegati del telegrafo della stazionedell'isola Sangor. Si cita pure una tigre femmina che, in tre anni, hafatto non meno di centodiciotto vittime, e un'altra che, nel medesimo periodo di tempo, ha sterminato centoventisette persone. È troppo,anche per delle regine! Infine, dopo il disarmo dei Cipay, in un periodo di tre anni, dodicimilacinquecentocinquantaquattro personesono morte sotto i denti delle tigri.

 — Ma, signore, — rispose Mathias Van Guitt, — sembratedimenticare che questi animali sono omofagi?

 — Omofagi? — disse il capitano Hod. — Sì, mangiatori di carne cruda, e gli indù pretendono addirittura

che, quando hanno assaggiata una volta la carne umana, non ne

vogliono più nessun'altra! — Ebbene, signore?... — disse Banks. — Ebbene, signore, — rispose sorridendo Mathias Van Guitt, —

obbediscono alla loro natura!... Bisogna bene che mangino.

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C  APITOLO IV

UNA  REGINA  DEL TARRYANI

QUESTA osservazione del fornitore concluse la nostra visita alkraal; era venuta l'ora di ritornare alla Steam-House.

In sostanza, il capitano Hod e Mathias Van Guitt non si

separavano certo come se fossero i due migliori amici del mondo. Sel'uno voleva distruggere le belve del Tarryani, l'altro volevacatturarle, e sì che ce n'era abbastanza per accontentarli tutti e due.

Con tutto ciò venne stabilito che i rapporti fra il kraal e ilsanitarium sarebbero stati frequenti. Ci saremmo avvertiti a vicendadei bei colpi che ci fossero da fare. I chikaris di Mathias Van Guitt,che avevano molta esperienza di questo tipo di spedizioni e checonoscevano i sentieri del Tarryani, erano in grado di rendersi utili al

capitano Hod, segnalandogli i passaggi degli animali. Il fornitore limise cortesemente a sua disposizione, e in particolar modo Kâlagani.Questo indù, benché entrato da poco al servizio del kraal, simostrava molto intelligente, e si poteva fare assoluto affidamento sudi lui.

In compenso, il capitano Hod promise di fornire, nel limite deisuoi mezzi, il proprio aiuto alla cattura delle belve che mancavanoallo stock di Mathias Van Guitt.

Prima di lasciare il kraal, sir Edward Munro, che non contava probabilmente di farvi visite frequenti, ringraziò ancora una voltaKâlagani, che lo aveva salvato. Gli disse che sarebbe sempre stato il benvenuto alla Steam-House.

L'indù s'inchinò freddamente. Per quanta soddisfazione potesse provare nel sentir parlare così l'uomo che gli doveva la vita, non nelasciò scorgere nulla.

Eravamo ritornati per l'ora del pranzo. Mathias Van Guitt, lo si può ben credere, fece le spese della conversazione.

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 — Per mille diavoli! Che bei gesti ha quel fornitore! — ripeteva ilcapitano Hod. — Che scelta di parole! Che giri di frase! Solo, senelle belve non vede che soggetti da mettere in mostra, si sbaglia!

I giorni seguenti, 27, 28 e 29 giugno, piovve con tale violenza, che

i nostri cacciatori, per arrabbiati che fossero, non poterono lasciare laSteam-House. Con quel tempo orribile, del resto, non si potevanoriconoscere le tracce e i carnivori, che come i gatti non amanol'acqua, non lasciano volentieri le loro tane.

Il 30 giugno il tempo migliorò e il cielo si fece più sereno. Quelgiorno, il capitano Hod, Fox, Goûmi ed io, facemmo i nostri preparativi per scendere al kraal. 

La mattina, alcuni montanari vennero a farci visita. Avevanointeso dire che una pagoda, miracolosa si era trasportata nella regionedell'Himalaya, e un vivo sentimento di curiosità li aveva condotti allaSteam-House.

Questi indigeni della frontiera tibetana sono bei tipi dall'animoguerresco, di una lealtà a tutta prova; praticano largamentel'ospitalità, e son molto superiori, moralmente e fisicamente, agliindù delle pianure.

Se la pretesa pagoda li meravigliò, il Gigante d'Acciaio liimpressionò fino a provocare da parte loro segni d'adorazione;eppure, era in riposo.

Che cosa avrebbe provato, quella brava gente, se lo avesse visto,eruttante fumo e fiamme, salire con passo sicuro le aspre pendenzedelle sue montagne?

Il colonnello Munro accolse bene quegli indigeni, alcuni dei quali percorrono per lo più i territori del Nepal, lungo la frontiera

indocinese. La conversazione si svolse per un po' su quella partedella frontiera in cui Nana Sahib aveva cercato rifugio dopo ladisfatta dei Cipay, quando fu inseguito per tutto il territoriodell'India.

Quei montanari non sapevano altro che quello che noi sapevamo.La notizia della morte del nababbo era giunta fino a loro e nonsembravano metterla in dubbio. Quanto a quelli dei suoi compagni,

che gli erano sopravvissuti, non se ne parlava più. Forse, erano andati

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a cercare un rifugio più sicuro fino nel cuore del Tibet; ma ritrovarliin quel paese sarebbe stato difficile.

Davvero, se il colonnello Munro aveva avuto, dirigendosi verso ilnord della penisola, il pensiero di mettere in chiaro tutto ciò che

riguardava da vicino o da lontano Nana Sahib, questa risposta dovevacertamente distoglierlo da tale proposito. Ma, ascoltando queimontanari, egli rimase pensieroso e non prese più parte allaconversazione.

Il capitano Hod, invece, rivolse loro alcune domande, ma datutt'altro punto di vista. Essi gli dissero che delle belve, e particolarmente delle tigri, provocavano terribili disastri nella zonainferiore dell'Himalaya. Gli abitanti avevano dovuto abbandonarefattorie, e persino interi villaggi. Molti greggi di capre e di montonierano già stati distrutti e si contavano anche numerose vittime fra gliindigeni. Nonostante il premio elevato offerto dal governo, - trecentorupie per ogni tigre, - il numero di quei felini non sembravadiminuire, e ci si domandava se l'uomo non sarebbe stato in brevecostretto a ceder loro il posto.

I montanari aggiunsero anche questo particolare: che le tigri non

stavano solamente nel Tarryani. Ovunque la pianura offriva loro alteerbe, jungle, cespugli nei quali potevano mettersi in agguato, era possibile incontrarle in gran numero.

 — Bestie cattive! — dissero.Quella brava gente, e con ragione si vede, non manifestava nei

confronti delle tigri le stesse idee del fornitore Mathias Van Guitt edel nostro amico capitano Hod.

I montanari si ritirarono lietissimi dell'accoglienza ricevuta, e

 promisero di ripetere la loro visita alla Steam-House.Dopo la loro partenza, essendo terminati i nostri preparativi, il

capitano Hod, i nostri due compagni ed io, ben armati, pronti aqualsiasi incontro, scendemmo verso il Tarryani.

Giungendo alla radura in cui si trovava la trappola dalla qualeavevamo così felicemente estratto Mathias Van Guitt, questi si presentò ai nostri occhi, non senza cerimonie.

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Cinque o sei dei suoi uomini, e fra essi Kâlagani, erano occupati afar passare dalla trappola in una gabbia su ruote una tigre che si eralasciata prendere durante la notte.

Magnifico animale davvero, che fece una grande invidia al

capitano Hod! — Una di meno nel Tarryani! — egli mormorò fra due sospiri,

che trovarono eco nel petto di Fox. — Una di più nel serraglio, — rispose il fornitore. — Ancora due

tigri, un leone, due leopardi, e sarò in grado di far onore ai mieiimpegni prima della fine della campagna. Venite con me al kraal,signori?

 — Vi ringraziamo, — disse il capitano Hod, — ma oggi andiamoa caccia per nostro conto.

 — Kâlagani è a vostra disposizione, capitano Hod, — rispose ilfornitore. — Conosce bene la foresta e può esservi utile.

 — L'accettiamo volentieri per guida. — Ora, signori, — aggiunse Mathias Van Guitt, — buona

fortuna! Ma promettetemi di non ucciderle tutte! — No, ve ne lasceremo qualcuna! — ribatté il capitano Hod.

E Mathias Van Guitt, salutandoci con un gesto superbo,scomparve sotto gli alberi dietro la sua gabbia a ruote. — In cammino, — disse il capitano Hod, — in cammino, amici

miei. Alla mia quarantaduesima. — Alla mia ventottesima! — rispose Fox. — Alla mia prima! — aggiunsi io.Ma il tono con cui pronunciai queste parole fece sorridere il

capitano. Evidentemente non avevo il fuoco sacro. Hod si era rivolto

verso Kâlagani. — Conosci bene il Tarryani? — gli domandò. — L'ho percorso venti volte, notte e giorno, in tutte le direzioni,

 — rispose l'indù. — Hai sentito dire che una tigre si sia più particolarmente fatta

vedere nei dintorni del kraal?  — Sì, ma è una tigre femmina. È stata vista, a due miglia da qui,

nella parte alta della foresta, e da alcuni giorni si cerca di catturarla.Volete che...

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 — Se vogliamo? — rispose il capitano Hod senza lasciare all'indùil tempo di terminare la frase.

Infatti, non ci rimaneva nulla di meglio da fare che seguireKâlagani, ed è ciò che facemmo.

È certo che le belve sono molto numerose nel Tarryani, e là, comealtrove, esse hanno bisogno di non meno di due buoi alla settimana per il loro consumo particolare!

Calcolate quanto costi questo mantenimento all'intera penisola!Ma se le tigri vi si trovano in gran numero, non si deve pensare

che corrano in lungo e in largo per le campagne. Fintanto che la famenon le spinge, se ne stanno nascoste nelle loro tane, e sarebbe errorecredere di poterle incontrare ad ogni passo. Quanti viaggiatori hanno percorso le foreste o le jungle senza averne mai viste! Quando vieneorganizzata una caccia, bisogna incominciare con il riconoscere iluoghi di passaggio abituale di quegli animali, e, soprattutto, scoprireil ruscello o la sorgente a cui vanno di solito a dissetarsi.

Questo anzi non basta ancora, e bisogna anche adescarle. Lo si faabbastanza facilmente, mettendo un quarto di bue, appeso ad un palo,in qualche luogo circondato da alberi o da massi, che possano servire

da nascondiglio ai cacciatori. È così, perlomeno, che si procede nelleforeste.In pianura, le cose vanno diversamente, e l'elefante diventa il più

utile ausilio dell'uomo in quelle pericolose cacce di inseguimento.Ma questi animali devono essere perfettamente addestrati a talemanovra, e, nonostante tutto, sono presi talvolta dal panico che rende pericolosissima la posizione dei cacciatori appollaiati sul loro dorso.Bisogna anche dire che la tigre non esita ad avventarsi contro

l'elefante. La lotta fra essa e l'uomo avviene allora sul dorso delgigantesco pachiderma, che si imbizzarrisce, ed è raro che nontermini col vantaggio della belva...

È così, per altro, che si fanno le grandi cacce dei rajah e dei ricchisportivi dell'India degne di figurare negli annali cinegetici.

Ma non era quello il sistema adottato dal capitano Hod. Era a piedi che egli andava alla ricerca delle tigri, era a piedi che era solito

combatterle.

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Frattanto, noi seguivamo Kâlagani, che camminava di buon passo.Da indù riservato, parlava poco e si limitava a rispondere brevementealle domande che gli venivano fatte.

Un'ora dopo, ci fermavamo presso un ruscello torrentizio, sulle

cui sponde si vedevano delle impronte di animali ancora fresche. Inmezzo ad una piccola radura, sorgeva un palo, dal quale pendeva unintero quarto di bue.

L'esca non era stata interamente rispettata. Vi si vedevano letracce recenti dei denti degli sciacalli, che sono i ladruncoli dellafauna indiana, sempre in cerca di qualche preda, anche se nondestinata loro. Una dozzina di questi carnivori fuggì quando ciavvicinammo, cedendoci il posto.

 — Capitano, — disse Kâlagani, — è qui che aspetteremo la tigre.Vedete che il luogo è favorevole per un appostamento.

Infatti, era facile appostarsi tra gli alberi o dietro i massi, in mododa poter sparare a fuoco incrociato sul palo isolato in mezzo allaradura.

Così fu fatto immediatamente. Goûmi ed io avevamo preso postosullo stesso ramo. Il capitano Hod e Fox, entrambi appollaiati sulla

 prima biforcazione di due grandi querce verdi, stavano di fronte.Kâlagani, invece, si era seminascosto dietro un'alta roccia, su cui poteva arrampicarsi qualora il pericolo si fosse fatto imminente.

L'animale sarebbe così rimasto preso in un cerchio di fuoco, dalquale non avrebbe potuto uscire. Tutte le sorti gli erano dunquecontro, benché si dovesse, tuttavia, tener conto anche dell'imprevisto.

 Non ci rimaneva altro che aspettare.Gli sciacalli, dispersi qua e là, facevano sempre udire i loro rauchi

latrati nelle macchie vicine, ma non osavano più venire a mordere ilquarto di bue.

 Non era passata un'ora che quei latrati cessarono di colpo. Quasisubito, due o tre sciacalli, balzando fuori dalla macchia,attraversarono la radura e scomparvero nel più fitto del bosco.

Un cenno di Kâlagani, che si preparava a salire sulla roccia, ciavvertì di stare in guardia.

Infatti, quella fuga precipitosa degli sciacalli non aveva potutoessere provocata altro che dall'avvicinarsi di qualche belva, - la tigre

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senza dubbio, - e bisognava prepararsi a vederla comparire da unistante all'altro in qualche punto della radura.

Le nostre armi erano pronte. Le carabine del capitano Hod e delsuo attendente, già puntate verso la parte della macchia da cui erano

usciti gli sciacalli, non aspettavano che una pressione del dito per farfuoco.

Poco dopo, mi parve di vedere un leggero movimento dei ramisuperiori della macchia. Contemporaneamente si fece udire unoscricchiolio di legna secca. Un animale qualsiasi si avanzava, ma prudentemente, senza affrettarsi. Di quei cacciatori che lo spiavanonascosti tra un fitto fogliame, non poteva evidentemente veder nulla.Tuttavia, il suo istinto doveva lasciargli presentire che il luogo nonera sicuro per lui. Certamente, se non fosse stato spinto dalla fame, seil quarto di bue non lo avesse attirato con il suo odore, esso non sisarebbe arrischiato oltre.

Comparve, però, attraverso i rami di un cespuglio, e si arrestòcome per un senso di diffidenza.

Era proprio una tigre, femmina, di alta statura, dalla testa poderosa, dal corpo agile. Cominciò ad avanzare appiattendosi al

suolo con le ondulazioni di un rettile.Tutti d'accordo, lasciammo che si avvicinasse al palo. Essa fiutavail terreno, si rizzava, inarcava il dorso, come un enorme gatto, chenon voglia slanciarsi.

Ad un tratto, si fecero udire due spari di carabina. — Quarantadue! — gridò il capitano Hod. — Trentotto! — gridò Fox.Il capitano e il suo attendente avevano sparato

contemporaneamente e avevano mirato così bene, che la tigre colpitaal cuore da un proiettile, se non da due, rotolava a terra.

Kâlagani si era precipitato verso l'animale. Noi eravamo balzati aterra.

La tigre non si muoveva più.Ma a chi spettava l'onore di averla colpita a morte? Al capitano o

a Fox? Era importante saperlo, come si può immaginare.

L'animale fu squartato. Il cuore era stato attraversato da due proiettili.

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una seconda scarica, mentre superavano il recinto merlato. Quantoalla terza, balzò fino nell'interno, con una spalla insanguinata, manon mortalmente ferita.

 — Questa la piglieremo! — esclamò Mathias Van Guitt, che,

 parlando così, si spingeva un po' troppo avanti, — la piglieremoviva!...

 Non aveva terminato la sua frase imprudente che l'animale gli si precipitava addosso, lo rovesciava, e il fornitore sarebbe statospacciato, se un proiettile del capitano Hod non avesse colpito allatesta la tigre, che cadde fulminata.

Mathias Van Guitt si era alzato rapidamente. — Eh! capitano, — esclamò, invece di ringraziare il nostro

compagno, — avreste anche potuto aspettare!... — Aspettare... che cosa?... — rispose il capitano Hod... — Che

quell'animale vi avesse aperto il petto con una zampata? — Una zampata non è mortale!... — Va bene! — replicò tranquillamente il capitano Hod. —

Un'altra volta, aspetterò!Ad ogni modo, la belva, che non era in grado di figurare nel

serraglio del kraal, non poteva più servire che per fare unoscendiletto; ma quella fortunata spedizione portò a quarantadue per ilcapitano e a trentotto per il suo attendente la cifra delle tigri uccise daloro, senza contare la mezza che figurava già al loro attivo.

 Non bisogna credere che le grandi cacce ci facessero dimenticarele piccole. Il signor Parazard non lo avrebbe permesso. Antilopi,camosci, grosse ottarde, che erano numerosissime intorno allaSteam-House, pernici, lepri, fornivano alla nostra tavola grande

varietà di selvaggina.Quando battevamo il Tarryani, era raro che Banks si unisse a noi.

Se queste spedizioni cominciavano a interessarmi, lui invece non sene lasciava tentare. Le zone superiori dell'Himalaya gli offrivanoevidentemente maggiori attrattive, ed egli si divertiva in quelleescursioni, soprattutto quando il colonnello Munro acconsentiva adaccompagnarlo.

Ma una volta o due soltanto le passeggiate dell'ingegnere si feceroin quelle condizioni. Egli aveva potuto osservare che, da quando si

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era sistemato nel sanitarium, sir Edward Munro era ridiventato pensieroso. Parlava meno, si teneva più in disparte, a volteconfabulava con il sergente Mac Neil. Meditavano forse entrambiqualche nuovo piano che volevano nascondere anche a Banks?

Il 13 luglio Mathias Van Guitt venne a farci visita. Menofortunato del capitano Hod, non aveva potuto aggiungere nuovi ospitial suo serraglio. Né tigri né leoni né leopardi sembravano disposti alasciarsi catturare. L'idea di andare a esibirsi nei paesi dell'estremoOccidente senza dubbio non li tentava. Perciò un vero dispetto, che ilfornitore non cercava di dissimulare.

Kâlagani e due chikaris del suo personale accompagnavanoMathias Van Guitt in questa visita.

La sistemazione del sanitarium, in quella bella posizione, gli piacque moltissimo. Il colonnello Munro lo pregò di rimanere a pranzo; egli accettò con premura e promise di far onore alla nostramensa.

Aspettando il pranzo Mathias Van Guitt volle visitare la Steam-House, le cui comodità erano in contrasto con la sua modestasistemazione al kraal. Le due case ambulanti provocarono da parte

sua dei complimenti; ma devo confessare che il Gigante d'Acciaionon suscitò affatto la sua ammirazione. Un naturalista pari suo nondoveva che rimanere insensibile davanti a quel capolavoro dimeccanica. Come avrebbe potuto approvare, per notevole che fosse,la creazione di quell'animale artificiale?

 — Non pensate male del nostro elefante, signor Mathias VanGuitt! — gli disse Banks. — È un animale poderoso, e, qualoraoccorresse, non sarebbe imbarazzato a trascinare, insieme con i nostri

due vagoni, tutte le gabbie del vostro serraglio ambulante! — Ho i miei bufali, — rispose il fornitore, — e preferisco il loro

 passo tranquillo e sicuro. — Il Gigante d'Acciaio non teme né gli artigli né i denti delle

tigri! — esclamò il capitano Hod. — Senza dubbio, signore, — rispose Mathias Van Guitt, — ma

 perché mai le belve dovrebbero assalirlo? Si interessano ben poco di

carne di lamiera!

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In compenso, se il naturalista non dissimulò la sua indifferenza per il nostro elefante, i suoi indù, e in particolar modo Kâlagani, lodivorarono con lo sguardo. Si sentiva che, nella loro ammirazione per il gigantesco animale, entrava una certa dose di superstizioso

rispetto.Kâlagani parve anzi molto sorpreso quando l'ingegnere ripete che

il Gigante d'Acciaio era più potente di tutte le bestie da tiro del kraal.Per il capitano Hod fu un'occasione per narrare, non senza un po' disuperbia, la nostra avventura con i tre «proboscidati» del principeGuru Singh. Un lieve sorriso d'incredulità passò sulle labbra delfornitore, ma egli non insistette.

Il pranzo si svolse ottimamente. Mathias Van Guitt gli fecelargamente onore. Bisogna dire che la dispensa era piacevolmentefornita con i prodotti delle nostre ultime cacce, e che il signorParazard aveva voluto superare se stesso.

Anche la cantina della Steam-House fornì delle bevande variate,che il nostro ospite parve apprezzare, soprattutto due o tre bicchieridi vino francese, la cui degustazione fu seguita da uno schiocco dilingua impareggiabile.

Tanto che, dopo il pranzo, al momento di separarci, si potégiudicare dall'«incertezza della sua. deambulazione», che, se il vinogli dava alla testa, gli scendeva pure nelle gambe.

Venuta la notte, ci separammo come i migliori amici del mondo, egrazie ai suoi compagni Mathias Van Guitt poté ritornare al kraalsenza fastidi.

Tuttavia, il 16 luglio, un incidente rischiò di guastare i rapporti frail fornitore e il capitano Hod.

Una tigre venne uccisa dal capitano nel momento in cui stava perentrare in una delle trappole a bilanciere. Ma, se quella tigre fu la suaquarantatreesima, non fu l'ottava del fornitore.

Ad ogni modo, dopo uno scambio di osservazioni piuttosto vivaci,i buoni rapporti furono ripresi, grazie all'intervento del colonnelloMunro, e il capitano Hod si impegnò a rispettare le belve che«avessero intenzione» di lasciarsi prendere nelle trappole di Mathias

Van Guitt.

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Sir Edward Munro lo ringraziò. Egli si proponeva di approfittaredella nostra assenza per visitare la zona media dell'Himalaya, al disopra del Tarryani, con Goûmi e con il sergente Mac Neil.

Banks non insistette.

Venne dunque deciso che saremmo partiti quello stesso giorno peril kraal  per farci prestare da Mathias Van Guitt alcuni dei suoichikaris, che potevano esserci utilissimi.

Un'ora dopo, verso mezzogiorno, eravamo giunti. Il fornitore fuinformato dei nostri progetti. Egli non nascose la sua segretasoddisfazione, nel venire a sapere le imprese di quella tigre «capace»disse, «di risollevare nell'animo degli intenditori la reputazione deifelini della penisola». Poi, mise a nostra disposizione tre dei suoiindù, senza contare Kâlagani, sempre pronto ad affrontare il pericolo.

Fu soltanto messo bene in chiaro con il capitano Hod che, se perassurdo quella tigre si fosse lasciata prendere viva, sarebbeappartenuta di diritto al serraglio di Mathias Van Guitt. Che attrattivaquando un cartello, appeso alle sbarre della sua gabbia, avrebberaccontato con cifre eloquenti le gesta di una delle «regine delTarryani, che ha divorato non meno di 138 persone dei due sessi»!

Il nostro drappello lasciò il kraal verso le due del pomeriggio.Prima delle quattro, dopo esser risalito verso est, giungeva a Suarisenza incidenti.

Là il panico era al colmo. Quella stessa mattina, una disgraziataindù, sorpresa all'improvviso dalla tigre presso un ruscello, era statatrascinata nella foresta.

La casa di uno dei montanari, ricco fittavolo inglese del territorio,ci ricevette ospitalmente. Il nostro ospite aveva avuto da lagnarsi più

di ogni altro dell'inafferrabile belva, ed avrebbe pagato volentieri lasua pelle molte migliaia di rupie.

 — Capitano Hod, — disse, — alcuni anni or sono, nelle provincecentrali una tigre femmina obbligò gli abitanti di tredici villaggi afuggire, e duecentocinquanta miglia quadrate di buon terreno sonodovute rimanere incolte! Ebbene, qui, per poco che la cosa duri, saràla provincia tutta quanta che si dovrà abbandonare!

 — Avete adoperato tutti i mezzi di distruzione possibili controquesta tigre? — domandò Banks.

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 — Tutti, signor ingegnere, trappole, fosse, perfino le escheavvelenate con la stricnina, nulla ha avuto effetto!

 — Amico mio, — disse il capitano Hod, — non prometto cheriusciremo a darvi soddisfazione, ma faremo del nostro meglio!

 Non appena ci fummo sistemati a Suari, quello stesso giorno fuorganizzata una battuta. A noi e alla nostra gente, e ai cbikarts delkraal, si unirono una ventina di montanari che conoscevano perfettamente il territorio sul quale bisognava operare. Banks, perquanto fosse poco cacciatore, mi sembrò seguire la nostra spedizionecol massimo interesse.

Per tre giorni, il 24, il 25 e il 26 luglio, tutta quella parte dellamontagna venne frugata, senza che le nostre ricerche portassero adalcun risultato, tranne che due altre tigri, a cui non si pensavaminimamente, caddero ancora sotto i proiettili del capitano.

 — Quarantacinque! — si accontentò di dire Hod, senza darvimolta importanza.

Finalmente, il 27, la tigre annunciò la sua comparsa con un nuovomisfatto. Un bufalo, appartenente al nostro ospite, scomparve da un pascolo vicino a Suari, e non se ne ritrovarono più che i resti a un

quarto di miglio dal villaggio. L'assassinio, - omicidio premeditato,avrebbe detto un giurista -aveva avuto luogo un po' prima dell'alba.L'assassino non poteva essere lontano.

Ma l'autore principale del delitto era proprio la tigre che avevanotanto inutilmente cercata fino allora?

Gli indù di Suari non ne dubitavano. — È lo zio, non può essere che lui, che ha fatto il colpo! — ci

disse uno dei montanari.

Lo zio! È così che gli indù definiscono generalmente la tigre nellamaggior parte dei territori della penisola. Ciò dipende dal fatto cheessi credono che ognuno dei loro antenati abiti per l'eternità nelcorpo di uno di questi membri della famiglia dei felini.

Ma, questa volta, avrebbero potuto dire più giustamente: è la zia!Fu subito presa la decisione di mettersi sulle tracce dell'animale,

senza neppure aspettare la notte, poiché la notte gli avrebbe permesso

di sfuggire meglio alle ricerche. Del resto doveva essere sazio, e nonavrebbe più lasciato il suo covo per due o tre giorni.

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Ci mettemmo in campagna. Incominciando dal luogo in cui il bufalo era stato preso, delle impronte sanguinose segnavano la viaseguita dalla tigre. Queste impronte si dirigevano verso un boschetto,che era già stato esplorato molte volte senza che vi potessimo

scoprire nulla. Decidemmo dunque di circondare quel boschetto, inmodo da formare un cerchio che l'animale non avrebbe potutosuperare, perlomeno senza essere veduto.

I montanari si dispersero in modo da radunarsi a poco a pocoverso il centro, restringendo il loro circolo. Il capitano Hod, Kâlaganied io, eravamo da una parte, Banks e Fox dall'altra, macostantemente in comunicazione con le persone del kraal e delvillaggio. Evidentemente, ogni punto di quella circonferenza era pericoloso poiché la tigre poteva cercare di romperla in ogni punto.

 Non si poteva dubitare, d'altra parte, che l'animale fosse nel boschetto. Infatti, le impronte, che vi conducevano da una parte, nonriapparivano dall'altra. Che fosse quello il suo covo abituale, non era provato, poiché ve lo avevamo già cercato senza successo; ma, inquel momento, tutto faceva credere che quel boschetto gli servisse darifugio.

Erano le otto del mattino. Prese tutte le disposizioni, avanzavamoa poco a poco senza rumore, stringendo sempre più il cerchiod'investimento. Mezz'ora dopo, eravamo al limite dei primi alberi.

 Non era avvenuto nessun incidente, nulla rivelava la presenzadell'animale, e, per conto mio, mi chiedevo se non lavorassimoinutilmente.

Coloro che occupavano un arco ristretto della circonferenza, non potevano più vedersi, eppure era necessario camminare con un

 perfetto insieme.Era dunque stato convenuto in precedenza che si sarebbe sparata

una fucilata nel momento in cui il primo di noi fosse penetrato nel bosco.

Il segnale fu dato dal capitano Hod, che era sempre in testa, ed illembo del bosco fu superato. Guardai l'ora sul mio orologio: segnavale otto e trentacinque.

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Un quarto d'ora dopo il cerchio si era ristretto, eravamo gomito agomito e ci arrestavamo nella parte più fitta del boschetto senza averincontrato nulla.

Il silenzio non era stato turbato fino allora se non dal rumore dei

rami secchi che, per quante precauzioni si pigliassero, si rompevanosotto i nostri piedi.

In quel momento si udì un ruggito. — La belva è là! — esclamò il capitano Hod mostrando l'ingresso

di una caverna scavata in un cumulo di massi coronato da un gruppodi grandi alberi.

Il capitano Hod non si sbagliava. Se non era il covo consueto dellatigre, era là almeno che essa si era rifugiata, sentendosi braccata datutta una frotta di cacciatori.

Hod, Banks, Fox, Kâlagani, molti degli uomini del kraal, e io cieravamo avvicinati alla stretta apertura, alla quale portavano leimpronte sanguinose.

 — Bisogna penetrare là dentro, — disse il capitano Hod. — Cosa pericolosa! — fece osservare Banks. — Chi vi entrerà per

 primo rischierà delle gravi ferite.

 — Entrerò lo stesso! — disse Hod, assicurandosi che la suacarabina fosse pronta a far fuoco. — Dopo di me, capitano! — rispose Fox, che si curvò verso

l'apertura della caverna. — No, Fox, no! — esclamò Hod. — La cosa riguarda me. — Ah! capitano, — rispose dolcemente Fox, in tono di

rimprovero — sono indietro di sette!...Pensavano a contare le loro tigri in un momento simile!

 — Non ci entrerete né l'uno né l'altro! — esclamò Banks. — No,non vi lascerò...

 — Ci sarebbe forse un mezzo — disse allora Kâlagani,interrompendo l'ingegnere.

 — Quale? — Sarebbe di affumicare il covo, — rispose l'indù. — L'animale

sarebbe obbligato a uscire. Avremmo meno rischi e maggior facilità

 per ucciderlo al di fuori.

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 — Kâlagani ha ragione, — disse Banks. — Su, amici, della legnamorta, delle erbe secche! Ostruitemi per bene questa apertura! Ilvento caccerà all'interno le fiamme ed il fumo. Bisognerà pure che la belva si lasci abbrustolire o fugga!

 — Fuggirà! — ribatté l'indù. — Va bene! — rispose il capitano Hod. — Saremo là per salutarla

al passaggio!In un istante, sterpi, erbe secche, legna morta - e non ne mancava

in quel boschetto — tutto un mucchio di materiale combustibile fudisposto davanti all'ingresso della caverna.

 Nulla si era mosso all'interno. Nulla appariva in quel cunicolotenebroso, che doveva essere profondo. Pure, le nostre orecchie nonavevano potuto ingannarci, il ruggito era certamente uscito di là.

Fu dato fuoco alle erbe, che fiammeggiarono. Quel fuoco sviluppòun fumo acre e denso che il vento spinse all'interno, e che vi dovevarendere l'aria irrespirabile.

Un secondo ruggito, più furibondo del primo, si fece udire allora.L'animale si sentiva messo alle strette, e per non essere soffocato,stava per essere costretto a slanciarsi fuori.

Lo aspettavamo, appostati a squadra lungo le pareti laterali dellarupe seminascosti dai tronchi d'albero, in modo da evitare l'urto di un primo balzo.

Il capitano, invece, aveva scelto un altro posto, e, bisogna benriconoscerlo, il più pericoloso. Era all'ingresso di un'apertura praticata nel boschetto, la sola che potesse lasciar passare la tigre,quando avesse tentato di fuggire attraverso il bosco. Hod avevamesso un ginocchio a terra per assicurare meglio il suo colpo, e

imbracciava saldamente la carabina; tutto il suo corpo aveval'immobilità del marmo.

Erano passati appena tre minuti dal momento in cui era statoappiccato il fuoco al mucchio di legna, quando un terzo ruggito, omeglio, questa volta, un rantolo di soffocazione, echeggiòall'apertura della caverna. Il fuoco fu disperso in un istante, e unenorme corpo apparve fra le volute di fumo.

Era proprio la tigre. — Fuoco! — gridò Banks.

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Rimbombarono dieci fucilate, ma più tardi potemmo accertare chenessun proiettile aveva toccato l'animale. La sua apparizione era statatroppo rapida. Come si sarebbe potuto mirare giusto in mezzo allevolute di fumo che l'avvolgevano?

Ma, dopo il suo primo balzo, se la tigre aveva toccato terra, nonera stato che per riprendere un punto d'appoggio e slanciarsi verso lamacchia con un altro balzo ancora più lungo.

Il capitano Hod aspettava l'animale con estremo sangue freddo, ecolpendolo, per così dire, al volo, gli mandò un proiettile, che locolpì solo alla giuntura della spalla.

In un lampo, la tigre si era precipitata sul nostro compagno, loaveva rovesciato, e stava per fracassargli la testa con un colpo dellesue formidabili zampe...

Kâlagani balzò avanti, con in mano un largo coltello.Il grido che ci sfuggì echeggiava ancora, che il coraggioso indù,

 piombando sulla belva, la afferrava alla gola nel momento in cui ilsuo artiglio destro stava per piombare sul cranio del capitano.

L'animale, distratto da questo brusco assalto, rovesciò l'indù conun movimento del fianco, e si gettò addosso a lui.

Ma il capitano Hod si era rialzato d'un balzo, e, raccogliendo ilcoltello che Kâlagani aveva lasciato cadere, con mano sicura loimmerse tutto quanto nel cuore della belva.

La tigre rotolò a terra.Cinque secondi al massimo erano bastati per le diverse peripezie

di questa scena emozionante.Il capitano Hod era ancora in ginocchio quando gli giungemmo

vicino. Kâlagani, con la spalla insanguinata, si era rialzato.

 —  Bag mahryaga! Bag mahryaga!  — gridavano gli indù, il chesignificava: la tigre è morta!

Sì, proprio morta! Che animale superbo! Dieci piedi di lunghezzadal muso all'estremità della coda, corporatura in proporzione, zampeenormi armate di lunghi artigli aguzzi, che sembravano arrotati sullamola di un arrotino!

Mentre ammiravamo la belva, gli indù, molto vendicativi e con

ragione, la colmavano di invettive. Kâlagani si era avvicinato alcapitano Hod.

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Perché tale moto? Certo mi sbagliavo.

C  APITOLO V

 ASSALTO  NOTTURNO

LA PARTENZA del colonnello fece sorgere in noi una viva preoccupazione. Egli si riportava evidentemente a un passato cheavevamo creduto chiuso per sempre. Ma, che fare? Mettersi sulletracce di sir Edward Munro? Ignoravamo quale direzione avesse preso, quale punto della frontiera nepalese si proponesse diraggiungere. Non potevamo, d'altra parte, nasconderci che, se egli

non aveva parlato di nulla a Banks, era perché temeva le osservazionidell'amico, alle quali voleva sottrarsi. Banks rimpianse molto diaverci seguiti nella spedizione.

Bisognava dunque rassegnarsi e aspettare. Il colonnello Munrosarebbe certamente ritornato prima della fine d'agosto, poiché quelmese era l'ultimo che avremmo dovuto passare al sanitarium, primadi prendere, attraverso il sud-ovest, la strada di Bombay.

Kâlagani, ben medicato da Banks, rimase solo ventiquattro orealla Steam-House. La sua ferita si sarebbe cicatrizzata rapidamente,ed egli ci lasciò per andare a riprendere il suo servizio al kraal. 

Il mese d'agosto incominciò ancora con piogge violente. — Untempo da far venire il raffreddore alle rane — diceva il capitano Hod;ma, in sostanza, sarebbe stato meno piovoso del mese di luglio, e, perconseguenza, più propizio alle nostre escursioni nel Tarryani.

Frattanto i rapporti con il kraal erano frequenti. Mathias Van

Guitt era poco contento. Anch'egli contava di lasciarel'accampamento ai primi giorni di settembre. Ma al suo serraglio

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mancavano ancora un leone, due tigri e due leopardi ed egli sidomandava se avrebbe potuto completare la serie.

In compenso, in mancanza degli attori che voleva scritturare perconto dei suoi committenti, altri vennero a presentarsi alla sua

agenzia, ma egli non sapeva che farne.Fu così che, nella giornata del 4 agosto, un bell'orso si fece

 prendere in una delle sue trappole.Eravamo appunto al kraal, quando i suoi chikaris gli condussero

nella gabbia a ruote un prigioniero di grosse dimensioni, pelliccianera, artigli acuminati, grandi orecchie pelose, cosa piuttosto particolare per questi rappresentanti della famiglia degli ursidi nelleIndie.

 — Eh! che bisogno ho io di questo inutile tardigrado! — esclamòil fornitore alzando le spalle.

 — Fratello Ballon! fratello Ballon! — ripetevano gli indù.A quanto pare, se gli indù non sono che nipoti delle tigri, degli

orsi sono fratelli.Ma Mathias Van Guitt, nonostante questo grado di parentela,

ricevette il fratello Ballon con inequivocabile dimostrazione di

cattivo umore. Prendere degli orsi quando gli occorrevano delle tigri,non era cosa da accontentarlo. Che cosa avrebbe fatto diquell'animale importuno? Gli conveniva poco di nutrirlo senzasperanza di ricavarne le spese; l'orso indiano è richiesto ben poco suimercati d'Europa. Non ha il valore mercantile del grizzly d'America,né quello dell'orso polare. Ecco perché Mathias Van Guitt, buoncommerciante, non si curava di un animale ingombrante e di cuiavrebbe trovato difficilmente il modo di disfarsi.

 — Lo volete? — domandò al capitano Hod. — E che cosa volete che ne faccia? — rispose il capitano. — Ne farete bistecche — disse il fornitore — se pure posso usare

questa catacresi! — Signor Van Guitt — rispose seriamente Banks — la catacresi è

una figura permessa, quando, in mancanza di altra espressione, rendeadeguatamente il pensiero.

 — Siamo d'accordo — replicò il fornitore.

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 — Ebbene, Hod — disse Banks — prendete o non prendete l'orsodel signor Van Guitt?

 — In fede mia, no! — rispose il capitano Hod. — Passi, mangiaredelle bistecche d'orso quando l'orso è ucciso; ma uccidere l'orso

apposta per mangiarne le bistecche, non mi stuzzica l'appetito! — Allora, che questo plantigrado sia restituito alla libertà — disse

Mathias Van Guitt, rivolgendosi ai suoi chikaris. Il fornitore fu obbedito. La gabbia venne portata fuori del kraal, e

uno degli indù ne aprì la porta.Fratello Ballon, che sembrava vergognarsi parecchio della propria

situazione, non se lo fece dire due volte. Usci tranquillamente dallagabbia, fece un piccolo dondolio con il capo, che si poteva prendere per un ringraziamento, e se la svignò mandando un grugnito disoddisfazione.

 — Avete fatto una buona azione — disse Banks. — Vi porteràfortuna, signor Van Guitt.

Banks non sapeva di essere così buon indovino. La giornata del 6agosto doveva ricompensare il fornitore, procurandogli una delle belve che mancavano al serraglio.

Ecco in quali circostanze:Mathias Van Guitt, il capitano Hod e io, accompagnati da Fox, dalmacchinista Storr e da Kâlagani, percorrevamo, fin dall'alba, una fittamacchia di cactus e di lentischi, quando si udirono dei ruggitisemisoffocati.

Immediatamente, con i fucili pronti a far fuoco, ben in gruppotutti e sei, in modo da difenderci contro un attacco isolato, cidirigemmo verso il luogo sospetto.

Cinquanta passi più in là, il fornitore ci fece fermare. Dalla naturadei ruggiti gli sembrava di aver riconosciuto di che cosa si trattava, erivolgendosi particolarmente al capitano Hod:

 — Soprattutto, niente fucilate inutili — disse.Poi, dopo essere avanzato di alcuni passi, mentre, a un suo cenno,

noi rimanevamo indietro: — Un leone! — esclamò.

Infatti, all'estremità di una robusta corda, legata alla forcella di ungrosso ramo, si dibatteva un animale.

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Era proprio un leone, uno di quei leoni senza criniera, - che perquesto appunto si distinguono dai loro confratelli d'Africa, - ma unvero leone, il leone richiesto da Mathias Van Guitt.

La feroce belva, appesa per una delle zampe anteriori, stretta dal

nodo scorsoio della corda, dava delle scosse terribili, senza riuscire aliberarsi.

Il primo movimento del capitano Hod, nonostante laraccomandazione del fornitore, fu di far fuoco.

 — Non sparate, capitano! — esclamò Mathias Van Guitt. — Vene scongiuro, non sparate!

 — Ma... — No! no! vi dico! Questo leone è stato preso in una delle mie

trappole, e mi appartiene!Era una trappola infatti, una trappola-forca, molto semplice e

ingegnosa.Una corda resistente viene fissata a un ramo d'albero forte e

flessibile. Questo ramo viene curvato verso il suolo, in modo chel'estremità inferiore della corda, che termina in un nodo scorsoio, possa essere inserita nella tacca di un piolo solidamente conficcato in

terra. Sopra questo piolo si mette un'esca, in modo che, se un animalevuol toccarla, dovrà cacciare nel nodo o la testa o una delle zampe.Ma appena lo ha fatto, l'esca, per poco che sia stata mossa, fa uscirela corda dalla tacca, il ramo si raddrizza, l'animale viene sollevato, enel medesimo istante, un pesante cilindro di legno, scivolando lungola corda, cade sul nodo, lo stringe fortemente e gli impedisce disciogliersi agli sforzi dell'impiccato.

Questo tipo di trappola viene usato di frequente nelle foreste

dell'India, e le belve vi si lasciano prendere molto più comunementedi quel che si possa credere.

Per lo più, accade che l'animale venga preso per il collo, il che porta allo strangolamento quasi immediato, mentre la testa è quasifracassata dal pesante cilindro di legno. Ma il leone che si dibattevasotto i nostri occhi era stato preso solo per la zampa. Era dunquevivo, vivissimo e degno di figurare fra gli ospiti del fornitore.

Mathias Van Guitt, lietissimo della cosa, mandò Kâlagani al kraalcon l'ordine di far venire la gabbia a ruote sotto la guida di un

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carrettiere. Frattanto, potemmo osservare a nostro agio l'animale, che per la nostra presenza si infuriava sempre più.

Il fornitore, poi, non ne staccava gli occhi. Girava intornoall'albero, avendo però cura di tenersi fuori della portata delle

zampate che il leone tirava a destra e a sinistra.Mezz'ora dopo giungeva la gabbia trascinata da due bufali.

L'impiccato vi veniva calato dentro, non senza fatica, e riprendevamola via del kraal. 

 — Cominciavo proprio a disperare, — ci disse Mathias Van Guitt. — I leoni non figurano per una cifra importante fra le belve nemoralidell'India...

 — Nemorali? — disse il capitano Hod. — Sì, gli animali che infestano le foreste, e mi rallegro di aver

 potuto catturare questa belva che farà onore al mio serraglio!Del resto, Mathias Van Guitt da quel giorno in poi non dovette più

lamentarsi della sua cattiva sorte.L'11 agosto, furono presi insieme due leopardi in quella prima

trappola da tigri, dalla quale avevamo tirato fuori il fornitore.Erano due tchîtas, simili a quello che aveva assalito così

audacemente il Gigante d'Acciaio nelle pianure del Rohilkhand, e dicui non avevamo potuto impadronirci.Mancavano solo due tigri perché la raccolta di Mathias Van Guitt

fosse completa.Eravamo al 15 agosto. Il colonnello Munro non era ancora

ricomparso; non la minima sua notizia. Banks era più preoccupato diquanto volesse far credere. Egli interrogò Kâlagani, che conosceva lafrontiera nepalese, sui pericoli che poteva correre sir Edward Munro

avventurandosi in quei territori indipendenti. L'indù gli assicurò chenon rimaneva più uno solo dei partigiani di Nana Sahib al confine delTibet. Tuttavia parve dolersi che il colonnello non lo avesse scelto per guida. I suoi servigi gli sarebbero stati utilissimi in un paese dicui conosceva perfino i più stretti sentieri. Ma ormai non si poteva pensare a raggiungerlo.

Frattanto, il capitano Hod e Fox, in particolare, continuavano le

loro escursioni nel Tarryani. Aiutati dai chikaris del kraal, riuscironoad ammazzare tre altre tigri, di medie dimensioni, non senza correre

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gravi rischi. Due di queste belve furono messe sul conto del capitano,la terza su quello dell'attendente.

 — Quarantotto! — disse Hod, che avrebbe voluto raggiungere lacifra rotonda di cinquanta prima di lasciare l'Himalaya.

 — Trentanove! — aveva detto Fox, senza parlare di una pericolosissima pantera, che era caduta sotto i suoi proiettili.

Il 20 agosto, la penultima delle tigri volute da Mathias Van Guittsi fece prendere in una di quelle fosse, dalle quali, o per istinto, o percaso, erano sfuggite fino allora. L'animale, come accade per lo più, siferì nella caduta, ma la ferita non era grave. Alcuni giorni di ripososarebbero bastati a garantire la sua guarigione, e nessuno se nesarebbe accorto quando ne fosse fatta la consegna per conto delladitta Hagenbeck di Amburgo.

L'uso di queste fosse è considerato dagli intenditori come unmetodo barbaro. Quando si tratta soltanto di distruggere gli animali,è evidente che qualsiasi mezzo è buono; ma se si vuol prenderli vivi,la morte è troppo spesso la conseguenza della loro caduta, soprattuttoquando cadono in quelle fosse, profonde quindici o venti piedi,destinate alla cattura degli elefanti. Di dieci animali, è molto se se ne

 può ritrovare uno senza qualche frattura mortale. Perciò, perfino nelMysore, dove questo sistema era molto usato, ci disse il fornitore, sicomincia ad abbandonarlo.

In fin dei conti, mancava una sola tigre al serraglio del kraal, eMathias Van Guitt avrebbe voluto averla già in gabbia; aveva frettadi partire per Bombay.

 Non doveva tardare ad impadronirsi di quella tigre, ma a che prezzo! La cosa va raccontata con un po' di particolari, perché

quell'animale venne pagato caro, troppo caro.A cura del capitano Hod era stata organizzata una spedizione per

la notte del 26 agosto. Le circostanze promettevano che la caccia sisarebbe svolta in condizioni favorevoli, poiché il cielo era sgombrodi nuvole, l'atmosfera tranquilla e la luna calante. Quando le tenebresono molto profonde, le belve lasciano volentieri le loro tane, mentrela semioscurità le invita. Per l'esattezza, il menisco (vocabolo di

Mathias Van Guitt che definisce il quarto di luna) avrebbecominciato a brillare dopo mezzanotte.

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Il capitano Hod e io, Fox e Storr, che aveva cominciato a prendervi gusto, formavamo il nucleo di questa spedizione, alla qualedovevano unirsi il fornitore, Kâlagani e alcuni dei suoi indù.

Dunque, terminato il pranzo, dopo esserci accomiatati da Banks,

che aveva declinato l'invito di accompagnarci, lasciammo la Steam-House verso le sette di sera, e alle otto giungevamo al kraal senzaaver fatto cattivi incontri.

Mathias Van Guitt terminava di cenare in quel momento; ciricevette con le sue solite manifestazioni. Tenemmo consiglio, evenne subito fissato il piano della caccia.

Si trattava di andare ad appostarsi sulla riva di un torrente, infondo a uno di quei burroni che si chiamano nullahs, a due miglia dalkraal, in un punto che una coppia di tigri visitava abbastanzaregolarmente durante la notte. Non vi era stata disposta precedentemente nessuna esca. Stando a quello che dicevano gliindù, era inutile. Una ricognizione, fatta poco tempo prima in quella parte del Tarryani, provava che il bisogno di dissetarsi bastava adattirare le tigri in fondo a quel nullah. Si sapeva anche che sarebbestato facile trovare dei buoni appostamenti.

 Non dovevamo lasciare il kraal  prima di mezzanotte. Ora, eranosolo le otto. Bisognava dunque aspettare, senza annoiarsi troppo, ilmomento della partenza.

 __ Signori, — ci disse Mathias Van Guitt, — la mia casa è tuttaquanta a vostra disposizione. Vi consiglio di fare come me, dicoricarvi. Si tratta di essere più che mattinieri, e qualche ora di sonnonon può che prepararci meglio alla lotta.

 — Avete forse voglia di dormire, Maucler? — mi domandò il

capitano Hod. — No, — risposi, — e preferisco aspettare l'ora passeggiando,

 piuttosto che essere costretto a svegliarmi dal pieno sonno. — Come vorrete, signori, — rispose il fornitore. — Quanto a me,

 provo già quel battito spasmodico delle palpebre che è provocato dal bisogno di dormire. Vedete, comincio già a fare dei movimenti di pendicolazione!

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E Mathias Van Guitt, alzando le braccia, rovesciando indietro latesta e il tronco per un'estensione involontaria dei muscoliaddominali, lasciò sfuggire alcuni sbadigli molto espressivi.

Dunque, quando ebbe «pendicolato» a suo agio, ci fece un ultimo

cenno d'addio, entrò nella sua capanna, e, senza dubbio, non tardò adaddormentarvisi.

 — E noi, che cosa faremo? — domandai. — Andiamo a spasso, Maucler, — mi rispose il capitano Hod, —

andiamo a spasso per il kraal. La notte è bella, e sarò megliodisposto alla partenza che non se dormissi tre o quattr'ore. Del resto,se il sonno è il nostro miglior amico, è un amico che spesso si faaspettare molto.

Incominciammo a andare su e giù per il kraal  pensando echiacchierando. Storr, «che il suo miglior amico non aveval'abitudine di far aspettare», era sdraiato sotto un albero e dormivagià. I chikaris e i carrettieri si erano pure rannicchiati nel lorocantuccio, e nel recinto non c'era più nessuno che vegliasse.

Era inutile, in sostanza, poiché il kraal, circondato da una solida palizzata, era perfettamente chiuso.

Kâlagani andò ad assicurarsi di persona che la porta fosse statachiusa con cura; fatto ciò, poi, dopo averci augurato la buona sera passando, ritornò nella stanza comune ai suoi compagni ed a lui.

Il capitano Hod e io eravamo assolutamente soli. Non solo il personale di Van Guitt, ma anche gli animali

domestici e le belve dormivano, queste nelle loro gabbie, quelliaggruppati sotto i grandi alberi, in fondo al kraal. Silenzio assolutotanto dentro quanto fuori.

La passeggiata ci condusse dapprima verso il luogo occupato dai bufali. Questi magnifici ruminanti, tranquilli e docili, non eranoneppure impastoiati. Abituati a riposare sotto il fogliame degli acerigiganteschi, li vedevamo pacificamente sdraiati, con le cornaaggrovigliate, le zampe ripiegate, e da quelle masse enormi si udivauscire una lenta e rumorosa respirazione.

 Non si svegliarono neppure quando ci avvicinammo. Uno solo di

loro raddrizzò per un attimo la grossa testa, ci gettò addosso quello

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sguardo vago che è proprio degli animali di questa specie, poi siriaddormentò come gli altri.

 — Ecco in che stato li riduce la domesticità, o megliol'addomesticamento, — dissi al capitano.

 — Sì, — mi rispose Hod, — eppure, questi bufali sono deglianimali terribili, quando vivono allo stato selvaggio. Ma se hanno persé la forza, non hanno l'agilità, e che cosa possono fare le loro cornacontro i denti dei leoni o gli artigli delle tigri? Decisamente, sono le belve ad essere in vantaggio.

Così chiacchierando, eravamo ritornati verso le gabbie. Anche là,riposo assoluto. Tigri, leoni, pantere, leopardi, dormivano nei loroscompartimenti separati. Mathias Van Guitt li riuniva solo quandoerano resi docili da alcune settimane di prigionia, e aveva ragione.Certamente, infatti, quei feroci animali, nei primi giorni di prigionia,si sarebbero divorati fra di loro.

I tre leoni, perfettamente immobili, erano coricati in semicerchiocome grossi gatti. Non si vedeva più la loro testa, nascosta in unafolta pelliccia nera, e dormivano il sonno del giusto.

Assopimento meno completo negli scompartimenti delle tigri.

Occhi ardenti fiammeggiavano nel buio. Una grossa zampa siallungava ogni tanto e artigliava le sbarre di ferro. Era un sonno dacarnivori che mordono il freno.

 — Fanno dei brutti sogni, e si capisce! — disse ilcompassionevole capitano.

Dei rimorsi, senza dubbio, agitavano anche le tre pantere, o, per lomeno, dei rimpianti. A quell'ora, libere da qualsiasi legame,avrebbero corso per la foresta! Avrebbero gironzolato intorno ai

 pascoli in cerca di carne viva!Quanto ai quattro leopardi, nessun incubo turbava il loro sonno.

Riposavano tranquillamente. Due di quei felini, il maschio e lafemmina, occupavano la stessa camera da letto, e se ne stavano làcosì bene come se fossero stati in fondo alla loro tana.

Un solo scompartimento era ancora vuoto, quello che dovevaoccupare la sesta imprendibile tigre, di cui Mathias Van Guitt

aspettava solo la cattura per lasciare il Tarryani.

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La nostra passeggiata durò un'ora circa. Dopo aver fatto il giro delrecinto interno del kraal, ritornammo ad accomodarci ai piedi diun'enorme mimosa.

Un silenzio perfetto regnava in tutta la foresta. Il vento che

stormiva ancora attraverso le foglie, al cader del giorno, era cessato. Non si muoveva una foglia. Lo spazio era calmo tanto alla superficiedel suolo quanto negli alti strati vuoti d'aria, dove la luna spostava ilsuo mezzo disco.

Il capitano Hod ed io, seduti uno accanto all'altro, nonchiacchieravamo più. Ma il sonno non ci prendeva. Era piuttostoquella specie di assorbimento, più morale che fisico, di cui si subiscel'influenza durante il riposo totale della natura. Si pensa, ma non siformulano i pensieri. Si sogna come sognerebbe un uomo che nondorme, e lo sguardo, non ancora velato dalle palpebre, tende piuttostoa perdersi dietro qualche visione fantastica.

Tuttavia, un fatto curioso stupiva il capitano, e parlando a bassavoce, come si fa quasi inconsciamente quando tutto tace intorno anoi, mi disse:

 — Maucler, un silenzio simile mi stupisce! Le belve ruggiscono

di solito nel buio, e durante la notte la foresta è rumorosa. Inmancanza di tigri o di pantere, sono gli sciacalli, che non sono mai inozio. Questo kraal  pieno di creature vive dovrebbe attirarli acentinaia, eppure, non sentiamo nulla, non un solo scricchiolio diramo secco al suolo, non un urlo di fuori. Se Mathias Van Guitt fossesveglio, certamente non sarebbe meno sorpreso di me, e troverebbequalche vocabolo straordinario per manifestare il suo stupore!

 — La vostra osservazione è giusta, caro Hod, — risposi, — e non

so a quale causa attribuire l'assenza di quei vagabondi notturni. Ma badiamo a noi stessi, oppure, in mezzo a questa calma, finiremo conl'addormentarci!

 — Resistiamo, resistiamo! — rispose il capitano Hod stirandosi le braccia. — Si avvicina l'ora in cui bisognerà partire.

E riprendemmo a chiacchierare a frasi strascicate, rotte da lunghisilenzi.

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Quanto tempo durò questa fantasticheria, non avrei potuto dirlo,ma ad un tratto si verificò una sorda agitazione che mi tolse di colpoda quello stato di sonnolenza.

Il capitano Hod, scosso lui pure dal suo torpore, si era alzato

insieme con me. Non c'era da dubitarne, l'agitazione si era verificata nelle gabbie

delle belve.Leoni, tigri, pantere, leopardi, fino a quel momento tanto

tranquilli, ora facevano udire un sordo brontolio di collera. In piedinei loro scompartimenti, andavano e venivano a passi brevi,fiutavano fortemente qualche odore esterno, e si alzavano sullegambe posteriori sbuffando contro le sbarre di ferro delle gabbie.

 — Ma che cosa hanno? — feci io. — Non so, — rispose il capitano Hod, — ma temo che abbiano

sentito l'avvicinarsi di...Ad un tratto, si udirono dei formidabili ruggiti intorno al recinto

del kraal.  — Delle tigri! — esclamò il capitano Hod, precipitandosi verso la

capanna di Mathias Van Guitt.

Ma la violenza di quei ruggiti era stata tale, che tutto il personaledel kraal era già in piedi, e il fornitore, seguito dai suoi servi,appariva sulla porta.

 — Un attacco!... — gridò. — Lo credo, — rispose il capitano Hod. — Aspettate! Bisogna vedere!...E, senza nemmeno finire la frase, Mathias Van Guitt, afferrata una

scala, la appoggiò contro la palizzata. In un istante ne raggiunse

l'ultimo scalino. — Dieci tigri e una dozzina di pantere! — esclamò. — Sarà una cosa seria, — rispose il capitano Hod. — Volevamo

dar loro la caccia, ed ora sono loro che ce la danno! — Ai fucili! ai fucili! — gridò il fornitore.E tutti, obbedendo ai suoi ordini, in venti secondi, eravamo pronti

a far fuoco.

Questi attacchi in massa di belve non sono rari in India. Moltevolte gli abitanti dei territori battuti dalle tigri, e in modo particolare

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quelli del Sunderbund, sono stati assediati nelle loro abitazioni. Èuna pericolosa eventualità, e, troppo spesso, il vantaggio tocca agliassalitori!

Frattanto, ai ruggiti esterni si erano aggiunti gli urli interni. Il

kraal rispondeva alla foresta; non ci si poteva più udire nel recinto. — Alle palizzate! — gridò Mathias Van Guitt, che si fece

intendere a gesti più che a parole.Tutti ci precipitammo verso la cinta.In quel momento, i bufali, in preda al terrore, si dibattevano per

abbandonare il posto in cui erano chiusi. I carrettieri cercavanoinvano di trattenerveli.

Improvvisamente, la porta, la cui sbarra, senza dubbio, era statachiusa male, si aprì violentemente, ed una turba di belve forzòl'ingresso del kraal. 

Eppure, Kâlagani aveva chiuso quella porta con la massima cura,come faceva tutte le sere!

 — Alla capanna! alla capanna! — gridò Mathias Van Guitt,lanciandosi verso l'edificio, l'unico che potesse offrire un rifugio.

Ma avremmo avuto il tempo di giungervi? Già due dei chikaris,

raggiunti dalle tigri, erano rotolati a terra. Gli altri, non potendo piùgiungere alla capanna, fuggivano per il kraal, cercando un riparoqualsiasi.

Il fornitore, Storr e sei indù raggiunsero finalmente la capanna, lacui porta fu chiusa nel momento in cui due pantere stavano per precipitarvisi.

Kâlagani, Fox e gli altri, aggrappandosi agli alberi, si eranoarrampicati fino ai primi rami. Il capitano Hod e io non avevamo

avuto né il tempo né la possibilità di raggiungere Mathias Van Guitt. — Maucler! Maucler! — gridò il capitano Hod, il cui braccio

destro era stato lacerato da un colpo d'artiglio.Con un colpo di coda, un'enorme tigre mi aveva gettato a terra. Mi

rialzai nel momento in cui l'animale tornava a dirigersi verso di me, ecorsi verso il capitano Hod per dargli aiuto.

Un solo rifugio ci rimaneva allora: lo scompartimento vuoto della

sesta gabbia. In un istante, Hod ed io vi fummo dentro, e la porta

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chiusa ci metteva momentaneamente al riparo dalle belve, che sigettarono urlando contro le sbarre di ferro.

Fu tale allora l'accanimento di quelle belve furibonde, unito allacollera delle tigri imprigionate negli scompartimenti vicini, che la

gabbia, oscillando sulle ruote, per poco non venne rovesciata.Ma le tigri l'abbandonarono presto per rivolgersi a prede più

sicure.Che scena della quale non perdevamo nessun particolare

guardando attraverso le sbarre della nostra gabbia! — È il mondo alla rovescia! — esclamò il capitano Hod, che era

furioso. — Loro fuori, e noi dentro! — E la vostra ferita? — domandai. — Non è nulla!Cinque o sei fucilate scoppiarono in quel momento. Partivano

dalla capanna occupata da Mathias Van Guitt, contro la quale siavventavano due tigri e tre pantere.

Uno di quegli animali cadde fulminato da un proiettile esplosivo,che doveva provenire dalla carabina di Storr.

Quanto agli altri, dapprima si erano precipitati sul gruppo dei

 bufali, e questi disgraziati ruminanti stavano per trovarsi senza difesacontro simili avversari.Fox, Kâlagani e gli indù, che avevano dovuto gettar via le loro

armi per arrampicarsi più in fretta sugli alberi, non potevano andarein loro aiuto.

Frattanto il capitano Hod, passando la carabina attraverso le sbarredella nostra gabbia, fece fuoco. Benché il suo braccio destro,semiparalizzato dalla ferita, non gli permettesse di tirare con la

 precisione abituale, ebbe la fortuna di abbattere la suaquarantanovesima tigre.

In quel momento i bufali, fuori di sé, si precipitarono muggendoattraverso il recinto. Invano tentarono di fronteggiare le tigri, le quali,con balzi formidabili sfuggivano alle cornate. Uno di loro, portandosul dorso una pantera, i cui artigli gli laceravano il garrese, giunsedavanti alla porta del kraal e si slanciò fuori.

Cinque o sei altri, stretti da vicino dalle belve, gli corsero dietro escomparvero.

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Alcune tigri si gettarono al loro inseguimento; ma i bufali che nonavevano potuto abbandonare il kraal, sgozzati, sventrati, giacevanoormai al suolo.

Altre fucilate scoppiavano attraverso le finestre della capanna. Dal

canto nostro, il capitano Hod e io, facevamo del nostro meglio. Unnuovo pericolo ci minacciava.

Gli animali chiusi nelle gabbie, eccitati dall'accanimento dellalotta, dall'odore del sangue e dagli urli dei loro confratelli, sidibattevano con violenza indescrivibile. Sarebbero riusciti a spezzarele loro sbarre? In verità dovevamo temerlo.

Infatti, una delle gabbie delle tigri fu rovesciata; credetti per unistante che le sue pareti spezzate le avessero lasciate libere!...

Fortunatamente non era così; i prigionieri non potevano piùnemmeno vedere ciò che accadeva al di fuori, poiché era la faccia provvista di inferriata della loro gabbia che posava contro la terra.

 — Decisamente sono troppi! — mormorò il capitano Hod,ricaricando la carabina.

In quel momento una tigre diede un balzo prodigioso, e con l'aiutodegli artigli, riuscì ad aggrapparsi alla biforcazione di un albero, su

cui avevano cercato rifugio due o tre chikaris. Uno di questi disgraziati, afferrato alla gola, tentò invano diresistere e fu precipitato a terra.

Una pantera venne a disputare alla tigre quel corpo già privo divita, le cui ossa scricchiolarono in mezzo ad una pozza di sangue.

 — Ma fuoco! fuoco dunque! — gridava il capitano Hod, come seavesse potuto farsi udire da Mathias Van Guitt e dai suoi compagni.

Quanto a noi, era ormai impossibile che intervenissimo! Le nostre

cartucce erano terminate, e non potevamo più essere che spettatoriimpotenti di quella lotta.

Ma ecco che, nello scompartimento vicino al nostro, una tigre, checercava di spezzare le sue sbarre, riuscì, dando una scossa violenta, arompere l'equilibrio della gabbia. Essa oscillò un istante e si rovesciòquasi subito.

Leggermente contusi nella caduta, ci eravamo alzati in ginocchio.

Le pareti avevano resistito, ma non potevamo vedere più nulla diquanto accadeva fuori.

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Se non si vedeva, almeno si udiva! Che sabba di urli nel recintodel kraall Che odore di sangue impregnava l'atmosfera! Sembravache la lotta avesse preso un carattere più violento. Che cosa eradunque accaduto? I prigionieri delle altre gabbie erano forse fuggiti?

Assalivano forse la capanna di Mathias Van Guitt? Oppure, tigri e pantere si slanciavano sugli alberi per strapparne gli indù?

 — E non poter uscire da questa scatola! — esclamava il capitanoHod in preda ad un vero accesso di rabbia.

Un quarto d'ora circa, un quarto d'ora di cui contavamo gliinterminabili minuti!, trascorse in quelle condizioni.

Poi, a poco a poco, il rumore della lotta diminuì. Gli urli si fecero più deboli. I balzi delle tigri che occupavano gli scompartimenti dellanostra gabbia divennero più rari. Il massacro era dunque finito!

Ad un tratto udii la porta del kraal che si chiudeva con granfracasso; poi, Kâlagani ci chiamò con grandi grida. Alla sua voce siuniva quella di Fox, che ripeteva:

 — Capitano! capitano! — Da questa parte! — rispose Hod.Venne udito, e quasi subito sentii che la gabbia veniva rialzata.

Un istante dopo eravamo liberi. — Fox! Storr! — gridò il capitano, il cui primo pensiero fu per isuoi compagni.

 — Presenti! — risposero il macchinista e l'attendente. Non erano nemmeno feriti. Anche Mathias Van Guitt e Kâlagani

erano sani e salvi. Due tigri ed una pantera giacevano morte a terra;le altre avevano lasciato il kraal, di cui Kâlagani aveva richiusa la porta. Eravamo tutti al sicuro.

 Nessuna delle belve del serraglio era riuscita a fuggire durante lalotta, e anzi il fornitore aveva un prigioniero in più. Era una giovanetigre, rimasta imprigionata nella piccola gabbia mobile, che le si erarovesciata addosso, e sotto la quale era stata presa come in unatrappola.

Lo stock di Mathias Van Guitt era dunque al completo; ma quantogli costava caro! Cinque dei suoi bufali erano sgozzati, gli altri erano

fuggiti, e tre indù, orrendamente mutilati, nuotavano nel loro sanguesul suolo del kraal. 

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C  APITOLO VI

 L'ULTIMO  ADDIO  DI   MATHIAS  VAN  GUITT

DURANTE il resto della notte non avvenne nessun incidente, né aldi dentro né al di fuori del recinto. La porta era stata saldamentechiusa, questa volta. Come mai aveva potuto aprirsi nel momento in

cui la massa di belve circondava la palizzata? Era inesplicabile, poiché lo stesso Kâlagani aveva assicurato nei loro incastri le robustetraverse che ne assicuravano la chiusura.

La ferita del capitano Hod lo faceva soffrire molto, benché fossesolo una graffiatura. Ma era mancato poco che perdesse l'uso del braccio destro.

Per conto mio, non sentivo più nulla del violento colpo di codache mi aveva gettato a terra.

Decidemmo dunque di ritornare alla Steam-House non appenafosse spuntato il giorno.

Quanto a Mathias Van Guitt, tranne il vivo rammarico d'aver perduto tre dei suoi uomini, non si mostrava affatto scontento dellasituazione, benché l'essere rimasto privato dei bufali dovessemetterlo in un certo imbarazzo, al momento della partenza.

 — Sono gli incerti del mestiere, — ci disse, — ed avevo come un presentimento che mi sarebbe accaduta qualche avventura di questogenere.

Poi, diede ordine che si procedesse alla sepoltura dei tre indù, i cuicadaveri furono inumati in un angolo del kraal, a una profonditàsufficiente perché le belve non potessero dissotterrarli.

Frattanto, l'alba non tardò a imbiancare le pendici del Tarryani, edopo molte strette di mano, ci accomiatammo da Mathias Van Guitt.

Per accompagnarci, almeno durante il nostro passaggio attraverso

la foresta, il fornitore volle mettere a nostra disposizione Kâlagani e

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due dei suoi indù. La sua offerta venne accettata, e alle sei uscimmodal recinto del kraal. 

 Nessun cattivo incontro distinse il nostro ritorno. Di tigri, di pantere, non rimaneva più la minima traccia. Le belve, ben pasciute,

erano senza dubbio ritornate nei loro covi, e non era quello ilmomento di andarvele a cercare.

Quanto ai bufali che erano fuggiti dal kraal, o erano stati sgozzatie giacevano sotto le alte erbe oppure, smarriti nelle profondità delTarryani, non bisognava illudersi che il loro istinto li avrebbericondotti al kraal. Andavano perciò considerati comedefinitivamente perduti per il fornitore.

Alla fine della foresta, Kâlagani e i due indù ci lasciarono. Un'oradopo, Phann e Black annunciavano con i loro latrati il nostro ritornoalla Steam-House.

Feci a Banks il resoconto delle nostre avventure. Inutile dire comesi felicitò con noi per essercela cavata così a buon mercato! Troppospesso, durante attacchi di questo genere, nessuno degli assaliti ha potuto ritornare a raccontare le gesta degli assalitori!

Quanto al capitano Hod, dovette, di buona o di mala voglia,

 portarsi il braccio al collo; ma l'ingegnere, che era il vero medicodella spedizione, non trovò nulla di grave nella sua ferita, e affermòche in pochi giorni sarebbe guarito.

In fondo, il capitano Hod era molto mortificato di aver ricevuto uncolpo senza averlo potuto restituire. Eppure, aveva aggiunto una tigrealle quarantotto che figuravano già nel suo attivo.

Il giorno dopo, 27 agosto, nel pomeriggio, i latrati dei caniecheggiarono con forza, ma allegramente.

Erano il colonnello Munro, Mac Neil e Goûmi che ritornavano alsanitarium. Il loro ritorno ci tolse da un gran pensiero. Sir EdwardMunro aveva condotto a buon fine la sua spedizione? Non losapevamo ancora. Ritornava sano e salvo, questo era l'importante.

Subito, Banks gli era corso incontro, gli stringeva la mano,interrogandolo con lo sguardo.

 — Nulla! — si limitò a rispondere il colonnello Munro con un

semplice cenno del capo.

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Quella parola significava non solo che le ricerche intraprese sullafrontiera nepalese non avevano dato alcun risultato, ma che ogniconversazione su quell'argomento diventava inutile. Sembrava dirciche non c'era più bisogno di parlarne.

Mac Neil e Goûmi, che Banks interrogò la sera, furono piùespliciti. Essi gli dissero che il colonnello Munro avevaeffettivamente voluto rivedere quella parte dell'Indostan in cui NanaSahib si era rifugiato prima della sua riapparizione nella presidenzadi Bombay. Assicurarsi di quello che era avvenuto dei compagni delnababbo, cercare se non fosse rimasta qualche traccia del loro passaggio su quel punto della frontiera indocinese, tentare di saperese, in mancanza di Nana Sahib, suo fratello Balao Rao si nascondessein quella regione, non ancora soggetta al dominio inglese, ecco qualera stato lo scopo di sir Edward Munro. Ora, dalle sue ricercherisultava, in modo certo, che i ribelli avevano lasciato il paese. Delloro accampamento, in cui erano state celebrate le false esequiedestinate ad accreditare la morte di Nana Sahib, non rimaneva piùtraccia. Di Balao Rao, nessuna notizia. Dei suoi compagni, nulla che potesse permettere di mettersi sulle loro tracce. Il nababbo ucciso

nelle gole dei monti Sautpurra, i suoi seguaci dispersi, probabilmenteoltre i confini della penisola, l'opera di giustiziere non era più dacompiere. Lasciare la frontiera himalayana, continuare il viaggioritornando a sud, terminare, insomma, il nostro itinerario da Calcuttaa Bombay, ecco a che cosa dovevamo pensare unicamente.

La partenza fu dunque stabilita e fissata fra otto giorni, al 3settembre. Bisognava lasciare al capitano Hod il tempo necessario per la completa guarigione della sua ferita. D'altra parte il colonnello

Munro, visibilmente stanco in seguito alla sua faticosa escursione inun paese così difficile, aveva bisogno di alcuni giorni di riposo.

In quel periodo Banks avrebbe cominciato a fare i suoi preparativi. Per rimettere il nostro treno in condizioni di ridiscenderenella pianura e di prendere la strada dall'Himalaya alla presidenza diBombay, c'era di che tenerlo occupato per una settimana intera.

Anzitutto, fu stabilito che l'itinerario sarebbe stato modificato una

seconda volta, in modo da evitare le grandi città di nord-ovest, Mirat,Delhi, Agra, Gwalior, Jansi e altre, nelle quali l'insurrezione del 1857

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aveva lasciato troppi disastri. Con gli ultimi ribelli dell'insurrezionedoveva scomparire tutto ciò che poteva rammentarla al colonnelloMunro. Le nostre case ambulanti avrebbero dunque procedutoattraverso le province senza fermarsi nelle città principali, ma il

 paese valeva la pena di essere visitato se non altro per le sue bellezzenaturali. L'immenso regno di Scindia, sotto questo aspetto, èinsuperabile. Davanti al nostro Gigante d'Acciaio, si sarebbero apertele vie più pittoresche della penisola.

Il monsone era finito con la stagione delle piogge, che non si prolunga oltre il mese d'agosto. I primi giorni di settembre promettevano una temperatura gradevole, che doveva rendere meno penosa quella seconda parte del viaggio.

Durante quella seconda settimana del nostro soggiorno alsanitarium, Fox e Goûmi dovettero farsi fornitori quotidiani delladispensa. Accompagnati dai due cani, percorsero la zona media incui pullulano le pernici, i fagiani, le ottarde. Questi volatili,conservati nella ghiacciaia della Steam-House, dovevano forniredell'ottima selvaggina per il viaggio.

Andammo a far visita al kraal due o tre volte ancora. Là, anche

Mathias Van Guitt era intento a prepararsi alla partenza per Bombay,affrontando le seccature da filosofo che si sente superiore alle piccolee alle grandi miserie dell'esistenza.

Si sa che, con la cattura della decima tigre, che era costata cosìcara, il serraglio era completo. Mathias Van Guitt dunque doveva preoccuparsi solo di ricostituire i suoi tiri di bufali. Non uno solo deiruminanti che erano fuggiti durante l'attacco era riapparso al kraal.Era probabilissimo che, dispersi nella foresta, fossero morti di morte

violenta. Si trattava dunque di sostituirli, cosa che, in questecircostanze, non mancava di essere difficile. A quello scopo, ilfornitore aveva mandato Kâlagani a visitare le fattorie e le borgatevicine del Tarryani, e aspettava il suo ritorno con una certaimpazienza.

Quell'ultima settimana del nostro soggiorno al sanitarium  passòsenza incidenti. La ferita del capitano Hod guariva a poco a poco.

Forse addirittura egli calcolava di chiudere la sua campagna conun'ultima spedizione; ma dovette rinunciarvi in seguito alle

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 — Non lo so bene, — rispose Mathias Van Guitt. — Cerco...combino... esito... Eppure... l'ora della partenza è suonata, e il 20settembre, ossia fra diciotto giorni, devo consegnare a Bombay lemie belve...

 — Diciotto giorni! — soggiunse Banks, — ma allora non aveteun'ora da perdere!

 — Lo so, signor ingegnere. Perciò ho un unico mezzo, uno solo! — Quale? — È, pur non volendo incomodarlo minimamente, di rivolgere al

colonnello una domanda molto indiscreta... senza dubbio... — Parlate dunque, signor Van Guitt, — disse il colonnello Munro

 — e se posso esservi utile, credete pure che lo farò con piacere.Mathias Van Guitt s'inchinò, portò la mano destra alle labbra, la

 parte superiore del suo corpo si agitò dolcemente, e tutta la suaattitudine fu quella di un uomo che si sente oppresso daun'inaspettata bontà.

Insomma, il fornitore chiese, data la potenza di trazione delGigante d'Acciaio, se non fosse possibile attaccare le sue gabbie aruote in coda al nostro treno, e rimorchiarle così fino a Etawah, la

stazione più vicina della ferrovia Delhi-Allahabad.Era un tragitto che non superava i trecentocinquanta chilometri, per una strada abbastanza facile.

 — È possibile aiutare il signor Van Guitt? — domandò ilcolonnello all'ingegnere.

 — Non ci vedo alcuna difficoltà, — rispose Banks, — e il Giganted'Acciaio non si accorgerà neppure di questo aumento di carico.

 — Concesso, signor Van Guitt, — disse il colonnello Munro, —

condurremo il vostro materiale fino a Etawah. Fra vicini bisognasapersi aiutare, anche nell'Himalaya.

 — Colonnello, — rispose Mathias Van Guitt, — conoscevo lavostra bontà, e, per essere sincero, siccome si trattava di togliermid'impaccio, avevo fatto un po' d'assegnamento sulla vostra cortesia.

 — Avete avuto ragione, — rispose il colonnello Munro.Stabilita così ogni cosa, Mathias Van Guitt si preparò a ritornare

al kraal,  per licenziare una parte del suo personale, che gli diventava

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inutile. Egli contava di tenere con sé solo quattro chikarìs, necessari per la manutenzione delle gabbie.

 — A domani dunque, — disse il colonnello Munro. — A domani, signori, — rispose Mathias Van Guitt. — Aspetterò

al kraal l'arrivo del vostro Gigante d'Acciaio!E il fornitore, lietissimo della riuscita della sua visita alla Steam-

House, si ritirò, non senza aver fatto la sua uscita come un attore cherientra fra le quinte secondo tutte le tradizioni della commediamoderna.

Kâlagani, dopo aver guardato lungamente il colonnello Munro, ilcui viaggio alla frontiera del Nepal sembrava averlo seriamenteimpensierito, seguì il fornitore.

I nostri ultimi preparativi erano terminati. II materiale era statoricollocato al suo posto. Del sanitarium della Steam-House nonrimaneva più nulla. I due carri aspettavano soltanto il nostro Giganted'Acciaio. L'elefante doveva trascinarli prima di tutto fino alla pianura, poi andare al kraal a prendere le gabbie e ricondurle performare il treno. Dopo di che, si sarebbe mosso direttamenteattraverso le pianure del Rohilkhand.

Il giorno seguente, 3 settembre, alle sette del mattino, il Giganted'Acciaio era pronto a riprendere le funzioni che aveva espletate cosìcoscienziosamente fino allora. Ma, in quel momento, avvenne, congrande stupore di tutti, un incidente assolutamente inatteso.

Il forno della caldaia, chiusa nei fianchi dell'animale, era statocaricato di combustibile. Kâlouth, che lo aveva acceso, ebbe l'idea diaprire il cassetta del tiraggio, alla cui parete sono collegati i tubidestinati a condurre i prodotti della combustione attraverso la

caldaia, per vedere se qualcosa ostacolava il tiraggio.Ma, appena ebbe aperto lo sportello del cassetto, indietreggiò

 precipitosamente, e una ventina di cinghie vennero proiettate fuoricon un sibilo bizzarro.

Banks, Storr e io guardavamo senza poter indovinare la causa diquel fenomeno.

 — Ehi! Kâlouth, che cosa c'è? — domandò Banks.

 — Una pioggia di serpenti, signore! — esclamò il fuochista.

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Infatti, quelle cinghie erano serpenti, che avevano eletto domicilionei tubi della caldaia certo per dormirvi meglio. Le prime fiamme delforno li avevano raggiunti. Alcuni di quei rettili, già bruciati, eranocaduti a terra, e se Kâlouth non avesse aperto il cassetto del tiraggio,

sarebbero ben presto arrostiti tutti. — Come! — esclamò il capitano Hod, che accorse, — il nostro

Gigante d'Acciaio ha un nido di serpenti nelle viscere!Sì, in fede mia!, e dei più pericolosi, di quei whip snakes, serpenti-

staffile, goulabis, cobra neri, naja con gli occhiali, appartenenti allespecie più velenose.

E nello stesso tempo, un magnifico pitone-tigre, della famiglia dei boa, mostrava la sua testa aguzza all'imbocco superiore dellaciminiera, ossia all'estremità della proboscide dell'elefante,svolgendosi in mezzo alle prime volute di vapore.

I serpenti usciti vivi dai tubi si erano rapidamente dispersi neicespugli, senza che avessimo il tempo di distruggerli.

Ma il pitone non poté svignarsela così facilmente dal cilindro dilamiera, così il capitano Hod si affrettò ad andare a prendere la suacarabina, e, con una pallottola, gli spezzò la testa.

Goûmi, arrampicandosi allora sul Gigante d'Acciaio, si issò finoall'orifizio superiore della sua proboscide, e con l'aiuto di Kâlouth edi Storr riuscì a tirar fuori l'enorme rettile.

 Nulla di più splendido di quel boa, con la pelle d'un verde mistod'azzurro, decorata ad anelli regolari, e che sembrava tagliata in una pelle di tigre. Misurava non meno di cinque metri di lunghezza, edera grosso come un braccio.

Era dunque un superbo esemplare di quegli ofidi dell'India, e

avrebbe fatto una bellissima figura nel serraglio di Mathias VanGuitt, dato il nome di pitone-tigre che gli viene affibbiato. Ma, devoconfessare che il capitano Hod non credette di doverlo inserire nelsuo conteggio.

Fatto ciò, Kâlouth richiuse il cassetto, il tiraggio prese afunzionare regolarmente, il fuoco del forno si ravvivò, con il passaggio della corrente d'aria, la caldaia non tardò a brontolare

sordamente, e tre quarti d'ora dopo il manometro indicava una pressione sufficiente del vapore. Non restava più che partire.

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Mathias Van Guitt prendeva posto quotidianamente alla tavoladella Steam-House, dove il suo straordinario appetito faceva sempreonore alla cucina del signor Parazard.

Il buon funzionamento della dispensa non tardò ad esigere che i

soliti fornitori prestassero la loro opera, e il capitano Hod, perfettamente guarito, (la fucilata al pitone lo aveva dimostrato)riprese il fucile.

Del resto, bisognava pensare a nutrire, insieme con il personale,anche gli animali del serraglio. Questo compito spettava ai chikaris.Questi abili indù, diretti da Kâlagani, lui stesso ottimo tiratore, nonlasciarono mancare la carne di bisonte e d'antilope. Quel Kâlaganiera davvero un uomo eccezionale. Benché fosse poco comunicativo,il colonnello Munro lo trattava molto amichevolmente, non essendoegli di quelle persone che dimenticano un servizio ricevuto.

Il 10 settembre, il treno aggirava Philibit, senza fermarvisi, manon poté evitare un grande assembramento di indù che vennero afargli visita.

Decisamente, le belve di Mathias Van Guitt, per notevoli chefossero, non potevano sostenere alcun paragone con il Gigante

d'Acciaio. Non le guardavano neppure attraverso le sbarre delle lorogabbie, e tutta l'ammirazione era per l'elefante meccanico.Il treno continuava a scendere le lunghe pianure dell'India

settentrionale lasciando, a qualche lega a ovest, Bareilli, una delle principali città del Rohilkhand. Ora avanzava in mezzo a foreste popolate da una quantità d'uccelli di cui Mathias Van Guitt ci facevaammirare lo «smagliante piumaggio», ora in pianura, attraversoquelle macchie di acacie spinose, alte due o tre metri, che gli inglesi

chiamano wait-a-bit-bush. Là si trovavano cinghiali in gran numero,ghiottissimi delle bacche giallognole che questi arbusti producono.Alcuni di questi suini furono uccisi, non senza pericolo, poiché sonoanimali veramente selvaggi e pericolosi. In diverse occasioni, ilcapitano Hod e Kâlagani poterono mostrare quel sangue freddo equell'abilità che ne facevano due cacciatori straordinari.

Tra Philibit e la stazione di Etawah, il treno dovette attraversare

un tratto dell'alto Gange, e, poco tempo dopo, uno dei suoi importantiaffluenti, il Kali-Nadi.

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Tutto il materiale ambulante del serraglio fu staccato, e la Steam-House, trasformata in congegno galleggiante, passò facilmente dauna riva all'altra sulla superficie del fiume.

 Non così avvenne per il treno di Mathias Van Guitt. Il traghetto

venne requisito e le gabbie dovettero attraversare i due corsi d'acqual'uno dopo l'altro. Se questo passaggio richiese un certo tempo, fufatto, almeno, senza grandi difficoltà. Il fornitore non era alla sua prima esperienza del genere, e i suoi uomini avevano già dovutosuperare molti fiumi, quando si recavano alla frontiera himalayana.

Insomma, il 17 settembre eravamo giunti alla linea ferroviaria cheva da Delhi ad Allahabad, a meno di cento passi dalla stazione diEtawah, senza incidenti degni di essere narrati.

Era là che il nostro convoglio doveva dividersi in due parti, chenon erano destinate a ricongiungersi.

La prima doveva continuare a scendere verso sud attraverso iterritori dell'ampio regno di Scindia, in modo da giungere ai Vindhyae alla presidenza di Bombay.

La seconda, posta su carrelli ferroviari, doveva raggiungereAllahabad, e di là, con il treno di Bombay, giungere al litorale

dell'oceano Indiano.Perciò ci fermammo, e venne preparato l'accampamento per lanotte. Il giorno seguente, all'alba, mentre il fornitore avrebbe preso lavia di sud-est, noi dovevamo, tagliando quella via ad angolo retto,seguire pressappoco il 77° meridiano.

Ma, mentre lasciava noi, Mathias Van Guitt doveva separarsianche da quella parte del suo personale che non gli era più utile.Tranne due indù, necessari per il servizio delle gabbie durante un

viaggio che non doveva durare che due o tre giorni, egli non aveva bisogno di nessuno. Giunto al porto di Bombay, dove lo aspettavauna nave in partenza per l'Europa, il trasbordo della sua mercanziasarebbe stato fatto dagli scaricatori ordinari del porto.

Dunque, alcuni dei suoi chikaris ritornavano disponibili, e in particolar modo Kâlagani.

Si sa come e perché eravamo veramente affezionati a questo indù,

dopo i servizi che egli aveva reso al colonnello Munro e al capitanoHod.

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Quando Mathias Van Guitt ebbe congedato i suoi uomini, Bankscredette di notare che Kâlagani non sapesse proprio che cosa fare, egli domandò se gli avrebbe interessato accompagnarci fino aBombay.

Kâlagani, dopo aver riflettuto un istante, accettò l'offertadell'ingegnere, e il colonnello Munro dimostrò la soddisfazione che provava nel venirgli in aiuto in quell'occasione. L'indù avrebbedunque fatto parte del personale della Steam-House e, grazie alla suaconoscenza di tutta quella parte dell'India, poteva esserci utilissimo.

Il giorno seguente, il campo veniva levato. Non avevamo piùnessun interesse per prolungare la nostra fermata. Il Giganted'Acciaio era sotto pressione, e Banks diede a Storr l'ordine di tenersi pronto.

 Non restava più che accomiatarci dal nostro amico fornitore. Fusemplicissimo da parte nostra; da parte sua, invece, fu naturalmentemolto più teatrale.

I ringraziamenti di Mathias Van Guitt per il servizio che gli avevareso il colonnello Munro presero necessariamente forma amplificata.Egli «recitò» magnificamente quest'ultimo atto, e fu perfetto nella

scena madre degli addii.Con un movimento dei muscoli dell'avambraccio, la sua manodestra si dispose tesa in avanti, in modo che la palma rimaneva voltaverso la terra. Ciò voleva dire che quaggiù egli non avrebbe maidimenticato quanto doveva al colonnello Munro, e che se lariconoscenza fosse stata bandita da questo mondo, avrebbe trovatoun ultimo asilo nel suo cuore.

Poi, con un movimento inverso, rivoltò la mano verso l'alto, ossia

ne volse la palma verso lo zenit. Il che significava che, anche lassù, isentimenti non si sarebbero spenti in lui, e tutta un'eternità digratitudine non avrebbe potuto pagare gli obblighi che egli avevacontratto.

Il colonnello Munro ringraziò Mathias Van Guitt come siconveniva, e pochi minuti dopo, il fornitore delle ditte di Amburgo edi Londra era scomparso ai nostri occhi.

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C  APITOLO VII

 IL PASSAGGIO  DEL  BETWA

ESATTAMENTE a quella data, 18 settembre, ecco qual era con precisione la nostra posizione, calcolata dal punto di partenza, dal punto di sosta e dal punto d'arrivo:

1° Da Calcutta, milletrecento chilometri;2° Dal sanitarium dell'Himalaya, trecentottanta chilometri;3° Da Bombay, milleseicento chilometri. Considerando soltanto le

distanze, non avevamo ancora compiuto la metà del nostro itinerario;ma, tenendo conto delle sette settimane che la Steam-House aveva passato sulla frontiera himalayana, più della metà del tempo chedoveva essere dedicato a quel viaggio era trascorsa. Avevamolasciato Calcutta il 6 marzo. Fra due mesi, se nulla fosse avvenuto a

contrastare il nostro cammino, facevamo conto di avere raggiunto illitorale ovest dell'Indostan.

Il nostro itinerario, d'altra parte, sarebbe stato un poco ridotto. Ladecisione che avevamo preso, di evitare le grandi città compromessenella rivolta del 1857, ci obbligava a scendere più direttamente a sud.Attraverso le magnifiche province del regno di Scindia si aprivano belle strade carrozzabili, e il Gigante d'Acciaio non dovevaincontrare nessun ostacolo, almeno fino alle montagne del centro. Ilviaggio prometteva dunque di compiersi nelle migliori condizioni difacilità e di sicurezza.

Ciò che doveva renderlo ancora più facile, era la presenza diKâlagani fra il personale della Steam-House. Questo indù conosceva perfettamente tutta quella parte della penisola: Banks potéaccertarsene quel giorno stesso. Dopo colazione, mentre il colonnelloMunro e il capitano Hod facevano la siesta, Banks gli chiese con

quali mansioni egli aveva percorso tante volte quelle province.

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 — Ero addetto — rispose Kâlagani — a una di quelle numerosecarovane di Banjari, che trasportano a dorso di buoi le provviste dicereali, sia per conto del governo, sia per conto dei privati. Conqueste mansioni ho risalito e sceso venti volte i territori del centro e

del nord dell'India. — Quelle carovane percorrono ancora questa parte della penisola?

 — domandò l'ingegnere. — Sì, signore — rispose Kâlagani — e in questo periodo

dell'anno sarei ben stupito se non incontrassimo un gruppo di Banjariin cammino verso nord.

 — Ebbene, Kâlagani — soggiunse Banks — la perfettaconoscenza che avete di questi territori ci sarà utilissima. Invece di passare per le grandi città del regno di Scindia, andremo attraverso lecampagne, e voi sarete la nostra guida.

 — Volentieri, signore — rispose l'indù, con quel tono freddo chegli era solito, e al quale non avevo ancora potuto abituarmi.

Poi aggiunse: — Volete che vi indichi in linea di massima la direzione che

dovremo seguire?

 — Ve ne sarò grato.E, così dicendo, Banks stese sulla tavola una carta a grande scalache riproduceva quella parte dell'India, per controllare l'esattezzadelle indicazioni di Kâlagani.

 — Niente di più semplice — riprese l'indù. — Una linea quasiretta ci condurrà dalla linea ferroviaria di Delhi a quella di Bombay,che si ricongiungono ad Allahabad. Dalla stazione di Etawah cheabbiamo lasciato alla frontiera del Bundelkund, dovremo attraversare

un corso d'acqua importante, il Jumna, e da quella frontiera ai montiVindhya, un secondo corso d'acqua, il Betwa. Anche nel caso in cuiquesti due fiumi fossero straripati a causa della stagione delle piogge,il treno galleggiante non sarà impacciato, immagino, per passare dauna riva all'altra.

 — Non ci sarà nessuna difficoltà grave — rispose l'ingegnere. —E quando saremo giunti ai Vindhya?...

 — Piegheremo un poco verso sud-est, per scegliere un passaggio praticabile. Anche là nessun ostacolo ci impedirà il cammino;

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conosco un passaggio che ha pendenze moderate. È il colle di Sirgur,che i carri preferiscono.

 — Dovunque passano dei cavalli — dissi — non può passareforse anche il nostro Gigante d'Acciaio?

 — Lo può certamente — rispose Banks; — ma al di là del colleSirgur, la regione è molto accidentata. Non vi sarebbe modo digiungere ai Vindhya, dirigendoci attraverso il Bhopal?

 — Là, le città sono numerose — rispose Kâlagani — sarà difficileevitarle, e i Cipay vi si sono distinti più particolarmente nella guerra per l'indipendenza.

Fui un po' stupito di quella definizione di «guerra perl'indipendenza» che Kâlagani dava alla rivolta del 1857. Ma non bisognava dimenticare che era un indù, non un inglese che parlava. Non sembrava, d'altra parte, che Kâlagani avesse preso parte allarivolta, o, almeno, non aveva mai detto nulla che potesse farlocredere.

 — Va bene — riprese Banks — lasceremo le città del Bhopal aovest, e se siete certo che il colle di Sirgur ci dia accesso a qualchestrada praticabile...

 — Una strada che ho percorso spesso, signore, e che, dopo averaggirato il lago Puturia, termina, quaranta miglia più lontano, allaferrovia Bombay-Allahabad, presso Jubbulpore.

 — Infatti — rispose Banks che seguiva sulla carta le indicazionidate dall'indù; — e partendo da questo punto?...

 — La strada si dirige verso sud-ovest e segue, per così dire, laferrovia fino a Bombay.

 — Siamo intesi — rispose Banks. — Non vedo nessun ostacolo

grave ad attraversare i Vindhya, e questo itinerario ci conviene. Aiservizi che ci avete già resi, Kâlagani, ne aggiungete un altro che nondimenticheremo.

Kâlagani s'inchinò e stava per ritirarsi quando, pentito, ritornòverso l'ingegnere.

 — Volete chiedermi qualcosa? — disse Banks. — Sì, signore — rispose l'indù. — Potrei chiedervi perché tenete

 particolarmente ad evitare le principali città del Bundelkund?

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Banks mi guardò. Non c'era nessuna ragione per nascondere aKâlagani quanto concerneva sir Edward Munro, e l'indù fu informatodella situazione del colonnello.

Kâlagani ascoltò molto attentamente ciò che gli disse l'ingegnere,

 poi, con un tono che denotava un certo stupore: — Il colonnello Munro — disse — non ha più nulla da temere da

 Nana Sahib, almeno in queste province. — Né in queste province, né altrove — rispose Banks. — Perché

dite «in queste province»? — Perché se il nababbo è riapparso, come si pretendeva alcuni

mesi fa, nella presidenza di Bombay — disse Kâlagani — le ricerchenon hanno potuto far sapere dove si nasconda, ed è probabilissimoche egli abbia attraversato di nuovo la frontiera indocinese.

Questa risposta sembrava provare che Kâlagani ignorava quantoera accaduto nella regione dei monti Sautpurra, e che, nello scorsomaggio, Nana Sahib era stato ucciso dai soldati dell'esercito reale al pâl di Tandît.

 — Vedo, Kâlagani, — disse allora Banks, — che le notizie checorrono per l'India stentano a giungere fino alle foreste

dell'Himalaya!L'indù ci guardò attentamente, senza rispondere, come uno chenon capisce.

 — Sì, — soggiunse Banks, — sembrate ignorare che Nana Sahibè morto.

 — Nana Sahib è morto? — gridò Kâlagani. — Senza dubbio, — rispose Banks; — e il governo ha fatto sapere

in quali circostanze è stato ucciso.

 — Ucciso? — disse Kâlagani scuotendo il capo. — E dovesarebbe stato ucciso Nana Sahib?

 — Al pâl di Tandît, nei monti Sautpurra. — E quando?... — Circa quattro mesi fa, — rispose l'ingegnere, — il 21 maggio

scorso. Kâlagani, il cui sguardo mi parve strano in quel momento,aveva incrociato le braccia e rimaneva silenzioso.

 — Avete delle ragioni — gli domandai, — per non credere allamorte di Nana Sahib?

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 — Nessuna, signori, — si accontentò di rispondere Kâlagani. —Credo a ciò che voi mi dite.

Un istante dopo, Banks ed io eravamo soli, e l'ingegnereaggiungeva, non senza ragione:

 — Tutti gli indù si assomigliano. Il capo dei Cipay ribelli èdiventato leggendario. Questi superstiziosi non crederanno mai chesia stato ucciso, poiché non l'hanno visto impiccare!

 — Si comportano, — risposi, — come i vecchi grognards24 dell'Impero, i quali, vent'anni dopo la morte di Napoleone,sostenevano che viveva ancora!

Dopo il passaggio dell'alto Gange, che la Steam-House avevaeffettuato quindici giorni prima, una fertile regione stendeva le suemagnifiche strade davanti al Gigante d'Acciaio. Era il Doàb,compreso in quell'angolo formato dal Gange e dal Jumna, prima chesi ricongiungano vicino a Allahabad. Pianure alluvionali, dissodatedai seguaci di Brahma venti secoli prima dell'era cristiana, processidi coltura ancora molto rudimentali presso i contadini, grandi operedi irrigazione dovute agli ingegneri inglesi, piantagioni di cotone che prosperano in modo particolare su questo territorio, gemiti del

torchio per il cotone che è in funzione presso ogni villaggio, cantidegli operai che lo mettono in movimento, ecco le impressioni chemi sono rimaste di questo Doàb, dove un tempo venne fondata lachiesa primitiva.

Il viaggio procedeva nelle migliori condizioni. I luoghi variavano,diremmo quasi, a seconda dei nostri capricci. La casa si spostava,senza fatica, per il piacere dei nostri occhi. Non era forse quella,come aveva preteso Banks, l'ultima parola del progresso nell'arte

della locomozione? Carri a buoi, carrozze a cavalli o a muli, vagoniferroviari, non siete nulla paragonati alla nostra casa ambulante!

Il 19 settembre, la Steam-House si fermava sulla riva sinistra delJumna. Questo importante corso di acqua separa nella parte centraledella penisola il paese dei Rajah propriamente detto, o Rajasthan,dall'Indostan, che è più particolarmente il paese degli indù.

24  Lett.: brontoloni; con questo termine venivano definiti i veterani delle guerrenapoleoniche. (N.d.T.) 

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Una piena agli inizi incominciava ad alzare le acque del Jumna.La corrente si faceva sentire più rapidamente; ma, pur rendendo ilnostro passaggio un po' meno facile, non poteva impedirlo. Banks prese alcune precauzioni. Si dovette cercare un migliore punto

d'approdo, e lo si trovò. Mezz'ora dopo la Steam-House risalival'argine opposto del fiume. Ai treni delle linee ferroviarie occorrono ponti costruiti con grandi spese, e uno di questi ponti, di costruzionetubolare, scavalca il Jumna presso la fortezza di Selimgarh vicino aDelhi. Al nostro Gigante d'Acciaio e ai due vagoni che essorimorchiava, i corsi d'acqua offrivano una via facile quanto le più belle strade asfaltate della penisola.

Al di là del Jumna, i territori del Rajasthan comprendono un certonumero di quelle città che la previdenza dell'ingegnere voleva lasciarfuori del suo itinerario. Sulla sinistra c'era Gwalior, in riva al fiumeSawunrika, piantata sulla sua base di basalto, con la superba moscheadi Musjid, il palazzo di Pâl, la curiosa porta degli Elefanti, la celebrefortezza, il Vihara di creazione buddistica; vecchia città a cui la cittàmoderna di Lashkar, costruita due chilometri più lontano, fa ormaiuna seria concorrenza. Là, in fondo a questa Gibilterra dell'India, la

rhani di Jansi, la fedele compagna di Nana Sahib, aveva lottatoeroicamente fino all'ultimo. Là, in quello scontro con due squadronidell'8° ussari dell'esercito reale, ella fu uccisa, come si sa, per manodel colonnello Munro, che aveva preso parte all'azione con un battaglione del suo reggimento. Da quel giorno, anche questo è noto,era incominciato l'odio implacabile di Nana Sahib, che il nababboaveva tentato di soddisfare fino all'ultimo respiro! Sì! era meglio chesir Edward Munro non andasse a ravvivare i suoi ricordi alle porte di

Gwalior!Dopo Gwalior, a ovest del nostro nuovo itinerario, veniva Antri, e

la sua ampia pianura, su cui si ergono qua e là molte vette, comeisolotti d'un arcipelago. Poi veniva Duttiah, che non ha ancora cinquesecoli di esistenza, di cui si ammirano le graziose case, la fortezzacentrale, i templi dalle svariate guglie, il palazzo abbandonato diBirsing-Deo, l'arsenale di Tôpe-Kana, ... tutto quello che costituiva la

capitale di quel regno di Duttiah, tagliato nell'angolo nord delBundelkund, e che si è messo sotto la protezione dell'Inghilterra.

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Come Gwalior, Antri e Duttiah erano state gravemente colpite dalmovimento insurrezionale del 1857.

Finalmente c'era Jansi, da cui passavamo a meno di quarantachilometri il 22 settembre. Quella città è la più importante stazione

militare del Bundelkund, e lo spirito di ribellione vi è sempre vivacenel popolino. Jansi, città relativamente moderna, fa un importantecommercio di mussole indigene e di stoffe azzurre di cotone. Non visi trova nessun monumento precedente la sua fondazione, che datasolo dal XVII secolo. Pure è interessante visitare la sua cittadella, dicui i proiettili inglesi non hanno potuto distruggere le mura esterne, ela sua necropoli dei rajah, di aspetto assai pittoresco. Essa fu lafortezza principale dei Cipay ribelli dell'India centrale. Qui,l'intrepida rhani provocò il primo sollevamento che doveva in breveinvadere tutto il Bundelkund. Qui sir Hugh Rose dovette dare uncombattimento che non durò meno di sei giorni, nel quale perdette ilquindici per cento dei suoi uomini. Qui, nonostante il loroaccanimento, Tantia Topi, Balao Rao, fratello di Nana Sahib, e infinela rhani, benché fossero aiutati da una guarnigione di dodicimilaCipay e soccorsi da un esercito di ventimila uomini, dovettero cedere

alla superiorità delle armi inglesi. Qui, come ci aveva narrato Mac Neil, il colonnello Munro aveva salvato la vita al sergente,cedendogli l'ultima goccia d'acqua che gli rimaneva. Sì! Jansi, più diqualsiasi altra di quelle città dai funesti ricordi, doveva esserelasciata in disparte in un itinerario le cui tappe erano state scelte daimigliori amici del colonnello!

Il giorno dopo, 23 settembre, un incontro, che ci trattenne alcuneore, venne a giustificare una delle osservazioni fatte precedentemente

da Kâlagani.Erano le undici del mattino. Terminata la colazione, ci eravamo

seduti tutti per la siesta, gli uni sotto la veranda, gli altri nel salottodella Steam-House. Il Gigante d'Acciaio camminava in ragione dinove o dieci chilometri all'ora. Una magnifica strada ombreggiata da begli alberi gli si disegnava dinanzi fra campi di cotone e di cereali.Il tempo era bello, il sole ardente. Un innaffiamento «comunale» di

questa grande strada non sarebbe stato da disprezzare, bisogna

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convenirne, e il vento sollevava una fine polvere bianca davanti alnostro treno.

Ma le cose cambiarono, quando, alla distanza di due o tre miglia,l'atmosfera ci apparve a tal punto piena di tali turbini di polvere che

un violento simun non avrebbe sollevato nuvole più fitte nel desertolibico.

 — Non capisco come questo fenomeno possa verificarsi, — disseBanks, — poiché la brezza è leggera.

 — Kâlagani ce lo spiegherà, — rispose il colonnello Munro.Fu chiamato l'indù, che venne fin sotto la veranda, osservò la

strada, e, senza esitare: — È una lunga carovana che risale verso nord, — disse — e come

vi ho già detto, signor Banks, è probabilmente una carovana diBanjari.

 — Ebbene, Kâlagani, — disse Banks, — ritroverete senza dubbioqualcuno dei vostri vecchi compagni, là in mezzo?

 — È possibile, signore, — rispose l'indù, — poiché ho vissuto un pezzo fra queste tribù nomadi.

 — Avete dunque l'intenzione di lasciarci per unirvi a loro? —

domandò il capitano Hod. — Niente affatto, — rispose Kâlagani.L'indù non si era ingannato. Mezz'ora dopo, il Gigante d'Acciaio,

 per potente che fosse, era costretto a fermarsi davanti a una muragliadi ruminanti.

Ma non ci fu ragione di rimpiangere quel ritardo. Lo spettacoloche si offriva ai nostri occhi valeva la pena di essere osservato.

Un gregge, che comprendeva almeno quattro o cinquemila buoi

ingombrava la strada verso sud, per uno spazio di molti chilometri.Come aveva annunciato Kâlagani, quel convoglio di ruminantiapparteneva a una carovana di Banjari.

 — I Banjari, — ci disse Banks — sono i veri zingari dell'Indostan.Popolo più che tribù, senza fissa dimora, d'estate vivono sotto unatenda, d'inverno in una capanna. Sono i facchini della penisola, e liho visti all'opera durante l'insurrezione del 1857. Per una specie di

tacita convenzione fra i belligeranti, si lasciava che i loro convogliattraversassero le province turbate dalla ribellione. Erano, infatti, gli

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approvvigionatori del paese, e nutrivano tanto l'esercito reale quantol'indigeno. Se fosse assolutamente necessario assegnare una patrianell'India a questi nomadi, sarebbe il Raputana, e più particolarmenteforse il regno di Milwar. Ma poiché ci passeranno davanti, caro

Maucler, vi consiglio d'esaminare attentamente questi Banjari.Il nostro treno si era prudentemente tirato su uno dei lati della

grande strada. Non avrebbe potuto resistere a quella valanga dianimali cornuti, davanti alla quale le stesse belve non esitano asvignarsela.

Come mi aveva raccomandato Banks, osservai attentamente quellungo corteo; ma, prima di tutto, devo notare che la Steam-Housenon parve produrre il suo solito effetto. Il Gigante d'Acciaio, tantosolito a provocare l'ammirazione generale, attirò appena l'attenzionedi quei Banjari, abituati senza dubbio a non stupirsi di nulla.

Uomini e donne di quella razza zingaresca erano meravigliosi; gliuni alti, vigorosi, con lineamenti fini, naso aquilino, capelli ricciuti,colore della pelle di un bronzo in cui il rame rosso dominava lostagno, vestiti della lunga tunica e del turbante, armati di lancia, discudo, di rotella e della grande spada che si porta a tracollarle altre

alte di statura, ben proporzionate, fiere come gli uomini del loro clan,con il busto serrato in un corsetto, la parte inferiore del corpo perdutasotto le pieghe di una larga gonnella, il tutto avvolto, dalla testa ai piedi, in un elegante drappeggio, con gioielli agli orecchi, collane alcollo, braccialetti alle braccia, anelli alle caviglie, d'oro, d'avorio, diconchiglie.

Accanto a tutti quegli uomini, donne, vecchi, fanciulli,camminavano con passo tranquillo migliaia di buoi, senza sella né

cavezza, agitando le ghiande rosse o facendo suonare le campanelleche avevano in testa, portando sul dorso un doppio sacco, checontiene il grano o gli altri cereali.

Era una tribù intera, partita in carovana, sotto la direzione di uncapo eletto, il naik, il cui potere è illimitato per tutta la durata del suomandato. A lui solo spetta dirigere il convoglio, stabilire le ore difermata, disporre l'ordine dell'accampamento.

In testa camminava un toro di grandi dimensioni, dal portamentosuperbo, coperto di splendide stoffe, ornato con un grappolo di

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sonagli e con monili di conchiglie. Domandai a Banks se sapessequali fossero i compiti di quel magnifico animale.

 — Kâlagani potrebbe dircelo con certezza — rispose l'ingegnere. — Dov'è?

Venne chiamato Kâlagani, ma non comparve. Lo si cercò, ma nonera più alla Steam-House.

 — È andato senza dubbio a rinnovare conoscenza con qualcunodei suoi vecchi compagni — disse il colonnello Munro, — ma ciraggiungerà prima della partenza.

 Nulla di più naturale. Perciò non c'era da preoccuparsidell'assenza momentanea dell'indù; eppure, dentro di me,quell'assenza mi turbò.

 — Ebbene — disse allora Banks — se non mi sbaglio, quel toro,nelle carovane di Banjari, rappresenta la loro divinità. Dove va lui, losi segue; quando si ferma, si pone il campo, ma credo che ubbidiscasegretamente agli ordini del naik. Insomma tutta la religione di questinomadi si riassume in lui.

 Non fu che due ore dopo l'inizio della sfilata, che cominciammo avedere la fine di quell'interminabile corteo. Cercavo Kâlagani nella

retroguardia, quando egli comparve, accompagnato da un indù chenon apparteneva al tipo Banjari. Senza dubbio era uno di quegliindigeni che affittano temporaneamente i propri servigi allecarovane, come aveva fatto molte volte Kâlagani. Entrambidiscorrevano freddamente, si potrebbe dire a mezza bocca. Di chi odi che cosa parlavano? Probabilmente del paese che avevaattraversato la tribù, paese nel quale dovevamo inoltrarci sotto ladirezione della nostra nuova guida.

Quell'indigeno, che era rimasto in coda alla carovana, si arrestò unistante passando davanti alla Steam-House. Osservò con interesse iltreno preceduto dall'elefante artificiale, e mi parve che guardasse più particolarmente il colonnello Munro, ma non ci rivolse la parola. Poi,facendo un cenno d'addio a Kâlagani, raggiunse la colonna e in brevescomparve in una nuvola di polvere.

Quando Kâlagani fu tornato presso di noi, si rivolse al colonnello

Munro, senza aspettare di essere interrogato:

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 — Uno dei miei vecchi compagni, che è da due mesi al serviziodella carovana, — si limitò a dire.

Fu tutto. Kâlagani riprese il suo posto nel nostro treno, e pocodopo la Steam-House correva sulla strada, che portava le larghe

impronte degli zoccoli di quelle migliaia di buoi.Il giorno seguente, 24 settembre, il treno si fermava per passare la

notte cinque o sei chilometri a est di Ourtcha, sulla riva sinistra delBetwa, uno dei principali affluenti del Jumna.

Su Ourtcha, niente da dire né da vedere. È l'antica capitale delBundelkund, una città che fu fiorente nella prima metà del XVIIsecolo. Ma i mongoli da una parte, i maharatti dall'altra, le inflisseroterribili colpi, dai quali non riuscì più a risollevarsi. E ora, una dellegrandi città dell'India centrale non è più che un villaggio cheraccoglie miseramente poche centinaia di contadini.

Ho detto che eravamo venuti ad accamparci sulle sponde delBetwa. È più giusto dire che il treno si fermò a una certa distanzadalla sua sponda sinistra.

Infatti questo importante corso d'acqua, in piena, era allorastraripato dal suo letto e ricopriva largamente i suoi argini. Da ciò

qualche difficoltà, forse, per effettuare il nostro passaggio. Avremmo però esaminato la cosa il giorno dopo; la notte era già troppo buia per permettere a Banks di decidere.

 Ne derivò dunque che, subito dopo la siesta della sera, ognuno dinoi si ritirò nella propria cabina e andò a riposarsi.

A meno di circostanze particolari, non facevamo mai sorvegliarel'accampamento durante la notte. A che scopo? Si potevano forserubare le nostre case ambulanti? No! Si poteva forse rubare il nostro

elefante? Nemmeno; si sarebbe difeso soltanto con il suo peso.Quanto alla possibilità di un attacco da parte di qualcuno di quei briganti che battono queste province, sarebbe stata proprioinverosimile. D'altra parte, se nessuno dei nostri uomini montava laguardia durante la notte, i due cani, Phann e Black, erano là, e ciavrebbero avvertiti di qualsiasi avvicinarsi sospetto.

È precisamente ciò che accadde durante quella notte. Verso le due

del mattino, dei latrati ci svegliarono. Mi alzai subito e trovai i mieicompagni in piedi.

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 — Che cosa c'è? — domandò il colonnello Munro. — I cani abbaiano — rispose Banks — e certamente non lo fanno

senza ragione. — Sarà qualche pantera che avrà ringhiato nelle macchie vicine!

 — disse il capitano Hod. — Scendiamo, esploriamo il limite del bosco, e, per precauzione, prendiamo i fucili.

Il sergente Mac Neil, Kâlagani, Goûmi, erano già davantiall'accampamento, ascoltando, discutendo, cercando di rendersiconto di quanto accadeva nell'oscurità. Noi li raggiungemmo.

 — Ebbene — disse il capitano Hod — avremo forse a che farecon due o tre belve venute a bere sull'argine?

 — Kâlagani non lo crede — rispose Mac Neil. — Che cosa c'è allora, secondo voi? — domandò il colonnello

Munro all'indù, che ci aveva raggiunto. — Non so, colonnello Munro — rispose Kâlagani — ma non si

tratta né di tigri né di pantere, e nemmeno di sciacalli. Credo diintravedere sotto gli alberi una massa confusa...

 — Lo sapremo bene! — esclamò il capitano Hod, pensandosempre alla cinquantesima tigre che gli mancava.

 — Aspettate, Hod — gli disse Banks. — Nel Bundelkund, èsempre meglio diffidare dei banditi di strade maestre. — Siamo in parecchi, e ben armati! — rispose il capitano Hod. —

Voglio chiarire la cosa! — Va bene! — disse Banks.I due cani abbaiavano sempre, ma senza manifestare alcun

sintomo di quella collera che l'avvicinarsi di animali feroci avrebbeimmancabilmente provocato.

 — Munro, — disse allora Banks — resta all'accampamento conMac Neil e gli altri. Intanto, Hod, Maucler, Kâlagani e io, andremo inricognizione.

 — Venite? — gridò il capitano Hod, che nello stesso tempo fecesegno a Fox d'accompagnarlo.

Phann e Black, già sotto i primi alberi, mostravano la via. Nonrimaneva che seguirli.

Appena fummo nel bosco si udì un rumore di passi.Evidentemente un drappello numeroso era in perlustrazione ai

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confini del nostro accampamento. Si intravedevano alcune ombresilenziose che fuggivano attraverso le macchie.

I due cani, correndo, abbaiando, andavano e venivano alcuni passi più avanti.

 — Chi va là? — gridò il capitano Hod. Nessuna risposta. — O quella gente non vuol rispondere — disse Banks — o non

capisce l'inglese. — Ebbene, capiscono l'indiano — risposi io. — Kâlagani — disse Banks — gridate in indiano, che se non

rispondono, facciamo fuoco.Kâlagani, usando il dialetto proprio degli indigeni dell'India

centrale, diede ordine ai vagabondi di farsi avanti.Stesso silenzio della volta precedente.Allora si udì una fucilata. L'impaziente capitano Hod aveva

sparato a casaccio su un'ombra che fuggiva fra gli alberi.Una confusa agitazione seguì la detonazione della carabina; ci

 parve che tutta una banda di persone si disperdesse a destra e asinistra. La cosa fu anzi certa, quando Phann e Black, che si eranolanciati avanti, tornarono tranquillamente senza dare più alcun segno

di inquietudine. — Chiunque siano, vagabondi o ladri, — disse il capitano Hod, —quella gente se l'è svignata in fretta!

 — Evidentemente, — rispose Banks, — e non ci resta più cheritornare alla Steam-House. Ma, per precauzione, si veglierà finoall'alba.

Alcuni istanti dopo avevamo raggiunto i nostri compagni. Mac Neil, Goûmi, Fox, si accordarono per avvicendarsi alla guardia

dell'accampamento, mentre noi ritornavamo alle nostre cabine.La notte terminò senza turbamenti. Si poteva dunque pensare che,

vedendo la Steam-House ben difesa, i visitatori avessero rinunciato a prolungare la loro visita.

Il giorno seguente, 25 settembre, mentre si facevano i preparativi per la partenza, il colonnello Munro, il capitano Hod, Mac Neil,Kâlagani ed io, volemmo esplorare un'ultima volta il limitare della

foresta.

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Della banda che vi si era avventurata durante la notte, nonrimaneva alcuna traccia. Ad ogni modo, non c'era nessuna necessitàdi preoccuparsene.

Quando fummo di ritorno, Banks si preparò per effettuare il

 passaggio del Betwa. Questo fiume, che era abbondantementestraripato, stendeva le sue acque giallastre molto più in là degliargini. La corrente si spostava con gran rapidità, ed il Giganted'Acciaio avrebbe dovuto prenderla frontalmente per non esseretrascinato troppo a valle.

L'ingegnere si era occupato prima di tutto di trovare il luogo piùfavorevole allo sbarco; con il cannocchiale davanti agli occhi,cercava di scoprire il punto in cui sarebbe stato meglio raggiungere lariva destra. Il letto del Betwa si svolgeva, in questa parte del suocorso, per una larghezza di circa un miglio. Sarebbe stato dunque il più lungo tragitto nautico che il treno galleggiante avrebbe dovutofare fino allora.

 — Ma, — domandai, — come fanno i viaggiatori o i mercanti,quando si trovano bloccati davanti ai corsi d'acqua da piene di questogenere? Mi sembra difficile che dei traghetti possano resistere a

correnti che assomigliano a rapide. — Ebbene, — rispose il capitano Hod, — niente di più semplice:non passano!

 — Sì, — rispose Banks, — passano, quando hanno degli elefanti aloro disposizione.

 — Come! degli elefanti possono superare simili distanze a nuoto? — Senza dubbio, ed ecco come si fa, — rispose l'ingegnere. —

Tutti i bagagli vengono messi sul dorso di questi...

 — Proboscidati!... — disse il capitano Hod, ricordando il suoamico Mathias Van Guitt.

 — E i mahout li costringono ad entrare nella corrente, —soggiunse Banks. — All'inizio l'animale esita, indietreggia, barrisce;ma, decidendosi presto, entra nel fiume, si mette a nuotare eattraversa coraggiosamente il corso d'acqua. Alcuni, ne convengo,sono a volte trascinati e spariscono tra le rapide, ma è piuttosto raro,

quando sono diretti da un'abile guida.

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 — Benissimo! — disse il capitano Hod, — se non abbiamo deglielefanti, ne abbiamo uno...

 — E ci basterà, — rispose Banks. — Non assomiglia forse aquell'Oructor Amphibolis dell'americano Evans, che, fin dal 1804,

camminava sulla terra e nuotava nell'acqua?Ognuno riprese il suo posto nel treno, Kalôuth al forno, Storr nella

torretta, Banks accanto a lui, con funzioni di timoniere.Bisognava attraversare una cinquantina di piedi di argine inondato

 prima di raggiungere i primi strati della corrente. Il Giganted'Acciaio si mosse adagio e si mise in cammino. Le sue larghezampe si bagnarono, ma esso non galleggiava ancora; il passaggiodal terreno solido alla superficie liquida doveva essere fatto con precauzione.

Ad un tratto, il rumore dell'agitazione che si era prodotta durantela notte si propagò fino a noi.

Un centinaio di individui erano usciti dal bosco gesticolando efacendo delle smorfie.

 — Per mille diavoli! Erano scimmie! — esclamò il capitano Hodridendo di cuore.

Ed infatti, tutto un intero gruppo di questi rappresentanti deiquadrumani avanzava compatto verso la Steam-House. — Che cosa vogliono? — domandò Mac Neil. — Assalirci, senza dubbio! — rispose il capitano Hod, sempre

 pronto alla difesa. — No! non c'è nulla da temere, — rispose Kâlagani, che aveva

avuto tempo di osservare la banda di scimmie. — Ma che cosa vogliono dunque? — domandò una seconda volta

il sergente Mac Neil. — Passare il fiume in nostra compagnia e niente altro! — rispose

l'indù. Kâlagani non si sbagliava. Non avevamo a che fare con deigibboni dalle lunghe braccia villose, importuni e insolenti, né con dei«membri della aristocratica famiglia» che abita il palazzo di Bénares.Erano scimmie della specie dei languri, le più grandi della penisola,agili quadrumani, dalla pelle nera, con il muso senza peli circondato

da un collare di basette bianche che dà loro l'aspetto di vecchi

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avvocati. In fatto di pose bizzarre e di gesti esagerati, avrebbero datodelle lezioni allo stesso Mathias Van Guitt.

La loro pelliccia morbida era grigia sul dorso, bianca sul ventre, e portavano la coda all'insù.

Allora seppi che questi languri sono animali sacri in tutta l'India.Una leggenda dice che essi discendono da quei guerrieri del Ramache conquistarono l'isola di Ceylon. Ad Amber, occupano un palazzo, il Zenanah, di cui fanno amichevolmente gli onori ai turisti.È espressamente vietato ucciderli, e la trasgressione di questa legge ègià costata la vita a molti ufficiali inglesi.

Queste scimmie, d'indole piuttosto mite, facilmenteaddomesticabili, sono pericolosissime quando vengono assalite, e sesono solo ferite, il signor Louis Rousselet ha potuto dire giustamenteche diventano terribili come le iene o le pantere.

Ma non si trattava di attaccare quei languri, ed il capitano Hodmise il suo fucile in riposo.

Kâlagani aveva dunque ragione di pretendere che tutta quella banda, non osando affrontare la corrente di quelle acque straripate,voleva approfittare del nostro treno galleggiante per passare il

Betwa?Era possibile, e l'avremmo visto.Il Gigante d'Acciaio che aveva attraversato l'argine, era giunto al

letto del fiume. Ben presto tutto il treno vi galleggiava con lui. Ungomito della riva produceva in quel luogo una specie di gorgo diacque stagnanti, e, dapprima, la Steam-House rimase quasiimmobile.

La banda di scimmie, si era avvicinata e sguazzava già nell'acqua

 poco profonda che copriva la scarpata dell'argine. Non fecero nessuna dimostrazione ostile, ma ad un tratto eccoli,

maschi, femmine, vecchi e giovani, sgambettare, prendersi per manoe finalmente balzare fino sul treno che sembrava aspettarli.

In pochi secondi ce ne furono dieci sul Gigante d'Acciaio, trentasopra ciascuna delle case, in tutto un centinaio, allegre, amichevoli,si potrebbe quasi dire ciarliere, almeno fra di loro, e felicitandosi

senza dubbio di aver incontrato così opportunamente un mezzonavigante che permettesse loro di continuare il viaggio.

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Il Gigante d'Acciaio entrò subito nella corrente, e volgendosi amonte, la risalì.

Banks aveva potuto temere per un istante che il treno fosse troppo pesante con quel carico extra di passeggeri, ma non fu così. Quelle

scimmie si erano suddivise in modo molto intelligente; ce n'eranosulla groppa, sulla torretta, sul collo dell'elefante, perfinoall'estremità della proboscide, e non si spaventavano minimamente per i getti di vapore. Ce n'erano sui tetti arrotondati delle nostre pagode, le une accoccolate, le altre ritte, queste piantate sulle zampe,quelle appese per la coda, fin sotto la veranda dei balconi. Ma laSteam-House si manteneva sulla sua linea di galleggiamento e graziealla felice disposizione dei suoi serbatoi d'aria, non c'era nulla datemere da quell'eccesso di peso.

Il capitano Hod e Fox erano meravigliati, soprattutto l'attendente.Poco mancò che non facesse gli onori della Steam-House a quellafrotta smorfiosa e disinvolta. Egli parlava ai languri, stringeva loro lamano, li salutava col cappello; avrebbe esaurito volentieri tutti idolciumi della dispensa, se il signor Parazard, offeso di trovarsi inuna simile compagnia, non vi avesse posto rimedio.

Frattanto il Gigante d'Acciaio lavorava duramente con le quattrozampe che battevano l'acqua e fungevano da larghe pagaie. Purderivando, seguiva la linea obliqua che ci doveva condurre al puntod'approdo.

Mezz'ora dopo lo aveva raggiunto; ma appena si fu accostato allariva tutta la banda di quei clown a quattro mani saltò sull'argine escomparve sgambettando.

 — Avrebbero ben potuto dire grazie! — esclamò Fox, scontento

del comportamento di quei compagni di traversata.Una risata gli rispose. Era tutto ciò che meritava l'osservazione

dell'attendente.

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C  APITOLO VIII

 HOD CONTRO  BANKS

IL BETWA era stato passato. Cento chilometri ci separavano ormaidalla stazione di Etawah.

Passarono quattro giorni senza incidenti, nemmeno incidenti di

caccia. Le belve erano poco numerose in quella parte del regno diScindia. — Decisamente, — ripeteva il capitano Hod, non senza un certo

dispetto, — giungerò a Bombay senza aver ucciso la miacinquantesima!

Kâlagani ci guidava con meravigliosa sagacia attraverso la partemeno popolata del territorio di cui egli conosceva bene la topografiae, il 29 settembre, il treno cominciava a salire il versante

settentrionale dei Vindhya, per varcarli al colle di Sirgur.Finora la nostra traversata del Bundelkund si era effettuata senza

fastidi. Eppure, questo paese è uno dei più sospetti dell'India; imalfattori vi cercano volentieri rifugio. I predoni di strada non vimancano. È là che i Dacoit si dedicano in modo particolare al lorodoppio mestiere di avvelenatori e di ladri. È dunque prudentestarsene molto seriamente sul chi vive quando si attraversa questoterritorio.

La parte peggiore del Bundelkund è precisamente quella regionemontagnosa dei Vindhya nella quale la Steam-House stava perentrare. Il tragitto non era lungo, cento chilometri al massimo, fino aJubbulpore, la stazione più vicina della ferrovia Bombay-Allahabad.Ma non bisognava calcolare di poter procedere rapidamente efacilmente come avevamo fatto attraverso le pianure dello Scindia.Pendii molto ripidi, strade mal tracciate, terreno roccioso, svolte

 brusche, strozzature di certi punti del percorso, tutto dovevaconcorrere a ridurre la media della nostra velocità. Banks non

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credeva di poter ottenere più di quindici o venti chilometri nelle dieciore di cui si componevano le nostre giornate di cammino. Aggiungoche, giorno e notte, bisognava aver cura di sorvegliare attentamente idintorni delle strade e degli accampamenti.

Kâlagani era stato il primo a darci questi consigli. Non già chenon fossimo in forza e ben armati; il nostro piccolo drappello, con lesue due case e la torretta, vera casamatta che il Gigante d'Acciaio portava sul dorso, offriva una certa «superficie di resistenza», perusare un'espressione di moda. Dei briganti, Dacoit o altri, fosseroanche stati dei Thug (se pure ne rimanevano ancora in quella parteselvaggia del Bundelkund) avrebbero senza dubbio esitato adassalirci. Ma la prudenza non è mai troppa, ed era meglio essere pronti ad ogni eventualità.

Durante le prime ore di quella giornata, giungemmo al colle diSirgur, e il treno incominciò a risalirlo senza troppa fatica. Talvolta,risalendo delle gole piuttosto ardue, si dovette forzare il tiraggio; mail Gigante d'Acciaio sotto la mano di Storr, impiegavaistantaneamente la potenza necessaria, e molte volte furono superatecerte pendenze di dodici o quindici centimetri al metro.

Quanto agli errori di itinerario, non sembrava che si dovesserotemere. Kâlagani conosceva perfettamente quei passi sinuosi dellaregione dei Vindhya, e in particolare il colle di Sirgur, così nonesitava mai, anche quando diverse strade venivano a immettersi inqualche crocicchio perduto fra le alte rupi, in fondo a gole strette, inmezzo a quelle fitte foreste d'alberi alpestri che limitavano la portatadello sguardo a due o tre centinaia di passi. Se talvolta ci lasciava, oandava avanti, ora solo, ora accompagnato da Banks, da me o da un

altro qualunque dei nostri compagni, era per riconoscere, non lastrada, ma il suo stato di viabilità.

Infatti, le piogge, durante la stagione umida che era appena finita,avevano deteriorato le massicciate, fatto franare il suolo, circostanzedi cui bisognava tener conto, prima di procedere su delle strade dovenon sarebbe stato facile fare retromarcia.

Dal punto di vista puro e semplice della locomozione, tutto

andava dunque benissimo. La pioggia era cessata del tutto; il cielo,semivelato da leggere nebbie che temperavano i raggi solari, non

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minacciava nessuno di quegli uragani di cui si teme la violenza nellaregione centrale della penisola. Il caldo, senza essere intenso, nonmancava però di tormentarci un po' durante alcune ore del giorno;ma, in complesso, la temperatura si manteneva ad un livello medio,

sopportabilissimo per dei viaggiatori perfettamente chiusi e coperti.La selvaggina minuta non mancava, e i nostri cacciatori provvedevano ai bisogni della mensa senza allontanarsi più delnecessario dalla Steam-House.

Soltanto il capitano Hod, e anche Fox senza dubbio, potevanorimpiangere l'assenza di quelle belve che abbondavano nel Tarryani.Ma dovevano forse aspettarsi d'incontrare leoni, tigri, pantere, làdove mancavano i ruminanti necessari al loro nutrimento?

Pure, se questi carnivori mancavano alla fauna dei Vindhya, si presentò per noi un'occasione di fare una conoscenza più ampia congli elefanti indiani, voglio dire gli elefanti selvaggi, di cui nonavevamo visto finora che rari esemplari.

Fu nella giornata del 30 settembre verso mezzogiorno, che unacoppia di questi superbi animali fu segnalata davanti al treno. Alnostro avvicinarsi, si gettarono sui lati della strada, per lasciar

 passare quell'equipaggio, nuovo per loro, che senza dubbio lispaventava.A che pro ucciderli senza necessità per pura soddisfazione di

cacciatori? Il capitano Hod non ci pensò neppure. Egli si accontentòdi ammirare quei magnifici animali in piena libertà, che percorrevanoquelle gole deserte, dove ruscelli, torrenti e pascoli dovevano bastarea tutti i loro bisogni.

 — Sarebbe una bell'occasione — disse — per il nostro amico Van

Guitt di farci un corso di zoologia pratica!Si sa che l'India è, per eccellenza, il paese degli elefanti. Questi

 pachidermi appartengono tutti alla stessa specie, che è un po' più piccola di quella degli elefanti africani, tanto quelli che percorrono lediverse province della penisola, quanto quelli di cui si vanno acercare le tracce nella Birmania, nel regno del Siam e fino in tutti iterritori posti a est del golfo del Bengala.

Come si catturano? Per lo più in un kiddah, recinto circondato da palizzate. Quando si tratta di catturare un intero gruppo, i cacciatori,

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in numero di tre o quattrocento, sotto la guida particolare di undjamadar o sergente indigeno, li spingono a poco a poco nel kiddah,ve li chiudono, li separano gli uni dagli altri con l'aiuto di elefantidomestici addestrati a questo scopo, li impastoiano alle zampe

 posteriori, e tutto è fatto.Ma questo metodo, che esige del tempo ed un certo impiego di

forze, è per lo più inefficace quando ci si vuole impadronire deigrossi maschi. Questi infatti sono animali più astuti, e abbastanzaintelligenti per forzare il cerchio dei battitori, e sanno sfuggirel'imprigionamento nel kiddah. Allora, alcune femmine addomesticatevengono incaricate di seguire questi maschi per alcuni giorni. Esse portano sul dorso i loro mahout, avvolti in coperte di colore scuro, equando gli elefanti, che non sospettano nulla, si abbandonanotranquillamente alle dolcezze del sonno, vengono afferrati,incatenati, trascinati via senza neppur aver avuto il tempo diraccapezzarsi.

Una volta, ho già avuto occasione di dirlo, gli elefanti sicatturavano per mezzo di fosse, in mezzo alle loro piste, e profondeuna quindicina di piedi; ma nella caduta l'animale si feriva o si

uccideva, ed ormai si è rinunciato quasi generalmente a questometodo barbaro.Infine nel Bengala e nel Nepal si adopera ancora il lasso. È una

vera caccia, con vicende interessanti. Elefanti ben addestrati vengonomontati da tre uomini. Sul collo, un mahout, che li guida; sui quarti posteriori un pungolatore che li incita con una mazza o con l'uncino;sul dorso l'indù incaricato di gettare il lasso munito del suo nodoscorsoio. Così equipaggiati questi pachidermi inseguono l'elefante

selvaggio, talvolta per delle ore, in mezzo alle pianure, attraverso leforeste, spesso con gran danno di quelli che li montano, e finalmentel'animale preso con il lasso cade pesantemente al suolo alla mercédei cacciatori.

Con questi vari metodi si catturano annualmente in Indiamoltissimi elefanti; non è una cattiva speculazione. Una femmina sivende fino a settemila franchi, un maschio fino a ventimila e anche a

cinquantamila quando è di razza pura.

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Ma sono proprio utili questi animali per pagarli tanto? Sì, e a pattodi nutrirli adeguatamente (cioè con sei o settecento libbre di foraggioverde ogni diciotto ore, ossia pressappoco quello che possono portaredi peso per una tappa media) se ne ottengono dei veri servizi:

trasporto di soldati e di approvvigionamenti militari, trasportodell'artiglieria nei paesi montuosi o nelle jungle inaccessibili aicavalli, lavori di forza per conto dei privati che li adoperano comeanimali da tiro. Questi giganti, poderosi e docili, facilmente e prestoaddomesticabili, grazie a un istinto speciale che li induceall'obbedienza, sono di uso generale nelle diverse provincedell'Indostan. Ora, siccome allo stato domestico non si moltiplicano, bisogna dar loro la caccia di continuo per poter soddisfare allerichieste della penisola e dell'estero.

Perciò vengono inseguiti, circondati e presi con tutti i mezzisuddetti. Eppure, nonostante il consumo che se ne fa, il loro numeronon sembra diminuire, ne rimangono moltissimi nei diversi territoridell'India.

E, aggiungo, ne rimangono «troppi», come si vedrà.I due elefanti si erano tirati da parte, come ho detto, in modo da

lasciar passare il nostro treno; ma, dietro di lui, avevano ripreso laloro strada interrotta per un momento. Quasi subito altri elefantiapparivano più indietro, e affrettando il passo raggiungevano lacoppia che avevamo superato. Un quarto d'ora dopo se ne potevacontare una dozzina. Essi osservavano la Steam-House, ci seguivanotenendosi a una distanza di cinquanta metri al massimo. Nonsembravano affatto desiderosi di raggiungerci, ma nemmeno dilasciarci. Ora, ciò riusciva loro tanto più facile, in quanto che, su

quelle rampe che aggiravano le principali groppe dei Vindhya, ilGigante d'Acciaio non poteva accelerare il passo.

Un elefante, del resto, sa muoversi con una velocità maggiore diquanto si possa credere, velocità che, secondo il signor Sanderson,competentissimo in materia, supera talvolta i venticinque chilometriall'ora. Per quelli che erano là, non c'era nulla di più facile, perconseguenza, sia di raggiungerci sia di sorpassarci.

Ma quella non sembrava la loro intenzione, in questo momentoalmeno. Senza dubbio, quanto volevano era riunirsi in un numero

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maggiore. Infatti a certe grida emesse come un richiamo dalle loroampie gole, rispondevano grida di ritardatari che seguivano la stessastrada.

Verso l'una del pomeriggio una trentina di elefanti radunati sulla

strada camminavano dietro a noi. Erano ormai un intero branco enulla provava che il loro numero non dovesse crescere ancora. Se un branco di questi pachidermi si compone per lo più di trenta oquaranta individui, che formano una famiglia di parenti più o meno prossimi, non è raro incontrare branchi di un centinaio di questianimali, e i viaggiatori non potrebbero considerare senza una certainquietudine questa eventualità.

Il colonnello Munro, Banks, Hod, il sergente, Kâlagani e io,avevamo preso posto sotto la veranda del secondo vagone, eosservavamo ciò che avveniva dietro di noi.

 — Il loro numero aumenta ancora, — disse Banks, — e saràingrossato senza dubbio da tutti gli elefanti dispersi sul territorio!

 — Eppure, — feci osservare, — non possono farsi udire oltre unacerta distanza.

 — No, — rispose l'ingegnere, — fiutano, e la finezza del loro

odorato è tale, che degli elefanti domestici riconoscono la presenza dielefanti selvatici anche a tre o quattro miglia. — È una vera migrazione, — disse allora il colonnello Munro. —

Guardate! Dietro il nostro treno, c'è tutta una mandria, divisa ingruppi di dieci o dodici elefanti, e quei gruppi vengono a prender parte al movimento generale. Bisognerà affrettare il nostro cammino,Banks.

 — Il Gigante d'Acciaio fa quello che può, Munro, — rispose

l'ingegnere. — Siamo a cinque atmosfere di pressione a tiraggioforzato, e la strada è molto ripida!

 — Ma a che serve affrettarsi? — esclamò il capitano Hod, nelquale questi incidenti suscitavano sempre il buonumore. — Lasciamoche ci accompagnino, queste brave bestie! È un corteo degno delnostro treno! Il paese era deserto, ora non lo è più, ed ecco checamminiamo scortati come rajah in viaggio!

 — Lasciarli fare, — rispose Banks, — è necessario! Del resto,non vedo come potremmo impedire loro di seguirci.

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 — Ma che cosa temete? — domandò il capitano Hod. — Certonon ignorate che un branco è sempre meno temibile di un elefantesolitario! Questi animali sono bravissimi!... Dei montoni, dei grossimontoni con la proboscide, ecco tutto!

 — Bene! Ecco Hod che si entusiasma! — disse il colonnelloMunro. — Ammetto che, se questo branco rimane indietro emantiene la sua distanza, non abbiamo nulla da temere; ma se glisalta il ticchio di volerci superare su questa stretta strada, ne potrebberisultare più d'un danno per la Steam-House!

 — Senza contare, — aggiunsi, — che quando si troveranno, per la prima volta, faccia a faccia col nostro Gigante d'Acciaio, non so benequale accoglienza gli faranno!

 — Lo saluteranno, per mille diavoli! — esclamò il capitano Hod. — Lo saluteranno come l'hanno salutato gli elefanti del principeGuru Singh!

 — Quelli erano elefanti addomesticati, — fece osservare, nonsenza ragione, il sergente Mac Neil.

 — Ebbene, — ribatté il capitano Hod, — questi siaddomesticheranno, o meglio, davanti al nostro gigante, saranno

colpiti da uno stupore che si trasformerà in rispetto!Si vede che il nostro amico non aveva perduto nulla del suoentusiasmo per l'elefante artificiale, «capolavoro della creazionemeccanica, creato dalla mano di un ingegnere inglese»!

 — Del resto, — aggiunse, — questi proboscidati (decisamentequesta parola gli stava a cuore), questi proboscidati sonointelligentissimi, ragionano, giudicano, paragonano, associano leidee, danno prova di un'intelligenza quasi umana!

 — La cosa è contestabile, — rispose Banks. — Come, contestabile! — esclamò il capitano Hod. — Ma

 bisognerebbe non aver vissuto in India per parlare così! Forse chequesti bravi animali non vengono usati per tutte le utilizzazionidomestiche? Vi è forse un servitore bipede implume che possaeguagliarli? Forse che, nella casa del suo padrone, l'elefante non è pronto a far di tutto? Ma non sapete, Maucler, che cosa ne dicono gli

autori che lo hanno conosciuto bene? Secondo loro, l'elefante ècortese con quelli che ama, li allevia dei loro carichi, va a cogliere

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 per loro fiori o frutti, va a fare la questua per la comunità, comefanno gli elefanti della celebre pagoda di Willenoor, pressoPondichery, paga nei bazar le canne da zucchero, i banani o i manghiche compera per proprio conto, nel Sunderbund protegge i greggi e

l'abitazione del suo padrone contro le belve, pompa l'acqua dallecisterne, porta a spasso i fanciulli che gli vengono affidati, conmaggior cura della migliore delle bambinaie di tutta l'Inghilterra! Èumano, riconoscente, perché ha una memoria prodigiosa, nondimentica né i benefici né le ingiustizie! Ecco, amici miei, a questigiganti dell'umanità, si, dico dell'umanità, non si farebbe schiacciareun insetto innocuo! Un amico mio, queste sono cose che non si possono dimenticare, ha visto collocare un insetto sopra un sasso, eordinare ad un elefante addomesticato di schiacciarlo! Ebbene, quel buonissimo pachiderma sollevava la zampa tutte le volte che passavasul sasso, e non vi furono né ordini né colpi che potessero indurlo a posarla sull'insetto! Al contrario, se gli si comandava di portarlo, lo prendeva delicatamente con quella specie di mano meravigliosa cheha all'estremità della proboscide, e gli dava la libertà! E ora, Banks,continuerete a dire che l'elefante non è buono, generoso, superiore a

tutti gli altri animali, anche alla scimmia, anche al cane, e non bisogna riconoscere che gli indù hanno ragione quando gli accordanoquasi altrettanta intelligenza dell'uomo?

E il capitano Hod, per concludere la sua tirata, non trovò nulla dimeglio che togliersi il cappello per salutare il preoccupante brancoche ci seguiva a passi misurati.

 — Ben detto, capitano Hod! — rispose il colonnello Munrosorridendo.

 — Gli elefanti hanno in voi un acceso difensore! — Ma non ho forse decisamente ragione, colonnello? — domandò

il capitano Hod. — È possibile che il capitano Hod abbia ragione — rispose

Banks, — ma credo di aver ragione anch'io col Sanderson, uncacciatore d'elefanti, che è diventato maestro in tutto ciò che riguardaquesti animali.

 — E che cosa dice dunque il vostro Sanderson? — esclamò ilcapitano in tono un po' sprezzante.

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 — Pretende che l'elefante non ha che una media d'intelligenzacomunissima, che gli atti più stupefacenti che si vedono compiere daquesti animali non risultano che da un'obbedienza abbastanza servileagli ordini che vengono loro dati più o meno segretamente dai loro

cornac.  — Questa poi! — disse il capitano Hod, che si accalorava. — Infatti, egli osserva, — continuò Banks, — che gli indù non

hanno mai scelto l'elefante come simbolo di intelligenza, per le lorosculture e per i loro disegni sacri, e che hanno accordato la preferenza alla volpe, al corvo e alla scimmia!

 — Protesto! — esclamò il capitano Hod, il cui braccio,gesticolando, prendeva il movimento rotatorio d'una tromba.

 — Protestate, capitano, ma ascoltate! — soggiunse Banks. —Sanderson aggiunge che quanto distingue in modo particolarel'elefante, è che esso ha in maggior grado la protuberanzadell'obbedienza, che deve formare una bella gobba sul suo cranio!Osserva pure che l'elefante si lascia catturare in trappole infantili (usa proprio questo termine), come le fosse coperte di rami, e che non fanessuno sforzo per uscirne! Nota che si lascia chiudere in certi recinti

in cui sarebbe impossibile spingere altri animali selvatici! Infineosserva che gli elefanti prigionieri che riescono a svignarsela si fannoriprendere con una facilità che non fa onore al loro buon senso!L'esperienza non insegna loro nemmeno ad essere prudenti!

 — Povere bestie! — ribatté il capitano Hod, in tono comico, —come vi maltratta questo ingegnere!

 — Aggiungo infine, ed è un ulteriore argomento in favore dellamia tesi, — soggiunse Banks — che gli elefanti resistono spesso ad

ogni tentativo di addomesticamento, in mancanza di un'intelligenzasufficiente ed è spesso difficilissimo assoggettarli, soprattutto quandosono giovani o quando appartengono al sesso debole!

 — È una somiglianza in più con gli esseri umani! — rispose ilcapitano Hod. — Forse che gli uomini non sono più facili da menare per il naso che non i fanciulli e le donne?

 — Capitano — rispose Banks — siamo tutti e due troppo celibi

 per essere competenti in materia! — Ben risposto!

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 — Per concludere — aggiunse Banks — dico che non bisognafidarsi troppo della pretesa bontà dell'elefante, che sarebbeimpossibile resistere a un branco di questi giganti, se un motivoqualunque li facesse inferocire, e che preferirei che quelli che ci

seguono in questo momento avessero da fare a nord, visto che noiandiamo a sud!

 — Tanto più, Banks — rispose il colonnello Munro — che mentretu e Hod discutete, il loro numero cresce in proporzioni preoccupanti!

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C  APITOLO IX

CENTO CONTRO UNO

SIR EDWARD Munro non si sbagliava. Una massa di cinquanta osessanta elefanti camminava ora dietro il nostro treno. Andavano infile serrate, e i primi si erano già avvicinati abbastanza alla Steam-

House, a meno di dieci metri, perché fosse possibile osservarliminutamente.In testa camminava in quel momento uno dei più grossi del

 branco, sebbene la sua altezza, misurata verticalmente alla spalla,non superasse certo i tre metri. Come ho già detto, è una staturainferiore a quella degli elefanti africani, alcuni dei quali sono alti finoa quattro metri. Le sue zanne, anche esse meno lunghe di quelle deisuoi confratelli africani, non misuravano più di un metro e cinquanta

centimetri alla curvatura esterna, e quaranta centimetri misurandoleal perno osseo che serve loro di base. Se si trovano nell'isola diCeylon un certo numero di questi animali privi di tali appendici, armiformidabili di cui si servono abilmente, questi muknas, è il nome chesi dà loro, sono piuttosto rari sui territori propriamente dettidell'Indostan.

Dietro questo elefante venivano molte femmine, che sono le veredirettrici della carovana. Senza la presenza della Steam-House, esseavrebbero formato l'avanguardia, e quel maschio sarebbe certamenterimasto indietro nelle file dei suoi compagni. Infatti, i maschi nons'intendono affatto della direzione del branco. Essi non hannol'incarico dei piccini, non possono sapere quando sia necessariofermarsi per i bisogni di questi lattanti, né che tipo di accampamentoconvenga loro. Sono dunque le femmine che, moralmente, hannol'autorità domestica e dirigono le grandi migrazioni.

Ora, sarebbe stato difficile rispondere alla domanda perché questo branco d'elefanti andava a quel modo, se lo spingeva attraverso le

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gole dei Vindhya il bisogno di lasciare dei pascoli esausti, lanecessità di fuggire la puntura di certe mosche perniciosissime,ovvero il desiderio di seguire il nostro bizzarro equipaggio. Il paeseera abbastanza scoperto, e secondo la loro usanza, quando non sono

 più in regioni boschive, quegli elefanti viaggiavano di pieno giorno.Quando fosse venuta la notte si sarebbero fermati, come saremmostati costretti a fare anche noi?

 — Capitano Hod — domandai al nostro amico — ecco che lanostra retroguardia di elefanti aumenta! Persistete a non temerenulla?

 — Peuh! — disse il capitano Hod. — Perché mai quelle bestie potrebbero farci del male? Non sono mica tigri, vero Fox?

 — Nemmeno pantere! — rispose l'attendente, associandosinaturalmente alle idee del suo padrone.

Ma, a questa risposta, vidi Kâlagani scuotere il capo in atto didisapprovazione. Evidentemente egli non condivideva la perfettatranquillità dei due cacciatori.

 — Non sembrate rassicurato, Kâlagani — gli disse Banks, che loguardava in quel momento.

 — Non si può affrettare un po' la marcia del treno? — siaccontentò di rispondere l'indù. — È difficile — rispose l'ingegnere. — Però, proveremo.E Banks, lasciando la veranda posteriore, ritornò sulla torretta

dove stava Storr. Quasi subito i barriti del Gigante d'Acciaiodivennero più precipitosi, e la velocità del treno aumentò.

Era poco, poiché la strada era dura. Ma quand'anche tale velocitàfosse stata raddoppiata, lo stato delle cose non si sarebbe affatto

modificato. Il branco d'elefanti avrebbe accelerato il passo, eccotutto. È appunto quello che fece, e la distanza che lo separava dallaSteam-House non diminuì.

Passarono così molte ore, senza nulla di nuovo. Dopo il pranzo,tornammo a prender posto sotto la veranda del secondo vagone.

In quel momento, la strada si stendeva dietro a noi in linea retta per due miglia almeno. Perciò lo sguardo non era più limitato da

 brusche svolte.

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Quale non fu la nostra serissima preoccupazione nel vedere che ilnumero degli elefanti era cresciuto ancora da un'ora a questa parte!Se ne contavano non meno di un centinaio.

Gli animali camminavano allora in fila doppia o tripla, secondo la

larghezza della strada, silenziosamente, tutti addirittura con lo stesso passo, gli uni con la proboscide alzata, gli altri con le zanne in aria.Era come il ribollimento del mare prodotto da grandi ondate difondo. Nulla rompeva ancora, per stare alla metafora; ma se unatempesta avesse scatenato quella massa in movimento, a quali pericoli saremmo stati esposti?

Frattanto a poco a poco scendeva la notte, una notte a cuidovevano mancare la luce della luna e il bagliore delle stelle. Unaspecie di nebbia correva negli alti strati del cielo.

Come aveva detto Banks, quando questa notte fosse stata profonda, non sarebbe stato possibile ostinarsi a seguire quelledifficili strade, sarebbe stato necessario fermarsi. L'ingegnere decisedunque di fare sosta non appena uno slargo della vallata o qualchefondo in una gola meno stretta avesse potuto permettere al brancominaccioso di passare di fianco al treno e di proseguire la sua

migrazione verso sud.Ma avrebbe poi fatto così, questo branco, oppure si sarebbeaccampato nel luogo in cui ci fossimo fermati noi?

Era questo il grosso interrogativo.Fu del resto evidente che, con il cadere della notte, gli elefanti

manifestavano una certa apprensione di cui non avevamo notatoalcun sintomo durante il giorno. Una specie di muggito, poderoso masordo, sfuggì dai loro ampi polmoni. Poi, a quel fracasso inquietante

seguì un altro rumore di tipo speciale. — Che rumore è questo? — domandò il colonnello Munro. — È il suono che questi animali producono, — rispose Kâlagani,

 — quando qualche nemico si trova in loro presenza! — E siamo noi, non possiamo essere che noi, che considerano

tali? — domandò Banks. — Lo temo! — rispose l'indù.

Quel rumore somigliava allora a un tuono lontano. Ricordavaquello che si produce fra le quinte di un teatro facendo vibrare una

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lamiera sospesa. Sfregando l'estremità della proboscide contro terra,gli elefanti emettevano degli enormi sbuffi d'aria raccolta con unaaspirazione prolungata. Da ciò quella sonorità poderosa e profondache vi serrava il cuore come il brontolio del tuono.

Erano le nove di sera.In quel luogo una specie di piccola pianura, quasi circolare, larga

circa mezzo miglio, serviva di sbocco alla via che conduceva al lagoPuturia, presso il quale Kâlagani aveva pensato di far porre il nostroaccampamento. Ma questo lago si trovava ancora a quindicichilometri e bisognava rinunciare a raggiungerlo prima chescendesse la notte.

Banks diede dunque il segnale di fermata. Il Gigante d'Acciaio siarrestò, ma non venne staccato. I fuochi non vennero nemmeno spintiin fondo al forno. Storr ricevette l'ordine di stare sempre sotto pressione affinché il treno fosse in grado di partire al primo segnale.Bisognava essere pronti a ogni eventualità.

Il colonnello Munro si ritirò nella sua cabina. Quanto a Banks e alcapitano Hod, non vollero coricarsi, e io preferii rimanere con loro.Tutto il personale, del resto, era in piedi. Ma che cosa avremmo

 potuto fare se agli elefanti fosse saltato il ticchio di gettarsi addossoalla Steam-House?Durante la prima ora di veglia, un sordo mormorio continuò a

 propagarsi intorno all'accampamento. Evidentemente, quelle grandimasse si spiegavano sulla piccola pianura. Volevano forseattraversarla e proseguire il loro cammino verso sud?

 — Può essere, in fin dei conti, — disse Banks. — Anzi è probabile, — aggiunse il capitano Hod, il cui ottimismo

non faceva una piega.Verso le undici circa, il rumore diminuì a poco a poco, e dieci

minuti dopo era cessato del tutto.La notte, allora, era perfettamente calma. Il minimo suono sarebbe

giunto fino alle nostre orecchie. Non si udiva nulla, tranne il sordorussare del Gigante d'Acciaio nell'ombra; non si vedeva nulla, tranneil fascio di scintille che sfuggiva talvolta dalla sua proboscide.

 — Ebbene, — disse il capitano Hod, — non avevo forse ragione?Sono partiti, quei bravi elefanti!

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 — Buon viaggio! — risposi. — Partiti! — rispose Banks, scuotendo il capo. — Lo vedremo!

 — Poi, chiamando il macchinista: — Storr, — disse, — i fanali!

 — Subito, signor Banks!Venti secondi dopo, due fasci di luce elettrica scaturivano dagli

occhi del Gigante d'Acciaio, e mediante un meccanismo automatico,giravano verso tutti i punti dell'orizzonte.

Gli elefanti erano là, in gran cerchio, intorno alla Steam-House,immobili come addormentati, e forse addormentati davvero. Queifari che illuminavano confusamente le loro masse cupe, sembravanoanimarli di una vita soprannaturale. Per una semplice illusione ottica,i mostri sui quali dardeggiava la luce assumevano proporzionigigantesche, degne di gareggiare con quelle del Gigante d'Acciaio.Colpiti dai vivi bagliori, si alzavano di colpo come se fossero statitoccati da un pungolo di fuoco. La loro proboscide si protendeva inavanti, le loro zanne si drizzavano. Si sarebbe detto che volesseroslanciarsi all'assalto del treno. Rauchi brontolii uscivano dalle loroampie mascelle. Anzi, ben presto, quell'improvviso furore si

comunicò a tutti, e intorno al nostro accampamento si levò unconcerto assordante, come se cento tromboni avessero suonatocontemporaneamente un appello rimbombante.

 — Spegni! — gridò Banks.La corrente elettrica fu subito interrotta, e il sabba cessò quasi

subito. — Sono là, schierati in cerchio, — disse l'ingegnere, — e saranno

ancora là all'alba!

 — Uhm! — esclamò il capitano Hod, la cui fiducia mi parve un po' scossa.

Che decisione prendere? Venne consultato Kâlagani, ed egli nonnascose la preoccupazione che provava.

Si poteva pensare a lasciare l'accampamento in quella notte buia?Era impossibile. E del resto a che cosa sarebbe servito? Il brancod'elefanti ci avrebbe certamente seguito e le difficoltà sarebbero state

maggiori che non durante il giorno.

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Fu dunque stabilito che la partenza avrebbe avuto luogo soloall'alba. Si sarebbe proceduto con tutta la prudenza e tutta la celerità possibili, ma senza spaventare quel terribile corteo.

 — E se questi animali si ostinano a seguirci? — domandai.

 — Cercheremo di giungere in qualche luogo in cui la Steam -House possa mettersi al di fuori della loro portata, — rispose Banks.

 — Troveremo questo luogo prima di uscire dai Vindhya? — feceil capitano Hod.

 — Ce n'è uno, — rispose l'indù. — Quale? — domandò Banks. — Il lago Puturia. — A che distanza si trova? — A nove miglia circa. — Ma gli elefanti nuotano, — rispose Banks, — e forse meglio di

qualsiasi altro quadrupede! Se ne sono visti di quelli che si sonotenuti a galla per più di mezza giornata! Ora non c'è da temere che ciseguano sul lago Puturia, e che la situazione della Steam-Housevenga peggiorata ulteriormente?

 — Non vedo altro mezzo per sottrarci al loro assalto! — disse

l'indù. — Lo tenteremo dunque! — rispose l'ingegnere.Era, infatti, la sola decisione da prendere. Forse, gli elefanti non

avrebbero osato avventurarsi a nuoto in quelle condizioni, e forseavremmo anche potuto batterli in velocità!

Aspettammo ansiosamente il giorno, che non tardò a spuntare. Nessuna dimostrazione ostile era stata fatta durante il resto dellanotte; ma all'alba, non un elefante si era mosso, e la Steam-House era

circondata da ogni lato.Sul luogo della sosta, allora, si verificò un movimento generale. Si

sarebbe detto che gli elefanti obbedissero a una parola d'ordine.Agitarono la proboscide, sfregarono le zanne contro il suolo, fecerola loro toeletta aspergendosi d'acqua fresca, terminarono di brucarequa e là qualche manciata di un'erba fitta, di cui quel pascolo eraabbondantemente fornito, e infine si avvicinarono tanto alla Steam-

House, che sarebbe stato possibile raggiungerli con dei colpi di piccaattraverso le finestre.

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testa al corteo, gli altri seguirono il treno. Tutti sembravano decisi anon abbandonarlo.

Contemporaneamente sui lati della via, più larga in quel punto,altri elefanti ci accompagnarono, come cavalieri agli sportelli di una

carrozza. Maschi e femmine si mischiavano; ce n'erano di tutte ledimensioni, di tutte le età, adulti di venticinque anni, «uominimaturi» di sessanta, vecchi pachidermi più che centenari, lattanti presso le loro madri, che con le labbra applicate alle loro mammelle,e non con la proboscide, come si è creduto a volte, poppavanocamminando. Tutto il branco conservava un certo ordine, non siaffrettava più del necessario, regolava il proprio passo su quello delGigante d'Acciaio.

 — Che ci scortino così fino al lago, — disse il colonnello Munro, — vi acconsento...

 — Sì, — rispose Kâlagani, — ma che cosa accadrà quando lastrada si farà più stretta?

Là stava il pericolo.Durante le tre ore impiegate per superare dodici dei quindici

chilometri che separavano l'accampamento dal lago Puturia, non

avvenne nessun incidente. Due o tre volte soltanto, alcuni elefanti sierano portati attraverso la strada, come se avessero avuto intenzionedi sbarrarla; ma il Gigante d'Acciaio, con le zanne proteseorizzontalmente, mosse loro incontro, sputò loro in faccia il suovapore, e quelli si fecero da parte per lasciarlo passare.

Alle dieci del mattino, rimanevano da percorrere quattro o cinquechilometri per giungere al lago. Là, almeno lo si sperava, saremmostati relativamente al sicuro.

S'intende che, se le dimostrazioni ostili dell'enorme branco nonfossero peggiorate prima del nostro arrivo al lago, Banks contava dilasciare il Puturia a ovest, senza fermarvisi, in modo da uscire ilgiorno seguente dalla regione dei Vindhya. Di là alla stazione diJubbulpore, non sarebbe più stato che questione di poche ore.

Aggiungerò che il paese era non solo molto selvaggio, maassolutamente deserto. Non un villaggio, non una fattoria (del che era

causa l'insufficienza dei pascoli), non una carovana, nemmeno un

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viaggiatore. Dopo il nostro ingresso in quella parte montagnosa delBundelkund, non avevamo incontrato anima viva.

Verso le undici, la valle seguita dalla Steam-House, fra due poderosi contrafforti della catena, cominciò a restringersi. Come

aveva detto Kâlagani, la strada doveva tornare strettissima fino al punto in cui sboccava al lago.

La nostra situazione, già molto preoccupante, non poteva dunqueche aggravarsi ancora.

Infatti, se le file degli elefanti si fossero semplicemente allungatedavanti e dietro al treno, le difficoltà non sarebbero cresciute. Maquelli che camminavano ai lati, non potevano rimanervi; ci avrebberoschiacciati contro le pareti rocciose della strada, oppure sarebberostati rovesciati nei precipizi che la costeggiavano in molti punti. Peristinto, tentarono dunque di mettersi, sia in testa, sia in coda, e in breve ne risultò che non fu più possibile andare né avanti né indietro.

 — La cosa si complica, — disse il colonnello Munro. — Sì, — rispose Banks, — ed eccoci nella necessità di sfondare

questa massa. — Ebbene, sfondiamo, sfondiamo! — esclamò il capitano Hod.

 — Che diavolo! Le zanne d'acciaio del nostro gigante valgono benele zanne di avorio di questi sciocchi animali!I proboscidati non erano più che «sciocchi animali» per il

mutevole capitano! — Senza dubbio, — rispose il sergente Mac Neil, — ma siamo

uno contro cento! — Avanti ad ogni costo! — esclamò Banks, — oppure tutto

questo branco ci passerà sopra!.

Il vapore impresse un moto più rapido al Gigante d'Acciaio. Lesue zanne colpirono la groppa di uno degli elefanti che gli stavanodavanti.

L'animale mandò un grido di dolore, a cui risposero i clamorifurenti di tutto il branco. Una lotta, di cui non si poteva prevedere ilrisultato, era imminente.

Avevamo preso le nostre armi, i fucili carichi con proiettili conici,

le carabine cariche di proiettili esplosivi, le rivoltelle munite dellecartucce. Bisognava essere pronti a respingere qualsiasi aggressione.

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Il primo assalto venne da un maschio gigantesco, dall'aspettotruce, che, con le zanne protese, le zampe posteriori saldamente piantate sul suolo, si rivolse contro il Gigante d'Acciaio.

 — Un gunesh! — esclamò Kâlagani.

 — Bah! non ha che una zanna sola! — ribatté il capitano Hod, chealzò le spalle in segno di disprezzo.

 — Appunto per questo è più temibile! — rispose l'indù.Kâlagani aveva dato a quell'elefante il nome di cui i cacciatori si

servono per designare i maschi che hanno una zanna sola. Sonoanimali particolarmente riveriti dagli indù, soprattutto quando lazanna che manca loro è la destra. Questo era uno di quelli, e, comeaveva detto Kâlagani, era temibilissimo, come tutti quelli della suaspecie.

E lo vedemmo bene. Il gunesh emise una lunga nota da trombone,ripiegò la proboscide, di cui gli elefanti non si servono mai percombattere, e si precipitò contro il nostro Gigante d'Acciaio.

La sua zanna colpì perpendicolarmente la lamiera del petto, laattraversò da parte a parte; ma incontrando la grossa armatura internadella caldaia, si spezzò di netto all'urto.

L'intero treno ne sentì la scossa. Ma la forza acquisita lo trascinòavanti, e esso respinse il gunesh, che, affrontandolo, tentò invano diresistere.

Ma il suo appello era stato udito e compreso. Tutta la massaanteriore del branco si arrestò e presentò un insormontabile ostacolodi carne vivente. Contemporaneamente, i gruppi posteriori,continuando la loro marcia, si spinsero violentemente contro laveranda. Come resistere a una simile forza schiacciante?

Frattanto, alcuni di quelli che avevamo ai fianchi, con le proboscidi alzate, si aggrappavano ai montanti delle carrozze chescrollavano con violenza.

 Non bisognava fermarsi, o il treno era perduto, ma bisognavadifendersi. L'esitazione non era più possibile. Fucili e carabinefurono puntati contro gli assalitori.

 — Non perdete un colpo! — gridò il capitano Hod. — Amici

miei, mirate all'attaccatura della proboscide o nel cavo sotto l'occhio.È il punto migliore!

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Il capitano Hod fu ubbidito. Si udirono molti spari, che furonoseguiti da urla di dolore.

Tre o quattro elefanti, colpiti al punto giusto, erano caduti, dietro eai fianchi, e fu una fortuna, poiché i cadaveri non ostruivano la

strada. I primi gruppi avevano indietreggiato un poco, e il treno potécontinuare la sua marcia.

 — Ricaricate e aspettate! — gridò il capitano Hod.Se ciò che egli ordinava di aspettare era l'assalto di tutto il branco

in massa, l'attesa non fu lunga. Esso avvenne con un impeto tale checi credemmo perduti.

Un concerto di urla furiose e rauche scoppiò improvvisamente. Sisarebbero detti di quegli elefanti da combattimento che gli indù, conun trattamento particolare, portano a quell'eccitamento di rabbiachiamato musth. Nulla è più tremendo, ed i più audaci elefantadors,addestrati nel Guicowar per lottare contro questi formidabili animali,avrebbero certamente indietreggiato davanti agli assalitori dellaSteam-House.

 — Avanti! — gridava Banks. — Fuoco! — gridava Hod.

E ai barriti precipitosi della macchina si univano le detonazionidelle armi. Ma in quella massa confusa diventava difficile miraregiusto, come aveva raccomandato il capitano. Ogni pallottola trovavasi un pezzo di carne da forare, ma non colpiva mortalmente. Perciògli elefanti, feriti, raddoppiavano di furore, e alle nostre fucilaterispondevano con dei colpi di zanne che sventravano le pareti dellaSteam - House.

Frattanto, agli spari delle carabine scaricate sia dal davanti sia dal

retro del treno, allo scoppio dei proiettili esplosivi nel corpo deglianimali, si univano i fischi del vapore, surriscaldato per il tiraggioforzato. La pressione aumentava sempre. Il Gigante d'Acciaioentrava nel mucchio, lo divideva, lo respingeva.Contemporaneamente la sua proboscide mobile, alzandosi edabbassandosi come una formidabile mazza, picchiava a colpi reiteratisulla massa carnosa che le sue zanne laceravano.

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E si avanzava per la stretta via. A volte, le ruote slittavano sullasuperficie del suolo, ma finivano con il morderla di nuovo con i lorocerchioni rigati, e noi guadagnavamo strada verso il lago.

 — Hurrah! — gridava il capitano Hod, come un soldato che si

getta nel più folto della mischia. — Hurrah! Hurrah! — gridavamo dopo di lui.Ma, quasi subito, una proboscide si abbatte sulla veranda

anteriore. Vedo l'attimo in cui il colonnello Munro, sollevato da quellasso vivente, sta per essere precipitato sotto i piedi degli elefanti. Ecosì sarebbe avvenuto, senza l'intervento di Kâlagani, che tagliò la proboscide con un vigoroso colpo di scure.

Dunque, pur prendendo parte alla difesa comune, l'indù non perdeva di vista sir Edward Munro. Con questa devozione alla persona del colonnello, devozione che non si era mai smentita, eglisembrava comprendere che di tutti noi era lui quello che bisognava proteggere prima di tutto.

Ah! che potenza conteneva nei suoi fianchi il nostro Giganted'Acciaio! Con quale sicurezza si cacciava nella massa, come uncuneo, la cui forza di penetrazione è, per così dire, infinita! E

siccome nello stesso tempo gli elefanti della retroguardia cispingevano con la testa, il treno continuava ad avanzare senza soste,se non senza scosse, e procedeva anzi più presto di quanto avessimo potuto sperare.

Improvvisamente, in mezzo al fracasso generale, si udì un nuovorumore. Era la seconda carrozza che un gruppo di elefanticominciava a schiacciare contro le rupi della strada.

 — Raggiungeteci! raggiungeteci! — gridò Banks a quelli dei

nostri compagni che difendevano la parte posteriore della Steam-House.

Goûmi, il sergente e Fox erano passati precipitosamente dallaseconda carrozza nella prima.

 — E Parazard? — disse il capitano Hod. — Non vuol lasciare la sua cucina, — rispose Fox. — Portatelo via! portatelo via!

Senza dubbio, il nostro cuoco pensava che sarebbe stato undisonore per lui abbandonare il posto che gli era stato affidato. Ma

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voler resistere alle braccia vigorose di Goûmi, quando quelle bracciasi mettevano all'opera, sarebbe stato come pretendere di sfuggire auna tenaglia. Il signor Parazard fu dunque deposto nella sala da pranzo.

 — Ci siete tutti? — gridò Banks. — Sì, signore, — rispose Goûmi. — Tagliate la barra di aggancio! — Abbandonare metà del treno!... — esclamò il capitano Hod. — È necessario! — rispose Banks.E, tagliata la barra, spezzata la passerella a colpi di scure, la nostra

seconda carrozza rimase indietro.Era tempo. La carrozza venne scossa, sollevata, poi rovesciata, e

gli elefanti, gettandovisi sopra, finirono di schiacciarla con tutto illoro peso. Essa non era più che un rudere informe, che ormai ostruivala strada retrostante.

 — Mah! — disse il capitano Hod con un tono che ci avrebbe fattoridere se il momento fosse stato opportuno, — e dire che questianimali non schiaccerebbero nemmeno un insetto!

Se gli elefanti, infuriati, avessero trattato la prima carrozza come

avevano trattato la seconda, non c'era più da farsi illusioni sulla sorteche ci aspettava. — Forza i fuochi, Kâlouth! — gridò l'ingegnere.Mezzo chilometro ancora, un ultimo sforzo, e forse saremmo

giunti al lago Puturia!Quest'ultimo sforzo che ci aspettavamo dal Gigante d'Acciaio, il

 poderoso animale lo fece sotto la mano di Storr, che azionò fino infondo l'acceleratore. Fece una vera breccia attraverso quel bastione di

elefanti, le cui groppe si disegnavano sopra la massa come quelleenormi groppe di cavalli che si vedono nei quadri di battaglia diSalvator Rosa. Poi, egli non si accontentò di tormentarli con le suezanne; lanciò contro di loro dei getti di vapore ardente, come avevafatto con i pellegrini del Phalgu, li sferzò con altri getti d'acqua bollente!... Era magnifico!

Finalmente il lago apparve all'ultima svolta della strada.

Se avesse potuto resistere ancora dieci minuti, il nostro treno sisarebbe trovato relativamente al sicuro.

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Gli elefanti, senza dubbio, lo capirono, il che era una prova infavore della loro intelligenza, di cui il capitano Hod aveva difeso lacausa. Ancora una volta vollero rovesciare la nostra carrozza.

Ma le armi da fuoco tuonarono di nuovo, i proiettili grandinarono

fino sui primi gruppi. Solo cinque o sei elefanti ci sbarravano ancorail passaggio. Caddero quasi tutti, e le ruote stridettero su un terrenoarrossato di sangue.

A cento passi dal lago, bisognò respingere quei pochi animali cheformavano un ultimo ostacolo.

 — Ancora! ancora! — gridò Banks al macchinista.Il Gigante d'Acciaio ruggiva come se avesse contenuto un'officina

di aspatrici meccaniche nei suoi fianchi. Il vapore sfuggiva dallevalvole a una pressione di otto atmosfere. Per poco che le si fosserocaricate ancora, si sarebbe fatta scoppiare la caldaia, le cui lamierefremevano. Fu inutile, fortunatamente. La forza del Giganted'Acciaio era ormai irresistibile; si sarebbe potuto credere chespiccasse dei balzi sotto i colpi di stantuffo. Ciò che rimaneva deltreno lo seguì, schiacciando le membra degli elefanti buttati a terra, arischio di capovolgersi. Se fosse avvenuto un accidente simile, tutti

gli ospiti della Steam-House sarebbero stati spacciati.Ma non accadde; la riva del lago fu finalmente raggiunta, e iltreno galleggiò poco dopo sulle acque tranquille.

 — Dio sia lodato! — disse il colonnello Munro.Due o tre elefanti, accecati dal furore, si precipitarono nel lago e

tentarono di inseguire sulla sua superficie coloro che non avevano potuto annientare sulla terraferma.

Ma le zampe del Gigante d'Acciaio fecero il loro dovere. Il treno

si allontanò a poco a poco dalla riva e alcuni ultimi proiettili, bendiretti, ci liberarono di quei «mostri marini» nel momento in cui leloro proboscidi stavano per piombare sulla veranda posteriore.

 — Ebbene, capitano,,— esclamò Banks, — che ne pensate dellamitezza degli elefanti indiani?

 — Peuh! — disse il capitano Hod, — non valgono le belve!Mettetemi soltanto una trentina di tigri al posto di quel centinaio di

 pachidermi, e voglio perdere il mio grado se a quest'ora uno solo dinoi sarebbe ancora in vita per raccontare l'avventura!

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C  APITOLO X

 IL  LAGO PUTURIA

IL LAGO Puturia, sul quale la Steam-House aveva trovato provvisoriamente rifugio, è situato a quaranta chilometri circa a est diDumoh. Questa città, capoluogo della provincia inglese a cui dà il

suo nome, sta prosperando, e con i suoi dodicimila abitanti, rinforzatida una piccola guarnigione, comanda questa pericolosa parte delBundelkund. Ma, al di là delle sue mura, soprattutto verso la parteorientale del paese, nella regione più incolta dei Vindhya, di cui illago occupa il centro, la sua influenza si fa sentire a stento.

In fin dei conti che cosa ci poteva accadere ormai di peggio diquell'incontro di elefanti, da cui eravamo riusciti a uscire sani esalvi?

La situazione, tuttavia, non cessava di essere preoccupante, poichéla maggior parte del nostro materiale era scomparsa. Una dellecarrozze componenti il treno della Steam-House era distrutta. Nonc'era nessun mezzo di «rimetterla a galla» per usare un'espressionedel linguaggio marinaresco. Rovesciata a terra, schiacciata contro lerocce, della sua carcassa, sulla quale era passata inevitabilmente lamassa degli elefanti, non dovevano più rimanere che avanzi informi.

Ma, oltre a servire ad alloggiare il personale della spedizione,quella carrozza conteneva non solo la cucina e la dispensa, ma anchele provviste di cibo e di munizioni. Di queste ultime ci rimanevanosoltanto una dozzina di cartucce, ma non era probabile chedovessimo fare uso delle armi da fuoco prima del nostro arrivo aJubbulpore.

Quanto al cibo, era un altro problema e di più difficile soluzione.Infatti non rimaneva più nulla delle provviste della dispensa. Pur

ammettendo che la sera successiva fossimo giunti alla stazione,

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quali sono incontestabilmente dure e coriacee; ma sembra chel'Autore di tutte le cose abbia voluto riservare, in quella massacarnosa, due pezzi di prima qualità, degni di essere serviti alla mensadel viceré delle Indie. Dico la lingua dell'animale, che è

saporitissima, quando è preparata con una ricetta la cui applicazionemi è esclusivamente personale, e i piedi del pachiderma...

 — Pachiderma?... Benissimo, benché proboscidato sia piùelegante, — disse il capitano Hod, approvando col gesto.

 — ... piedi, — soggiunse il signor Parazard, — con i quali si fauna delle migliori zuppe conosciute in quell'arte culinaria di cui sonoil rappresentante nella Steam-House.

 — Ci fate venire l'acquolina in bocca, signor Parazard, — risposeBanks. — Disgraziatamente da una parte, e fortunatamente dall'altra,gli elefanti non ci hanno seguito sul lago, e temo proprio che si debbarinunciare, per qualche tempo almeno, alla zuppa di piede e agliintingoli di lingua di questo saporito ma terribile animale.

 — Non sarebbe possibile, — propose il cuoco, — tornare a terra per procurarsi?...

 — Non è possibile, signor Parazard. Per squisite che avrebbero

 potuto essere le vostre preparazioni, non possiamo correre questorischio. — Ebbene, signori, — soggiunse il nostro cuoco, — vogliate

ricevere l'espressione di tutti i rammarichi che mi fa provare questadeplorevole avventura.

 — I vostri rammarichi sono stati espressi, signor Parazard, —rispose il colonnello Munro, — e ve ne diamo atto. Quanto al pranzoe alla colazione, non preoccupatevene prima del nostro arrivo a

Jubbulpore. — Non mi rimane dunque che ritirarmi, — disse il signor

Parazard, inchinandosi, senza perder nulla della sua solita gravità.Avremmo riso volentieri dell'atteggiamento del nostro cuoco, se

non avessimo dovuto affrontare altre preoccupazioni.Infatti, una complicazione si era aggiunta a tutte le altre. Banks ci

fece sapere che in quel momento la cosa più spiacevole non era la

mancanza di viveri o di munizioni, ma la mancanza di combustibile. Non c'era da stupirsi di ciò, poiché da quarantotto ore non era stato

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del suolo, non fu lo stesso alla superficie del Puturia, a causadell'evaporazione delle acque. Dopo una giornata piuttosto calda, glialti e i bassi strati dell'atmosfera si confusero fra loro e tutto il lagonon tardò a sparire sotto una nebbia, poco fitta dapprima, ma che si

addensava sempre più.Ecco dunque, come aveva detto Banks, una complicazione di cui

 bisognava tener conto.Come egli aveva pure annunciato, verso le sette e mezzo si

udirono gli ultimi gemiti del Gigante d'Acciaio, i colpi di stantuffodivennero meno rapidi, le zampe articolate cessarono di batterel'acqua, e la pressione scese al disotto di un'atmosfera. Non c'era piùcombustibile né alcun mezzo di procurarsene.

Il Gigante d'Acciaio e l'unica carrozza che rimorchiava alloragalleggiavano tranquillamente sulle acque del lago, ma non simovevano più.

In simili condizioni, in mezzo alle nebbie, sarebbe stato difficilerilevare esattamente la nostra posizione. Nel poco tempo che lamacchina aveva funzionato, il treno si era diretto verso la riva sud-estdel lago, per cercarvi un punto di sbarco. Ora, siccome il Puturia ha

la forma di un ovale piuttosto allungato, era possibile che la Steam-House non fosse più molto lontana dall'una o dall'altra delle sue rive.È chiaro che le grida degli elefanti che ci avevano inseguito per

un'ora circa, spente ora in lontananza, non si facevano più udire.Discutevamo dunque delle diverse eventualità che ci riservava

quella nuova situazione. Banks fece chiamare Kâlagani che volevaconsultare.

L'indù venne subito e fu invitato a dare il suo parere.

Eravamo riuniti allora nella sala da pranzo, che, ricevendo la lucedal lucernario superiore, non aveva finestre laterali. In questo modo,il bagliore delle lampade accese non poteva trasmettersi all'esterno.Precauzione utile, poiché era meglio che la posizione della Steam-House non fosse nota ai banditi che percorrevano forse le rive dellago.

Kâlagani sembrò dapprima esitare a rispondere alle domande che

gli vennero fatte, almeno così mi parve. Si trattava di stabilire la posizione che doveva occupare il treno galleggiante sulle acque del

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Puturia, e mi rendo conto che la risposta doveva essere imbarazzante.Poteva darsi che una debole brezza di nord-ovest avesse agito sullamassa della Steam-House. Forse anche una leggera corrente citrascinava verso la punta inferiore del lago.

 — Vediamo, Kâlagani, — disse Banks insistendo, — voiconoscete perfettamente l'estensione del Puturia?

 — Senza dubbio, signore, — rispose l'indù, — ma è difficile, inmezzo a questa nebbia...

 — Potete stimare approssimativamente la distanza a cui citroviamo in questo momento dalla riva più vicina?

 — Sì, — rispose l'indù, dopo averci pensato per qualche tempo. — Questa distanza non deve superare il miglio e mezzo.

 — Verso est? — domandò Banks. — Verso est. — Dunque, se ci accostassimo a questa riva, saremmo più vicini a

Jubbulpore che a Dumoh? — Certamente. — Dunque è a Jubbulpore che bisognerebbe rifare

l'approvvigionamento, — disse Banks. — Ora, chissà quando e come

 potremo giungere alla riva! La cosa può durare un giorno, due giorni,e le nostre provviste sono esaurite! — Ma, — disse Kâlagani — non si potrebbe tentare, o almeno,

uno di noi non potrebbe tentare di recarsi a terra questa notte stessa? — E come? — Raggiungendo la riva a nuoto. — Un miglio e mezzo, in questa fitta nebbia! — rispose Banks. —

Sarebbe rischiare la vita...

 — Non è una ragione per non tentarlo, — rispose l'indù. Non so perché, mi parve ancora che la voce di Kâlagani non

avesse la sua franchezza consueta. — Tentereste di attraversare il lago a nuoto? — domandò il

colonnello Munro che osservava attentamente l'indù. — Sì, colonnello, e credo che vi riuscirei. — Ebbene, amico mio, — soggiunse Banks — ci fareste un gran

servizio! Una volta a terra, vi sarebbe facile giungere alla stazione diJubbulpore e condurci i soccorsi di cui abbiamo bisogno.

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 — Sono pronto a partire! — rispose semplicemente Kâlagani.Mi aspettavo che il colonnello Munro ringraziasse la nostra guida,

che si offriva di compiere un'impresa così pericolosa; ma, dopoaverla guardata ancora più attentamente, egli chiamò Goûmi.

Goûmi comparve subito. — Goûmi — disse sir Edward Munro — tu sei un bravo

nuotatore? — Sì, colonnello. — Un miglio e mezzo da fare, stanotte, sulle acque calme del

lago, non ti darebbero fastidio? — Né un miglio, né due. — Ebbene, — soggiunse il colonnello Munro — ecco Kâlagani

che si offre di recarsi a nuoto alla riva più vicina a Jubbulpore. Ora,tanto sul lago quanto in questa parte del Bundeikund, due uominiintelligenti e arditi, che possano aiutarsi a vicenda, hanno maggiori probabilità di riuscita. Vuoi accompagnare Kâlagani?

 — Subito, colonnello — rispose Goûmi. — Non ho bisogno di nessuno, — ribatté Kâlagani — ma se il

colonnello Munro ci tiene, accetto volentieri Goûmi per compagno.

 — Andate dunque, amici miei, — disse Banks — e siate prudentiquanto siete coraggiosi.Stabilito ciò, il colonnello Munro, prendendo Goûmi in disparte,

gli fece alcune raccomandazioni, brevemente formulate. Cinqueminuti dopo, i due indù, con un pacco di abiti legato sul capo, situffarono nelle acque del lago. La nebbia era molto fitta allora, e poche bracciate bastarono a farli scomparire.

Domandai allora al colonnello Munro perché si era mostrato così

desideroso di dare un compagno a Kâlagani. — Amici miei, — rispose sir Edward Munro — le risposte di

quell'indù, della cui fedeltà finora non ho mai sospettato, non misono sembrate sincere!

 — Ho provato la stessa impressione anch'io — dissi. — Io, invece, non ho osservato nulla... — fece notare l'ingegnere. — Ascolta, Banks — riprese il colonnello Munro. — Offrendoci

di recarsi a terra, Kâlagani aveva un secondo fine. — Quale?

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 — Non so, ma se ha chiesto di sbarcare non è per andare a cercaresoccorsi a Jubbulpore.

 — Eh! — esclamò il capitano Hod.Banks guardava il colonnello corrugando le sopracciglia, poi:

 — Munro, — disse, — finora questo indù si è sempre mostratoaffezionatissimo, e specialmente verso di te! Oggi tu pretendi cheKâlagani ci tradisce! Che prova hai?

 — Mentre Kâlagani parlava, — rispose il colonnello Munro, —ho visto la sua pelle farsi più scura, e quando le persone dalla pelleramata si fanno più scure, è segno che mentono! Venti volte ho potuto confondere a questo modo indù e bengalesi, e non mi sonomai ingannato. Ripeto dunque che Kâlagani, nonostante tutto quelloche si può pensare in suo favore, non ha detto la verità.

Questa osservazione di sir Edward Munro, l'ho spesso constatatoin seguito, era fondata.

Quando mentono, gli indù diventano leggermente più scuri, cosìcome i bianchi arrossiscono. Questo sintomo non era potuto sfuggirealla perspicacia del colonnello, e bisognava tener conto della suaosservazione.

 — Ma quali sarebbero dunque i piani di Kâlagani, — domandòBanks, — e perché dovrebbe tradirci? — È quanto sapremo più tardi... — rispose il colonnello Munro,

 — troppo tardi forse! — Troppo tardi, colonnello! — esclamò il capitano Hod. — Non

siamo ancora perduti, immagino! — In ogni caso, Munro, — soggiunse l'ingegnere, — hai fatto

 bene a dargli Goûmi per compagno. Quello ci sarà fedele fino alla

morte; svelto, intelligente, se sospetta qualche pericolo, saprà... — Tanto più, — rispose il colonnello Munro, — che è avvertito e

che diffiderà del suo compagno. — Bene, — disse Banks. — Ora, non ci rimane che aspettare il

giorno. Questa nebbia si alzerà senza dubbio con il sole, e alloravedremo che cosa dovremo decidere.

Aspettare, sì! Quella notte doveva dunque passare ancora in

completa insonnia.

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La nebbia era diventata più fitta, ma nulla faceva presagirel'avvicinarsi del cattivo tempo. Era una fortuna, poiché, se il nostrotreno poteva galleggiare, non era fatto per «tenere il mare»! Si potevadunque sperare che tutte quelle bollicine di vapore si sarebbero

condensate all'alba, il che avrebbe assicurato una bella giornata perdomani.

Dunque, mentre il nostro personale si sistemava nella sala da pranzo, noi ci sdraiammo sui divani del salotto, chiacchierando poco,ma prestando orecchio a tutti i rumori esterni.

Di colpo, verso le due dopo la mezzanotte, un concerto di belvevenne a turbare il silenzio della notte.

La riva era dunque là, in direzione sud-est, ma doveva essereancora abbastanza lontana. Quegli urli erano assai indeboliti da unadistanza che Banks stimò non inferiore a un buon miglio. Una frottad'animali selvatici, senza dubbio, era venuta a dissetarsi alla puntaestrema del lago.

Ma, ben presto fu anche accertato che, sotto l'influenza di una brezza leggera, il treno galleggiante si dirigeva verso la riva, in modolento ma continuo. Infatti, non solo quelle grida giungevano più

distinte alle nostre orecchie, ma si distingueva già il cupo ruggitodella tigre dall'urlo rauco delle pantere. — Eh! — non poté trattenersi dal dire il capitano Hod, — che

 bell'occasione per ammazzare la mia cinquantesima! — Un'altra volta, capitano! — rispose Banks. — Spuntato il

giorno, gradirei pensare che, nel momento in cui ci avvicineremo allariva, questa frotta di belve ci avrà ceduto il posto!

 — Ci sarebbe qualche inconveniente, — domandai, — ad

azionare i fanali elettrici? — Non credo, — rispose Banks. — Questa parte della riva molto

 probabilmente è occupata solo da animali che stanno bevendo. Nonvi è dunque alcun inconveniente nel tentare di riconoscerli.

E, a un ordine di Banks, due fasci luminosi furono proiettati nelladirezione di sud-est. Ma la luce elettrica, impotente a trafiggerequella fitta nebbia, non poté illuminarla che per un breve settore

davanti alla Steam-House, e la riva rimase assolutamente invisibile ainostri sguardi.

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Frattanto, quegli urli, la cui intensità cresceva a poco a poco,indicavano che il treno continuava ad andare alla deriva sullasuperficie del lago. Evidentemente, gli animali rimasti in quel luogodovevano essere numerosissimi. In ciò non c'era nulla di

straordinario, poiché il lago Puturia è come un abbeveratoio naturale per le belve di questa parte del Bundelkund.

 — Purché Goûmi e Kâlagani non siano caduti in mezzo a tuttequelle belve! — disse il capitano Hod.

 — Non sono le tigri che temo per Goûmi! — rispose il colonnelloMunro.

Decisamente, i sospetti non avevano fatto che crescere nell'animodel colonnello, e cominciavo a esserne impressionato anch'io.Eppure, i buoni uffici di Kâlagani, dal nostro arrivo nella regionedell'Himalaya, i suoi servizi incontestabili, la sua devozione nelledue circostanze in cui aveva arrischiato la vita per sir Edward Munroe per il capitano Hod, tutto testimoniava a suo favore. Ma quandol'animo si lascia trascinare al dubbio, il valore dei fatti compiuti sialtera, là loro fisionomia muta, si dimentica il passato, si teme perl'avvenire.

Pure, quale movente poteva spingere quell'indù a tradirci? Avevadei motivi di odio personale contro gli ospiti della Steam-House? No,certamente! Perché avrebbe dovuto attirarli in un tranello? Erainesplicabile. Ognuno si abbandonava dunque a pensieri moltoconfusi, e attendevamo con impazienza di vedere gli sviluppi diquella situazione.

A un tratto, verso le quattro del mattino, gli animali smisero bruscamente le loro grida. Ciò che ci colpì tutti quanti è che essi non

sembravano essersi allontanati a poco a poco, gli uni dopo gli altri,emettendo un ultimo grido dopo l'ultima bevuta. No, la cosa siverificò da un momento all'altro. Si sarebbe detto che una circostanzafortuita li avesse turbati nella loro operazione costringendoli afuggire. Evidentemente, tornavano nelle loro tane, non come belveche vi rientrano, ma come belve che vi si rifugiano.

Il silenzio era dunque seguito al rumore senza transizione. La

causa di questo fenomeno ci sfuggiva ancora, ma aumentava lanostra preoccupazione.

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Per prudenza, Banks diede l'ordine di spegnere i fanali. Se glianimali erano fuggiti davanti a qualche banda di quei banditi distrada che battono il Bundelkund e i Vindhya, bisognava nascondereloro accuratamente la posizione della Steam-House.

Il silenzio, oramai, non era più turbato nemmeno dal rumoredell'acqua: il vento era cessato, ed era impossibile sapere se il trenocontinuasse a andare alla deriva sotto la spinta della corrente. Ma non poteva tardare a farsi giorno, e il sole, senza dubbio, avrebbespazzato quelle nebbie, che occupavano solo gli strati bassidell'atmosfera.

Guardai il mio orologio: erano le cinque. Senza la nebbia, l'albagià avrebbe allargato il cerchio visivo di qualche miglio. La rivaavrebbe dunque dovuto essere in vista; ma il velo non si lacerava e bisognava aver pazienza ancora.

Il colonnello Munro, Mac Neil e io davanti al salotto, Fox,Kâlouth e il signor Parazard dietro la sala da pranzo, Banks e Storrnella torretta, il capitano Hod appollaiato sul dorso del gigantescoanimale, vicino alla proboscide, come un marinaio di guardia sulla prua di una nave, aspettavamo che qualcuno di noi gridasse: Terra!

Verso le sei, si levò una brezzolina, appena sensibile, ma che ben presto rinfrescò. I primi raggi del sole trapassarono la nebbia, el'orizzonte si scoprì ai nostri sguardi.

La riva apparve verso sud-est. Essa formava all'estremità del lagouna specie di ansa profonda con grandi boschi sullo sfondo. I vaporisalirono a poco a poco, e lasciarono vedere in fondo delle montagne,le cui vette si delinearono rapidamente.

 — Terra! — aveva gridato il capitano Hod.

Il treno galleggiante non era allora a più di duecento metri dalfondo dell'ansa del Puturia, e andava alla deriva spinto dalla brezzache soffiava da nord-ovest.

 Nulla su quella riva. Né un animale né un essere umano.Sembrava assolutamente deserta. Non una casa, del resto, non unafattoria sotto il fitto, fogliame dei primi alberi; sembrava dunque chesi potesse approdare senza pericolo.

Con l'aiuto del vento, l'approdo fu facile, presso una riva piattacome un greto di sabbia. Ma, mancando il vapore, non era possibile

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né risalirla né lanciarsi su una strada che, consultando la direzionedata dalla bussola, doveva essere la via di Jubbulpore.

Senza perdere un istante, avevamo seguito il capitano Hod, che, per primo, era balzato a terra.

 — In cerca di combustibile! — gridò Banks. — Fra un'ora saremoin pressione, e avanti!

La raccolta era facile. Legna ce n'era dappertutto per terra, ed eraabbastanza secca da poter venire utilizzata subito. Bastava dunqueriempirne il forno e caricarne il tender.

Tutti si diedero da fare. Solo Kâlouth rimase davanti alla caldaiamentre noi raccoglievamo combustibile sufficiente per ventiquattroore. Era più di quanto occorresse per giungere alla stazione diJubbulpore, dove il carbone non ci sarebbe mancato. Quanto al cibo,il cui bisogno si faceva sentire, non sarebbe stato certamente proibitoai cacciatori della spedizione di procurarlo durante la marcia. Ilsignor Parazard avrebbe preso a prestito il fuoco da Kâlouth e, o beneo male, avremmo saziato la nostra fame.

Tre quarti d'ora dopo, il Gigante d'Acciaio si metteva in moto, esaliva finalmente la scarpata della riva all'imbocco della strada.

 — A Jubbulpore! — gridò Banks.Ma Storr non aveva avuto il tempo di cominciare ad azionarel'acceleratore, che sul ciglio della foresta scoppiarono delle gridafuribonde. Una turba di centocinquanta indù almeno si gettava sullaSteam-House. La torretta del Gigante d'Acciaio, la carrozza, tantodavanti quanto di dietro, erano invase, prima ancora che avessimo potuto raccapezzarci!

Quasi subito, gli indù ci trascinavano a cinquanta passi dal treno,

ed eravamo messi nell'impossibilità di fuggire.Si immagini la nostra collera, la nostra rabbia, alla scena di

distruzione e di saccheggio che seguì. Gli indù, con la scure in mano,si precipitarono all'assalto della Steam-House. Tutto fu saccheggiato,devastato, distrutto. Dell'arredamento interno ben presto non rimase più nulla! Poi, il fuoco terminò l'opera di distruzione, ed in pochiminuti, tutto ciò che poteva bruciare della nostra ultima carrozza fu

divorato dalle fiamme!

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 — Mascalzoni! Canaglie! — gridava il capitano Hod, che moltiindù riuscivano a stento a trattenere.

Ma, come noi, doveva limitarsi a delle inutili ingiurie, che quegliindù non sembravano nemmeno comprendere. Quanto a sottrarci a

coloro che ci custodivano, non bisognava nemmeno pensarci.Le ultime fiamme si spensero, e poco dopo non rimase altro che la

carcassa informe di quella pagoda ambulante che aveva attraversatomezza penisola!

Gli indù avevano poi assalito il nostro Gigante d'Acciaio;avrebbero voluto distruggere anche lui! Ma questa volta, non lo poterono. Né la scure né il fuoco avevano qualche efficacia né controla grossa armatura di lamiera che formava il corpo dell'elefanteartificiale né contro la macchina che portava dentro di sé. Nonostantei loro sforzi, rimase intatto, in mezzo agli applausi del capitano Hod,che lanciava degli hurrah nello stesso tempo di piacere e di rabbia.

In quel momento apparve un uomo. Doveva essere il capo diquegli indù.

Tutta la banda venne subito a schierarsi davanti a lui.Un altro uomo lo accompagnava. Tutto si spiegò; quell'uomo era

la nostra guida, era Kâlagani.Di Goûmi non si vedeva nessuna traccia. Il fedele era scomparso,il traditore era rimasto. Senza dubbio, la devozione del nostro bravoservitore gli era costata la vita, e non dovevamo più rivederlo!Kâlagani avanzò verso il colonnello Munro, e freddamente, senzaabbassare gli occhi, indicandolo:

 — Lui! — disse.Ad un cenno, sir Edward Munro fu preso, trascinato via e

scomparve in mezzo alla banda che risaliva la strada verso il sud,senza aver potuto né stringerci un'ultima volta la mano né darci unultimo addio!

Il capitano Hod, Banks, il sergente, Fox, tutti noi avevamo cercatodi liberarci per strapparlo dalle mani di quegli indù!...

Cinquanta braccia ci avevano trattenuto al suolo; un movimento di più e saremmo stati sgozzati.

 — Non fate resistenza! — disse Banks.

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L'ingegnere aveva ragione. Non potevamo far nulla in quelmomento per liberare il colonnello Munro; era dunque meglioriservarci in vista dei successivi avvenimenti.

Un quarto d'ora dopo gli indù ci abbandonavano a loro volta, e si

lanciavano sulle tracce del primo drappello. Seguirli sarebbe stato produrre una catastrofe, senza profitto per il colonnello Munro,tuttavia avremmo tentato tutto per raggiungerlo...

 — Non un passo di più! — disse Banks. Gli obbedimmo.In sostanza, era dunque contro il colonnello Munro, contro lui

solo, che quegli indù condotti da Kâlagani l'avevano. Quali erano leintenzioni di quel traditore? Egli non poteva, evidentemente, agire per proprio conto. Ma, allora, a chi obbediva?... Il nome di NanaSahib mi si presentò alla mente!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Qui finisce il manoscritto redatto da Maucler. Il giovane francesenon doveva vedere più nulla degli avvenimenti che dovevano precipitare lo scioglimento di questo dramma. Ma questi avvenimenti

si sono saputi più tardi, e raccolti in forma di racconto, completano larelazione di questo viaggio attraverso l'India settentrionale.

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Il comportamento di Kâlagani, dal giorno in cui era entrato inrelazione con gli ospiti della Steam-House, era stato quello di untraditore. Era proprio Nana Sahib che lo aveva mandato, e da lui soloera stato scelto per preparare la sua vendetta.

Si ricorderà che, il 24 maggio precedente, a Bhopal, durante leultime feste del Moharum, a cui egli si era audacemente mescolato, ilnababbo era stato avvertito della partenza di sir Edward Munro per le province settentrionali dell'India. Dietro suo ordine, Kâlagani, unodegli indù più devoti alla sua causa ed alla sua persona, avevalasciato Bhopal. Lanciarsi sulle tracce del colonnello, ritrovarlo,seguirlo, non perderlo più di vista, arrischiare la propria vitaall'occorrenza, per farsi ammettere nel seguito dell'implacabilenemico di Nana Sahib, ecco la sua missione.

Kâlagani era partito immediatamente, dirigendosi verso le regionidel nord. A Cawnpore aveva potuto raggiungere il treno della Steam-House. Da quel momento, senza mai lasciarsi scorgere, aveva spiatoin attesa di occasioni che non si presentarono. Ecco perché, mentre ilcolonnello Munro ed i suoi compagni si installavano nel sanitariumdell'Himalaya, egli decideva di entrare al servizio di Mathias Van

Guitt.L'istinto di Kâlagani gli diceva che rapporti quasi quotidiani sisarebbero necessariamente stabiliti fra il kraal e il sanitarium. Fuquello che avvenne e fin dal primo giorno, fu tanto fortunato, nonsolo da attirare l'attenzione del colonnello Munro, ma anche dameritarsi la sua riconoscenza.

Il più era fatto; si sa il resto. L'indù venne spesso alla Steam-House, fu informato dei progetti successivi dei suoi ospiti, conobbe

l'itinerario che Banks si proponeva di seguire. Da quel momento, unasola idea dominò tutte le sue azioni: riuscire a farsi accettare comeguida della spedizione, quando essa sarebbe ridiscesa verso sud.

Per riuscirvi, Kâlagani non trascurò nulla; non esitò ad arrischiarenon solo la vita degli altri, ma anche la propria. In quali circostanze? Nessuno può averlo dimenticato.

Infatti, gli era venuto il pensiero che, se avesse accompagnato la

spedizione fin dal principio del viaggio, pur rimanendo al servizio diMathias Van Guitt, il fatto avrebbe sviato ogni sospetto, e avrebbe

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forse indotto il colonnello Munro a offrirgli appunto quello che eglivoleva ottenere.

Ma, per arrivare a questo, bisognava che il fornitore, privato deisuoi tiri di bufali, fosse ridotto a chiedere l'aiuto del Gigante

d'Acciaio. Ecco il motivo dell'assalto delle belve, assalto inaspettato,è vero, ma di cui Kâlagani seppe approfittare. A rischio di provocareun disastro, non esitò, senza che nessuno se ne avvedesse, a toglierele sbarre che chiudevano la porta del kraal. Le tigri e le pantere si precipitarono nel recinto, i bufali furono dispersi o distrutti, moltiindù perirono, ma il piano di Kâlagani era riuscito. Mathias VanGuitt sarebbe stato costretto a ricorrere al colonnello Munro perriprendere il cammino per Bombay col suo serraglio ambulante.

Infatti, rinnovare i suoi tiri in quella regione quasi desertadell'Himalaya sarebbe stato difficile. In ogni caso, fu Kâlagani ches'incaricò di questo affare per conto del fornitore. S'intende che nonvi riuscì, e per questo motivo Mathias Van Guitt, rimorchiato dalGigante d'Acciaio, scese con tutto il suo personale alla stazione diEtawah. Là, la ferrovia doveva trasportare il materiale del serraglio. Ichikaris furono dunque licenziati e Kâlagani, che non era più utile,

doveva seguire la loro sorte. Fu allora che egli si mostrò moltoimpacciato del proprio avvenire, e Banks cadde nella trappola. Egli pensò che quell'indù, intelligente ed affezionato, perfettamente pratico di tutta quella parte dell'India, poteva essere di preziosautilità. Gli offrì dunque di essere la loro guida fino a Bombay, e daquel giorno la sorte della spedizione fu in mano di Kâlagani.

 Nessuno poteva sospettare un traditore in quell'indù, sempre pronto ad arrischiar la vita per gli altri.

Vi fu un momento in cui Kâlagani per poco non si tradì. Fuquando Banks gli parlò della morte di Nana Sahib. Egli non seppetrattenere un gesto d'incredulità e crollò il capo da uomo che non ci poteva credere. Ma non sarebbe forse avvenuta la stessa cosa conqualsiasi altro indù, per cui il leggendario nababbo era uno di quegliesseri soprannaturali che la morte non può colpire?

Kâlagani, a questo proposito, ebbe la conferma della notizia,

quando, e non A caso, egli incontrò uno dei suoi antichi compagni

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nella carovana dei Banjari? Non si sa, ma bisogna credere chesapesse esattamente come comportarsi.

Ad ogni modo il traditore non abbandonò i suoi odiosi progetti,come se avesse voluto fare propri i piani del nababbo.

Ecco perché la Steam-House proseguì il suo cammino attraversole gole dei Vindhya, e, dopo le note peripezie, i viaggiatori giunserosulle rive del lago Puturia, su cui ci si dovette rifugiare.

Là, quando Kâlagani volle lasciare il treno galleggiante, col pretesto di recarsi a Jubbulpore, si lasciò scoprire. Per quanto fosse padrone di se stesso, un semplice fenomeno fisiologico, che non poteva sfuggire alla perspicacia del colonnello, lo aveva resosospetto, ed ora si sa che i sospetti di sir Edward Munro erano fintroppo giustificati.

Fu lasciato partire, ma gli fu dato per compagno Goûmi. Entrambisi tuffarono nelle acque del lago, e un'ora dopo, erano giunti alla rivasud-est del Puturia.

Eccoli dunque camminare insieme, in quella notte buia, unosospettoso dell'altro, l'altro non immaginandosi d'essere sospettato. Ilvantaggio, per il momento, era per Goûmi, un secondo Mac Neil del

colonnello.Per tre ore, i due indù camminarono così per quella grande stradache attraversa le catene meridionali dei Vindhya per portare allastazione di Jubbulpore. La nebbia era molto meno intensa nellacampagna che sul lago, e Goûmi sorvegliava attentamente il suocompagno. Portava alla cintola un solido coltello; al primomovimento sospetto, spiccio per natura, egli si proponeva di balzareaddosso a Kâlagani e di metterlo nell'impossibilità di nuocere.

Disgraziatamente, il fedele indù non ebbe il tempo d'agire comesperava.

La notte, senza luna, era buia; a venti passi, non si sarebbe vistoun uomo in cammino.

Accadde dunque che, a una delle svolte della strada, si fece udire bruscamente una voce che chiamava Kâlagani.

 — Sì, Nassim! — rispose l'indù.

E, in quello stesso momento, un grido acuto, molto strano, risuonòsulla sinistra della strada.

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Quel grido era il kisri di quelle truci tribù del Gondwana, cheGoûmi conosceva benissimo!

Goûmi, colto di sorpresa, non aveva potuto tentare nulla. D'altra parte, morto Kâlagani, egli che cosa avrebbe mai potuto fare contro

tutta una banda di indù, a cui quel grido doveva servire di richiamo?Un presentimento gli disse di fuggire, per tentare di avvertire i suoicompagni. Sì! rimanere libero, prima di tutto, poi ritornare al lago ecercar di raggiungere a nuoto il Gigante d'Acciaio per impedirgli diaccostarsi alla riva, non rimaneva altro da fare.

Goûmi non esitò. Nel momento in cui Kâlagani raggiungeva quel Nassim che gli aveva risposto, si gettò da un lato e scomparve nelle jungle che fiancheggiavano la strada.

E quando Kâlagani ritornò col suo complice, con l'intenzione disbarazzarsi del compagno che il colonnello Munro gli aveva imposto,Goûmi non c'era più.

 Nassim era il capo di una banda di Dacoit devoti alla causa di Nana Sahib. Quando fu informato della scomparsa di Goûmi, lanciò isuoi uomini attraverso le jungle; voleva riprendere ad ogni costol'ardito servitore che gli era sfuggito.

Le ricerche furono inutili; Goûmi, sia che si fosse perduto nel buiosia che si fosse rifugiato in un buco qualsiasi, era scomparso, e bisognò rinunciare a ritrovarlo.

Ma, in sostanza, che cosa potevano temere quei Dacoit, da Goûmi,abbandonato a se stesso, in mezzo a quella regione selvaggia, già atre ore di cammino dal lago Puturia, al quale, per quanto avesse fatto,non avrebbe potuto giungere prima di loro?

Kâlagani si rassegnò dunque. Conferì per un istante con il capo

dei Dacoit, che sembrava aspettare i suoi ordini. Poi, ridiscendendola strada, tutti si diressero a grandi passi verso il lago.

E se quella banda aveva lasciato le gole dei Vindhya, dove eraaccampata da qualche tempo, è perché Kâlagani aveva potuto farsapere il prossimo arrivo del colonnello Munro nei dintorni del lagoPuturia. Per mezzo di chi? Di quell'indù, che non era altri che Nassim, che seguiva la carovana dei Banjari. A chi? A colui la cui

mano dirigeva nell'ombra tutto questo complotto!

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Infatti, quanto era accaduto, quanto accadeva allora, era il risultatodi un piano ben stabilito, a cui il colonnello Munro e i suoi compagninon potevano sottrarsi. Ecco perché, nel momento in cui il trenotoccava la punta meridionale del lago, i Dacoit poterono assalirlo,

sotto gli ordini di Nassim e di Kâlagani.Ma l'avevano con il colonnello Munro, con lui solo. I suoi

compagni, abbandonati in quel paese, distrutta la loro ultima casa,non erano più da temere. Egli fu dunque trascinato via, e alle settedel mattino sei miglia lo separavano già dal lago Puturia.

Che Kâlagani conducesse sir Edward Munro alla stazione diJubbulpore non era ammissibile. Perciò egli pensava di non doverlasciare la regione dei Vindhya e che, caduto in potere dei suoinemici, non ne sarebbe uscito forse mai.

Ciononostante, quell'uomo coraggioso non aveva perduto nulladel suo sangue freddo. Camminava fra quei feroci indù, pronto aqualsiasi evento. Egli anzi fingeva di non vedere Kâlagani; iltraditore si era messo in testa al drappello, di cui effettivamente era ilcapo. Quanto a fuggire, non era possibile. Benché non fosse legato, ilcolonnello Munro non vedeva né davanti né dietro né sui fianchi

della sua scorta, nessun vuoto che lo potesse lasciar passare; d'altra parte, sarebbe stato immediatamente ripreso.Pensava dunque alle conseguenze della propria situazione.

Doveva credere che la mano di Nana Sahib entrasse in tutto questo? No! Per lui, il nababbo era assolutamente morto; ma qualchecompagno dell'antico capo dei ribelli, Balao Rao per esempio, non poteva forse aver deciso di saziare il suo odio, compiendo quellavendetta a cui suo fratello aveva dedicato la vita? Sir Edward Munro

 presentiva qualche cosa di simile. Nello stesso tempo, egli pensava al disgraziato Goûmi, che non

era prigioniero dei Dacoit. Aveva potuto fuggire? era possibile.Aveva forse dovuto soccombere fin da principio? era più probabile.Si poteva fare assegnamento sul suo aiuto, caso mai fosse stato sanoe salvo? era difficile.

Infatti, se Goûmi avesse creduto di doversi spingere fino alla

stazione di Jubbulpore per cercarvi dei soccorsi, sarebbe giuntotroppo tardi.

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Se, al contrario, era venuto a raggiungere Banks ed i suoicompagni alla punta meridionale del lago, che cosa avrebbero mai potuto fare questi, quasi privi di munizioni? Si sarebbero gettati sullavia di Jubbulpore?... Ma prima che avessero potuto giungervi, il

 prigioniero sarebbe già stato trascinato in qualche inaccessibilerifugio dei Vindhya!

Dunque, da quella parte, non bisognava serbare alcuna speranza.Il colonnello Munro esaminava freddamente la situazione. Egli

non disperava, non essendo uomo da lasciarsi abbattere, ma preferivaveder le cose nella loro realtà, invece di abbandonarsi a qualcheillusione indegna di un animo che nulla poteva turbare.

Frattanto, il drappello camminava con grande velocità.Evidentemente, Nassim e Kâlagani volevano giungere, prima deltramonto, a qualche ritrovo stabilito, dove si sarebbe decisa la sortedel colonnello. Se il traditore aveva fretta, sir Edward Munro non erameno frettoloso di farla finita, qualunque fosse la fine che loaspettasse.

Una volta sola, verso mezzogiorno, per mezz'ora circa, Kâlaganifece fare una fermata. I Dacoit erano forniti di viveri, e mangiarono

sulle sponde di un ruscello.Un po' di pane e di carne secca furono messi a disposizione delcolonnello, che non rifiutò di mangiare. Non aveva preso cibo dalgiorno prima, e non voleva dare ai suoi nemici la gioia di vederloindebolire fisicamente nell'ora suprema.

Fino a quel momento, quasi sedici miglia erano state fatte inquella marcia forzata. A un ordine di Kâlagani, ci si rimise incammino, seguendo sempre la direzione di Jubbulpore.

Fu solo verso le cinque del pomeriggio che la banda di Dacoitabbandonò la strada principale per prendere a sinistra. Se dunque ilcolonnello Munro aveva potuto conservare una parvenza di speranzafintanto che la seguiva, comprese allora che ormai era nelle mani diDio.

Un quarto d'ora dopo Kâlagani e i suoi attraversavano una strettagola che costituiva l'estremo limite della valle del Nerbudda, verso la

 parte più selvaggia del Bundelkund.

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Il luogo era a trecentocinquanta chilometri circa dal pâl di Tandît,a est di quei monti Sautpurra che si possono considerare come il prolungamento occidentale dei Vindhya.

Là, su uno degli ultimi contrafforti, sorgeva la vecchia fortezza di

Ripore, abbandonata da un pezzo, perché non poteva essere rifornitanel caso che le gole dell'ovest fossero occupate dal nemico.

Questa fortezza dominava una delle ultime sporgenze dellacatena, una specie di rivellino naturale, alto cinquecento piedi, chestrapiombava sopra una larga apertura della gola, in mezzo allegiogaie vicine. Non vi si poteva giungere che seguendo uno strettosentiero, praticato tortuosamente nella viva roccia, sentiero praticabile appena da uomini a piedi.

Là, su quell'altipiano, si profilavano ancora delle cortinesmantellate, alcuni bastioni in rovina. In mezzo alla spianata, chiusaverso l'abisso da un parapetto di pietra, sorgeva un edificio,semidistrutto, che serviva un tempo di caserma alla piccolaguarnigione di Ripore, e che ora non avrebbe potuto servire neppuredi stalla.

In mezzo all'altipiano centrale, rimaneva un unico pezzo

d'artiglieria di quanti un tempo si allungavano attraverso le feritoiedel parapetto. Era un enorme cannone, puntato verso la parteanteriore della spianata. Troppo pesante per essere calato giù, troppodeteriorato, del resto, per conservare un valore qualsiasi, era statolasciato là, sul suo affusto, abbandonato ai morsi della ruggine, cherodeva il suo involucro di ferro.

Per lunghezza e per grossezza era la degna copia del celebrecannone di bronzo di Bhîlsa, fuso al tempo di Jehanghir, enorme

 pezzo lungo sei metri, con un calibro di quarantaquattro. Lo sisarebbe potuto paragonare anche al non meno famoso cannone diBidjapur, il cui sparo, secondo gli indigeni, non avrebbe lasciato in piedi uno solo dei monumenti della città.

Questa era la fortezza di Ripore, nella quale il prigioniero fucondotto dal drappello di Kâlagani. Erano le cinque di sera quando vigiunse, dopo una giornata di cammino di più di venticinque miglia.

Davanti a quale dei suoi nemici il colonnello Munro si sarebbefinalmente trovato? Non avrebbe tardato a saperlo.

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assoluta. Infatti, suo fratello non sarebbe stato ricercato dalla poliziainglese con lo stesso accanimento di lui, e non lo fu. Non solo non glierano imputati gli eccidi di Cawnpore, ma egli non aveva sugli indùdel centro l'influenza perniciosa che possedeva il nababbo.

 Nana Sahib, vedendosi braccato così da vicino, decise dunque difare il morto fino al momento in cui avrebbe potuto agiredefinitivamente, e, rinunciando temporaneamente ai suoi progettiinsurrezionali, si era votato interamente alla sua vendetta. Mai, delresto, le circostanze erano state più favorevoli. Il colonnello Munro,sempre sorvegliato dai suoi agenti, aveva lasciato Calcutta per unviaggio che doveva condurlo a Bombay. Non sarebbe stato possibilecondurlo nella regione dei Vindhya attraverso le province delBundelkund? Nana Sahib lo credette, e fu a questo scopo che glimandò l'intelligente Kâlagani.

Il nababbo lasciò il  pâl di Tandît, che non gli offriva più unrifugio sicuro. Penetrò nella valle del Nerbudda, fino alle ultime goledei Vindhya. Là sorgeva la fortezza di Ripore, che gli parve un luogodi rifugio dove la polizia non avrebbe affatto pensato a cercarlo, poiché doveva crederlo morto.

 Nana Sahib vi si sistemò dunque con i pochi indù a lui devoti. Ben presto li rinforzò con una banda di Dacoit, degni di schierarsi sottogli ordini di un capo simile, ed aspettò.

Ma che cosa aspettava da quattro mesi? Che Kâlagani avessecompiuto la missione, e lo avvertisse del prossimo arrivo delcolonnello Munro in quella parte dei Vindhya, dove sarebbe cadutoin suo potere.

Tuttavia, un timore s'impadronì di Nana Sahib, e fu che la notizia

della sua morte, diffusasi in tutta la penisola, giungesse alle orecchiedi Kâlagani. Se quello vi avesse creduto, avrebbe forse abbandonatola sua opera di tradimento verso il colonnello Munro?

Perciò, un altro indù venne mandato sulle strade del Bundelkund,quel Nassim che, mescolatosi alla carovana dei Banjari, incontrò iltreno della Steam-House sulla strada dello Scindia, si mise incomunicazione con Kâlagani, e lo informò del vero stato delle cose.

Ciò fatto, Nassim, senza perdere un'ora, tornò alla fortezza diRipore, ed informò Nana Sahib di tutto quanto era accaduto dal

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giorno in cui Kâlagani aveva lasciato Bhopal. Il colonnello Munro e isuoi compagni avanzavano a piccole giornate verso i Vindhya.Kâlagani li guidava, ed era nei dintorni del lago Puturia che bisognava aspettarli.

Tutto era dunque riuscito secondo i desideri del nababbo; la suavendetta non poteva più sfuggirgli.

Ed infatti, quella sera, il colonnello Munro era solo, inerme, allasua presenza, alla sua mercé.

Dopo aver scambiate le prime parole, quei due uomini siguardarono un istante in silenzio.

Ma subito, essendo l'immagine di lady Munro ripassata piùvivamente davanti ai suoi occhi, il colonnello si sentì affluire ilsangue dal cuore alla testa; si slanciò sull'omicida dei prigionieri diCawnpore!

 Nana Sahib si accontentò di fare due passi indietro.Tre indù si erano subito gettati addosso al colonnello, e lo

trattennero, non senza stento.Frattanto sir Edward Munro si era calmato; il nababbo senza

dubbio lo comprese, poiché, con un gesto, allontanò gli indù.

I due nemici si trovarono un'altra volta a faccia a faccia. — Munro, — disse Nana Sahib, — i tuoi hanno legato alla boccadei loro cannoni i centoventi prigionieri di Peschawar, e da quelgiorno, più di milleduecento Cipay sono periti di questa mortespaventosa! I tuoi hanno trucidato senza pietà i fuggitivi di Lahore,hanno sgozzato, dopo la presa di Delhi, tre principi e ventinovemembri della famiglia reale, hanno trucidato a Lucknow seimila deinostri e tremila dopo la campagna del Pendjab! In tutto, col cannone,

col fucile, con la forca o con la sciabola, centoventimila ufficiali osoldati indigeni e duecentomila civili hanno pagata con la vitaquell'insurrezione per l'indipendenza nazionale!

 — A morte! a morte!— esclamarono i Dacoit e gli indù schieratiintorno a Nana Sahib.

Il nababbo impose loro silenzio con la mano, e aspettò che ilcolonnello Munro gli rispondesse.

Il colonnello non rispose.

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Ed allora, per una lunga ora, tutta quella banda di Dacoit e di indùvenne ad insultarlo vigliaccamente. Si sarebbero detti Siouxdell'America del Nord intorno a un prigioniero incatenato al palo delsupplizio.

Il colonnello Munro rimase impassibile di fronte all'oltraggio,come voleva esserlo di fronte alla morte.

Poi, scesa la notte, Nana Sahib, Kâlagani e Nassim si ritirarononella vecchia caserma. Tutta la banda, stanca finalmente, raggiunse isuoi capi.

Sir Edward Munro rimase in presenza della morte e di Dio.

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C  APITOLO XII

 ALLA  BOCCA  DI  UN  CANNONE

IL SILENZIO non durò un pezzo. La banda dei Dacoit era statafornita di provviste e mentre essi mangiavano, si potevano sentiregridare, vociferare, sotto l'influenza di quel violento liquore d'arak,

di cui facevano uso smodato.Ma tutto quel baccano si placò a poco a poco. Il sonno non dovevatardare ad impadronirsi di quei bruti, che avevano anche sulle spallele fatiche di una lunga giornata.

Sir Edward Munro stava dunque per essere lasciato senzaguardiani fino al momento in cui fosse suonata l'ora della sua morte? Nana Sahib non avrebbe forse fatto sorvegliare il suo prigioniero, benché costui, saldamente legato dai triplici giri di corda che gli

stringevano le braccia ed il petto, non fosse in grado di fare unmovimento?

Il colonnello se lo chiedeva, quando, verso le otto, vide un indùlasciare la caserma ed avanzare sulla spianata.

Quell'indù aveva per consegna di rimanere tutta la notte presso ilcolonnello Munro.

Anzitutto, dopo aver attraversato obliquamente la spianata, vennedritto al cannone, per assicurarsi che il prigioniero fosse sempre là.Con mano robusta saggiò le corde, che non cedettero; poi, senzarivolgersi al colonnello, ma parlando a se stesso:

 — Dieci libbre di buona polvere! — disse. — È un pezzo che ilvecchio cannone di Ripore non ha parlato; ma domani parlerà!...

Questa riflessione portò un sorriso di disprezzo sul volto fiero delcolonnello Munro; la morte, per quanto orrenda dovesse essere, nonlo spaventava.

L'indù, dopo aver esaminato la parte anteriore del cannone, tornòun po' indietro, accarezzò con la mano la grossa culatta, ed il suo dito

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si posò un istante sul focone che la polvere dell'esca riempiva finoall'orlo.

Poi, l'indù rimase appoggiato al bottone della culatta. Sembravache avesse assolutamente dimenticato che il prigioniero fosse là,

come un paziente al piede della forca, aspettando che la botola gli sispalanchi sotto i piedi.

Fosse indifferenza o effetto dell'arak che aveva bevuto, l'indùcanticchiava fra i denti un vecchio ritornello del Gondwana. Siinterrompeva e ricominciava, come uomo al quale, sotto l'influenzadi una mezza sbronza, il pensiero sfugge poco alla volta.

Un quarto d'ora più tardi, l'indù si raddrizzò. Accarezzata con lamano la groppa del cannone, ne fece il giro e, arrestandosi davanti alcolonnello Munro, lo guardò mormorando delle parole incoerenti.Per istinto, le sue dita afferrarono un'ultima volta le corde, come perstringerle più saldamente; poi, scuotendo il capo, da uomorassicurato, andò ad appoggiarsi al parapetto, a una decina di passi,alla sinistra del pezzo.

Per dieci minuti ancora, l'indù rimase in quella posizione, orarivolto verso la spianata, ora affacciato al di fuori, spingendo lo

sguardo nell'abisso che si spalancava ai piedi della fortezza.Era chiaro che faceva un ultimo sforzo per non cedere al sonno;ma finalmente la stanchezza lo vinse ed egli si lasciò scivolare aterra, vi si sdraiò; e l'ombra del parapetto lo rese assolutamenteinvisibile.

Del resto, la notte era già profonda. Dense nuvole immobili siallungavano nel cielo; l'atmosfera era tranquilla come se le molecoledell'aria fossero state saldate l'una all'altra. I rumori della vallata non

giungevano fino a quell'altitudine; il silenzio era assoluto.Come si sarebbe svolta quella notte d'angoscia per il colonnello

Munro, bisogna riferirlo, a tutto onore di quell'uomo energico. Eglinon pensò un solo istante a quell'ultimo momento della sua vita,durante il quale i tessuti del suo corpo, lacerati violentemente, le suemembra orribilmente disperse, sarebbero andati a perdersi nellospazio. Non sarebbe stato che un attimo fulmineo, in fin dei conti, e

certo non era cosa da scuotere una natura sulla quale il terrore fisicoo morale non aveva mai avuto presa. Gli rimanevano ancora poche

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ore di vita: esse appartenevano a quell'esistenza che era stata cosìfelice nel suo periodo più lungo. La sua vita gli si spiegava davantitutta quanta con singolare precisione, tutto il suo passato siripresentava al suo animo.

L'immagine di lady Munro gli si ergeva davanti. Egli la rivedeva,la udiva, quell'infelice che egli piangeva come nei primi giorni, non più con gli occhi ma con il cuore! La ritrovava fanciulla in quellafunesta città di Cawnpore, in quell'abitazione dove l'aveva per la prima volta ammirata, conosciuta, amata! Quei pochi anni di felicità,terminati bruscamente nella più spaventosa delle catastrofi, siravvivarono nel suo animo. Tutti i loro particolari, per piccoli chefossero, gli si ripresentarono alla memoria con tale limpidezza, che larealtà non sarebbe stata forse più vera! Più di metà della notte era già passata, e sir Edward Munro non se ne era avveduto. Egli era vissutotutto nei suoi ricordi senza che nulla lo distraesse da essi, laggiù, presso la sua adorata moglie. In tre ore erano stati riassunti i tre anniche egli aveva trascorso accanto a lei! Sì! la sua immaginazione loaveva tolto irresistibilmente dalla spianata della fortezza di Ripore, loaveva strappato dalla bocca di quel cannone, di cui il primo raggio

del sole avrebbe dovuto, per così dire, accendere l'esca!Ma allora gli apparve l'orribile conclusione dell'assedio diCawnpore, la prigionia di lady Munro e di sua madre nel Bibi-Ghar,il massacro delle loro disgraziate compagne, e finalmente quel pozzo,tomba di duecento vittime, sul quale quattro mesi prima egli eraandato a piangere un'ultima volta.

E quell'odioso Nana Sahib che era là, a pochi passi, dietro le muradi quella caserma in rovina, l'ordinatore dei massacri, l'assassino di

lady Munro e di tante altre sventurate! Ed egli era caduto fra le suemani, lui che aveva voluto farsi giustiziere di quell'assassino che lagiustizia non aveva potuto colpire!

Sir Edward Munro, sotto l'azione di una collera cieca, fece unosforzo disperato per rompere i suoi legami. Le corde scricchiolarono,e i nodi, serrati, gli entrarono nelle carni. Egli emise un grido, non didolore, ma di rabbia impotente.

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A quel grido, l'indù, sdraiato all'ombra del parapetto, alzò il capo.Egli riafferrò il senso della sua situazione, e si ricordò che era ilguardiano del prigioniero.

Si rialzò dunque, si accostò incerto al colonnello Munro, gli pose

la mano sulla spalla, per assicurarsi che era sempre là, e con il tonodi un uomo semiaddormentato :

 — Domani, — disse, — al levar del sole... bum!Poi, ritornò verso il parapetto, per ripigliarvi un punto d'appoggio.

Appena lo ebbe toccato, si sdraiò a terra e non tardò ad assopirsi deltutto.

Dopo questo sforzo inutile, una specie di calma aveva ripreso ilcolonnello Munro. Il corso dei suoi pensieri mutò, senza che egli pensasse più oltre alla sorte che lo aspettava. Per un'associazione diidee naturalissima, pensò ai suoi amici, ai suoi compagni; si chiese seanche essi non fossero caduti nelle mani di un'altra banda di queiDacoit che formicolavano nei Vindhya, se non fosse stata lororiservata una sorte simile alla sua, e questo pensiero gli strinse ilcuore.

Ma quasi subito pensò che ciò non poteva essere. Infatti, se il

nababbo avesse deciso la loro morte, li avrebbe uniti a lui nelmedesimo supplizio, avrebbe voluto raddoppiare le sue angosce conquelle dei suoi amici. No! su di lui, su di lui solo, almeno tentava disperarlo, Nana Sahib voleva saziare il proprio odio!

Pure, se mai, caso impossibile, Banks, il capitano Hod, Maucler,erano liberi, che cosa facevano? Avevano preso la via di Jubbulpore,sulla quale il Gigante d'Acciaio, che i Dacoit non avevano potutodistruggere, poteva trasportarli rapidamente? Là, i soccorsi non

sarebbero mancati! Ma a che cosa potevano servire? Come avrebbero potuto sapere dove era il colonnello Munro? Nessuno conosceva lafortezza di Ripore, la tana di Nana Sahib. E del resto, perché mai ilnome del nababbo si sarebbe loro presentato alla mente? Nana Sahibnon era forse morto per loro? Non era caduto nell'assalto del  pâl diTandît? No, essi non potevano far nulla per il prigioniero!

Quanto a Goûmi, nessuna speranza nemmeno da quella parte.

Kâlagani aveva avuto il massimo interesse a disfarsi di

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quell'affezionato servitore, e poiché Goûmi non era là, era segno cheaveva preceduto il suo padrone nella tomba!

Fare assegnamento su una probabilità qualunque di salvezzasarebbe stato inutile. Il colonnello Munro non era un uomo da farsi

delle illusioni; vedeva le cose nella loro realtà, e tornò ai suoi pensieri iniziali, ai ricordi dei giorni felici che gli riempivano ilcuore.

Quante ore fossero passate mentre egli fantasticava così, glisarebbe stato difficile dirlo. La notte era sempre buia. Sulla vettadella montagna a est non appariva ancora nulla che annunciasse i primi bagliori dell'alba.

Pure, dovevano essere circa le quattro del mattino, quandol'attenzione del colonnello Munro fu attirata da un fenomeno bizzarro. Fino a quel momento, nel suo ritorno all'esistenza passata,egli aveva guardato dentro di sé piuttosto che al di fuori. Gli oggettiesterni, poco distinti in quelle profonde tenebre, non avrebbero potuto distrarlo; ma allora, i suoi occhi divennero più fissi, e tutte leimmagini evocate nella sua memoria si cancellarono di colpo davantia una specie d'apparizione, tanto inaspettata quanto inesplicabile.

Infatti, il colonnello Munro non era più solo sulla spianata diRipore. Una luce, ancora indecisa, era apparsa verso l'estremità delsentiero, alla pusterla della fortezza. Essa andava e veniva, vacillante,turbata, minacciando di spegnersi, tornando a splendere, come sefosse stata retta da una mano poco sicura.

 Nella situazione in cui si trovava il prigioniero, qualsiasi incidente poteva avere la sua importanza. Perciò i suoi occhi non lasciarono più quel fuoco; egli osservò che da esso sfuggiva una specie di

vapore fuligginoso e che era mobile, donde concluse che non dovevaessere chiuso in un fanale.

«Uno dei miei compagni», pensò il colonnello Munro... «Goûmiforse! Ma no!... Non sarebbe venuto con un lume che lo tradirebbe...Che cos'è dunque?»

Il lume si avvicinava lentamente. Scivolò dapprima lungo il murodella vecchia caserma, e sir Edward Munro poté temere che dovesse

essere veduto da qualcuno degli indù che vi dormivano.

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Ma non fu così; il lume passò senza essere notato; talvolta, lamano che lo reggeva si agitava con moto febbrile, ed esso siravvivava e brillava di splendore più vivo.

Poco dopo il lume aveva raggiunto il muro del parapetto, e ne

seguì la cresta, come un fuoco di Sant'Elmo nelle notti d'uragano.Allora il colonnello Munro cominciò a distinguere una specie di

fantasma, senza forma definita, un'ombra, che quella luce illuminavavagamente. L'essere, qualunque fosse, che avanzava così, dovevaessere coperto di un lungo mantello, sotto il quale si nascondevano lesue braccia e la sua testa.

Il prigioniero non si muoveva, tratteneva il respiro. Temeva dispaventare quell'apparizione, di vedere spegnersi la fiamma, la cuiluce la guidava nell'ombra. Egli era immobile quanto il pesantecannone che sembrava tenerlo nelle sue enormi fauci.

Frattanto, il fantasma continuava ad avanzare lungo il parapetto. Non poteva accadere che andasse a urtare contro il corpo dell'indùaddormentato? No, l'indù era sdraiato a sinistra del cannone, el'apparizione veniva da destra, a volte fermandosi, poi riprendendo ilcammino a piccoli passi.

Finalmente, fu vicina abbastanza perché il colonnello Munro potesse distinguerla nitidamente.Era un essere di media statura, il cui corpo era coperto

effettivamente da un lungo drappo. Da quel drappo usciva una mano,che reggeva un ramo resinoso acceso.

«Qualche pazzo che ha l'abitudine di visitare l'attendamento deiDacoit», pensò il colonnello Munro; «e al quale non si bada neppure!Perché, invece, di un lume, non ha in mano un pugnale? Forse,

 potrei!...». Non era un pazzo, eppure sir Edward Munro aveva quasi

indovinato.Era la pazza della valle del Nerbudda, la creatura incosciente che,

da quattro mesi, vagava attraverso i Vindhya sempre rispettata edospitalmente accolta da quei Gound superstiziosi. Né Nana Sahib nénessuno dei suoi compagni sapeva quale parte la Fiamma Errante

aveva avuto nell'assalto del  pâl di Tandît. Spesso l'avevanoincontrata in quella parte montagnosa del Bundelkund, e non si erano

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mai preoccupati per la sua presenza. Già molte volte, nelle sue corseincessanti, essa si era spinta fino alla fortezza di Ripore, e nessunoaveva pensato di cacciarla via. Era solo una delle sue fortuite peregrinazioni notturne che la conduceva lì anche quella notte.

Il colonnello Munro non sapeva nulla di quanto si riferiva alla pazza; egli non aveva mai udito parlare della Fiamma Errante,eppure, quell'essere sconosciuto che si avvicinava, che stava pertoccarlo, per parlargli forse, gli faceva battere il cuore con unaviolenza inesplicabile.

A poco a poco, la pazza si era avvicinata al cannone; la sua torciaresinosa non gettava più che deboli bagliori ed ella sembrava che nonvedesse il prigioniero, benché gli fosse di fronte e i suoi occhifossero quasi visibili attraverso quel mantello, in cui si aprivano dei buchi, come nel cappuccio di un incappucciato.

Sir Edward Munro non si moveva; non cercava di attirarel'attenzione di quella strana creatura né con un cenno del capo né conuna parola.

Del resto, essa tornò quasi subito indietro, in modo da fare il girodell'enorme cannone, sulla cui superficie la sua torcia disegnava

 piccole ombre vacillanti.Capiva forse, la povera folle, a che cosa doveva servire quelcannone, steso là come un mostro, perché quell'uomo era legato aquella bocca, che al primo raggio del sole avrebbe vomitato il tuonoe il fulmine?

 No, senza dubbio. La Fiamma Errante era là, come dappertutto,inconsapevole; quella notte, essa vagava come aveva già fatto moltevolte, sulla spianata di Ripore. Poi, l'avrebbe lasciata, avrebbe

ridisceso il sentiero sinuoso, sarebbe ritornata nella vallata, e avrebbediretto di nuovo i suoi passi là dove l'avesse spinta la sua fantasiavagabonda.

Il colonnello Munro, che poteva voltare il capo liberamente,seguiva tutti i suoi movimenti. Egli la vide passare dietro il cannone;di là, essa si diresse in modo da giungere al muro del parapetto, perseguirlo, senza dubbio, fino al punto in cui si congiungeva alla

 pusterla.

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Infatti, la Fiamma Errante camminò in quella direzione, ma,fermatasi improvvisamente, a pochi passi dall'indù addormentato, sivoltò. Qualche impedimento invisibile le impediva dunque di andareavanti? Checché ne fosse, un inesplicabile istinto la ricondusse verso

il colonnello Munro, e rimase ancora immobile davanti a lui.Questa volta, il cuore di sir Edward Munro batteva con tanta

forza, che egli avrebbe voluto portarvici le mani per trattenerlo!La Fiamma Errante si era avvicinata maggiormente. Aveva

sollevato la fiaccola all'altezza del viso del prigioniero, come seavesse voluto vederlo meglio. Attraverso i buchi del suo cappuccio, isuoi occhi si accesero di una luce ardente.

Il colonnello Munro, involontariamente affascinato da quel fuoco,la divorava con lo sguardo.

Allora, la mano sinistra della pazza scostò a poco a poco le pieghedel mantello. Poco dopo, il suo viso si mostrò scoperto, ed in quelmomento, con la mano destra, ella agitò la torcia, che mandò unaluce più intensa.

Un grido, un grido mezzo soffocato, sfuggì dal petto del prigioniero:

 — Laurence! Laurence!Si credette pazzo a sua volta!... I suoi occhi si chiusero per unistante. Era lady Munro! Sì! lady Munro in persona, che gli stavadavanti!

 — Laurence!... tu... tu! — ripeté.Lady Munro non rispose nulla. Non lo riconosceva. Non

sembrava neppure udirlo. — Laurence! Pazza! pazza, si!... ma viva!

Sir Edward Munro non aveva potuto ingannarsi con ima pretesasomiglianza. L'immagine della sua giovane moglie era troppo profondamente scolpita in lui! No! Anche dopo nove anni di unaseparazione che egli doveva credere eterna, era lady Munro, mutatasenza dubbio, ma ancora bella, era lady Munro, sfuggita per miracoloai carnefici di Nana Sahib, che gli stava davanti! La sventurata, dopoaver fatto di tutto per difendere sua madre, sgozzata sotto i suoi

occhi, era caduta. Ferita, ma non mortalmente, confusa con tantealtre vittime, ella fu tra le ultime ad essere precipitata nel pozzo di

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Cawnpore, sulle vittime ammonticchiate che già lo riempivano.Venuta la notte, un supremo istinto di conservazione la ricondusseall'orlo del pozzo, solo l'istinto, poiché la ragione, in seguito a quellescene spaventose, l'aveva già abbandonata. Dopo tutto quanto aveva

sofferto dal principio dell'assedio, nella prigione del Bibi-Ghar, sulteatro del massacro, dopo aver visto sgozzare sua madre, aveva perduto il senno. Era pazza, pazza, ma viva! proprio come avevariconosciuto Munro. Pazza, si era trascinata fuori del pozzo, avevagirovagato nei dintorni e aveva potuto lasciare la città, nel momentoin cui Nana Sahib e i suoi l'abbandonavano, dopo il sanguinosoeccidio. Pazza, era fuggita nelle tenebre, andando sempre drittodavanti a sé, attraverso la campagna. Evitando le città, fuggendo iterritori abitati, ospitata qua e là da poveri raiot, rispettata come unessere privo di senno, la povera pazza era andata così fino ai montiSautpurra, fino ai Vindhya! E, morta per tutti da nove anni, ma conlo spirito sempre impressionato dal ricordo degli incendi dell'assedio,vagava di continuo!

Sì, era proprio lei!Il colonnello Munro la chiamò ancora... ella non rispose. Quanto

avrebbe dato per poterla stringere fra le braccia, sollevarla, portarlavia, ricominciare accanto a lei una nuova esistenza, renderle laragione a forza di cure e d'amore!... Ed egli era legato a quella massadi metallo, il sangue gli sgorgava dalle braccia dalle ferite che viscavavano le corde, e nulla poteva strapparlo con lei da quel luogomaledetto!

Quale supplizio, quale tortura che nemmeno la crudeleimmaginazione di Nana Sahib aveva potuto sognare! Ah! se quel

mostro fosse stato presente, se avesse saputo che lady Munro era insuo potere, quale orribile gioia ne avrebbe provato! Qualeraffinatezza avrebbe aggiunto senza dubbio alle angosce del prigioniero!

 — Laurence! Laurence! — ripeteva sir Edward Munro.E la chiamava ad alta voce, a rischio di risvegliare l'indù

addormentato a pochi passi, a rischio di attirare i Dacoit, coricati

nella vecchia caserma, e lo stesso Nana Sahib.

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Ma lady Munro, senza comprendere, continuava a guardarlo congli occhi smarriti. Ella non vedeva nulla delle spaventose sofferenzeche subiva quello sventurato, che la ritrovava nel momento in cuiegli doveva morire! Ella dondolava il capo, come se non avesse

voluto rispondere.Passarono così alcuni minuti; poi, la sua mano si abbassò, il velo

le ricadde sul viso ed ella indietreggiò di un passo.Il colonnello Munro credette che volesse andarsene. — Laurence! — gridò un'ultima volta, come se le avesse gettato

un supremo addio.Ma no! Lady Munro non pensava a lasciare la spianata di Ripore,

e la situazione, per quanto fosse già spaventosa, doveva aggravarsiancora.

Infatti, lady Munro si fermò. Evidentemente, quel cannone avevaattirato la sua attenzione. Forse in lei si risvegliava qualche oscuroricordo dell'assedio di Cawnpore! Ella tornò dunque indietro a passilenti. La mano che reggeva la torcia resinosa ne faceva passare lafiamma sul cilindro di metallo, e bastava che una scintilla accendessel'esca perché il colpo partisse.

Munro doveva dunque morire per sua mano?Egli non poté sopportare tale idea! Era meglio perire sotto gliocchi di Nana Sahib e dei suoi!

Munro stava per chiamare, per risvegliare i suoi carnefici!...A un tratto sentì dall'interno del cannone una mano che stringeva

le sue, legate dietro il dorso. Era la pressione di una mano amica checercava di sciogliere i suoi legami. Poco dopo, il freddo d'una lamad'acciaio, insinuandosi con precauzione fra le corde e i suoi polsi, lo

avvertì che nell'interno stesso di quel cannone enorme stava, perquale miracolo? un liberatore.

 Non poteva ingannarsi! le corde che lo legavano venivanorecise!...

In un secondo, fu cosa fatta! Egli poté fare un passo avanti: eralibero!

Per quanto fosse padrone di sé, fu sul punto di emettere un grido

che lo avrebbe perduto!...

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Una mano si allungò fuori della bocca del cannone... Munrol'afferrò, la tirò, ed un uomo, uscendo con un ultimo sforzodall'orifizio del cannone, cadeva ai suoi piedi.

Era Goûmi!

Il fedele servitore, dopo essere fuggito, aveva continuato a seguirela strada di Jubbulpore, invece di ritornare al lago, verso il quale sidirigeva il drappello di Nassim. Giunto al sentiero di Ripore, avevadovuto nascondersi una seconda volta. Un drappello di indù era là e parlava del colonnello Munro che i Dacoit diretti da Kâlagani,dovevano condurre alla fortezza, dove Nana Sahib gli riservava lamorte per mezzo del cannone. Senza esitare, Goûmi era scivolatonell'ombra fino al sentiero tutto svolte, era giunto alla spianata, inquel momento deserta, ed allora gli era venuta l'idea di introdursinell'enorme macchina, con l'idea di liberare il suo padrone, se lecircostanze lo avessero permesso, oppure, se non avesse potutosalvarlo, di subire con lui la medesima morte.

 — Sta per spuntare il giorno! — disse Goûmi a bassa voce. —Fuggiamo!

 — E lady Munro?

Il colonnello mostrava la pazza, in piedi, immobile. La sua manoera, in quel momento, appoggiata alla culatta del cannone. — Fra le nostre braccia, padrone... — rispose Goûmi senza

chiedere altre spiegazioni.Era troppo tardi! Nel momento in cui il colonnello e Goûmi le si accostarono per

afferrarla, lady Munro, volendo sfuggir loro, si aggrappò con la manoal cannone, la fiaccola le cadde sull'esca, e una terribile detonazione,

ripercossa dagli echi dei Vindhya, riempi di un fragore di tuono tuttala valle del Nerbudda.

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C  APITOLO XIII

 IL GIGANTE   D'ACCIAIO

AL RUMORE di quello scoppio, lady Munro era caduta svenuta frale braccia del marito.

Senza perdere un istante, il colonnello si slanciò attraverso la

spianata, seguito da Goûmi. L'indù, armato del suo largo coltello,ebbe la meglio in un istante del guardiano sbigottito che ladetonazione aveva fatto rizzare in piedi. Poi entrambi si gettarononello stretto sentiero che conduceva alla strada di Ripore.

Sir Edward Munro e Goûmi avevano appena superato la pusterlache la banda di Nana Sahib, bruscamente destata, invadeva laspianata.

Fra gli indù vi fu un attimo d'esitazione che poteva essere

favorevole ai fuggitivi.Infatti, Nana Sahib passava raramente la notte intera nella

fortezza. La sera prima, dopo aver fatto legare il colonnello Munroalla bocca del cannone, era andato a raggiungere alcuni capi di tribùdel Gondwana, che non visitava mai di pieno giorno. Ma quella eral'ora in cui egli di solito ritornava, e non poteva tardare a riapparire.

Kâlagani, Nassim, gli indù, i Dacoit, più di cento uomini erano pronti a inseguire il prigioniero; un pensiero solo li tratteneva ancora.Che cosa fosse accaduto lo ignoravano assolutamente. Il cadaveredell'indù che era stato messo di guardia al colonnello non poteva dirloro nulla.

Ora, di tutte le probabilità, in questa essi dovevano credere: che, per una circostanza fortuita, fosse stato dato fuoco al cannone primadell'ora fissata per il supplizio, e che del prigioniero non rimanessero più ormai che dei brandelli informi!

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Il furore di Kâlagani e degli altri si manifestò con un concerto dimaledizioni. Né Nana Sahib, né alcuno di loro avrebbe avuto dunquela gioia di assistere agli ultimi momenti del colonnello Munro!

Ma il nababbo non era lontano. Aveva dovuto sentire la

detonazione, e sarebbe ritornato in gran fretta alla fortezza. Che cosagli avrebbero risposto quando avesse chiesto conto del prigionieroche aveva lasciato?

Da ciò, nacque in tutti un'esitazione che aveva dato ai fuggitivi iltempo di guadagnare strada, prima di essere veduti.

Perciò, sir Edward Munro e Goûmi, pieni di speranza, dopo quellaliberazione miracolosa, scendevano rapidamente il tortuoso sentiero.Lady Munro, benché svenuta, non pesava molto per le bracciarobuste del colonnello; il suo servitore era là, del resto, per venirgliin aiuto.

Cinque minuti dopo aver passato la pusterla, entrambi erano amezza strada fra la spianata e la valle. Ma cominciava a spuntare ilgiorno, e i primi bagliori dell'alba penetravano già fino in fondo allastretta gola.

Delle alte grida scoppiarono allora sopra di loro.

Curvo sul parapetto, Kâlagani aveva visto vagamente il profilo didue uomini che fuggivano; uno di quegli uomini non poteva essereche il prigioniero di Nana Sahib!

 — Munro! È Munro! — gridò Kâlagani, pazzo di furore.E, superando la pusterla, prese ad inseguirlo, accompagnato da

tutta la banda. — Siamo stati veduti! — disse il colonnello senza rallentare il

 passo.

 — Io fermerò i primi! — rispose Goûmi. — Mi uccideranno, maquesto forse vi darà il tempo di giungere alla strada.

 — Ci uccideranno entrambi, o sfuggiremo loro insieme! —esclamò Munro.

Il colonnello e Goûmi avevano affrettato il passo. Giunti alla parteinferiore del sentiero, già meno ripido, potevano correre. Nonmancavano più che una quarantina di passi per giungere alla via di

Ripore, che immetteva nella strada principale, sulla quale la fugasarebbe stata facile.

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Ma anche l'inseguimento sarebbe stato più facile. Cercare unrifugio sarebbe stato inutile, in breve sarebbero stati scopertientrambi. Dunque, bisognava lasciarsi indietro gli indù, ed uscire prima di loro dalle gole dei Vindhya.

Il colonnello Munro si decise immediatamente; egli non sarebbericaduto vivo nelle mani di Nana Sahib. Con il pugnale di Goûmiavrebbe colpito colei che gli era stata restituita, piuttosto checonsegnarla al nababbo, poi con lo stesso pugnale avrebbe colpito sestesso!

Entrambi avevano allora un vantaggio di cinque minuti circa. Nelmomento in cui i primi indù superavano la pusterla, il colonnelloMunro e Goûmi intravedevano già la via a cui portava il sentiero, e lastrada principale non era che a un quarto di miglio.

 — Coraggio, padrone! — diceva Goûmi, pronto a fare scudo alcolonnello col proprio corpo. — Fra cinque minuti, saremo sulla viadi Jubbulpore!

 — Dio voglia che vi troviamo aiuto! — mormorò il colonnelloMunro.

I clamori degli indù si facevano sempre più distinti.

 Nel momento in cui i fuggitivi sbucavano sulla via, due uomini,che camminavano rapidamente, giungevano all'inizio del sentiero.Era abbastanza chiaro allora da potersi riconoscere, e due nomi,

come due grida d'odio, s'incrociarono contemporaneamente: — Munro! — Nana Sahib!Il nababbo, al rombo della detonazione, era accorso e risaliva in

tutta fretta alla fortezza. Egli non poteva comprendere perché i suoi

ordini fossero stati eseguiti prima dell'ora stabilita.Un indù lo accompagnava, ma, prima che questo indù avesse

 potuto fare un passo o un gesto, cadeva ai piedi di Goûmi,mortalmente colpito dal coltello che aveva reciso i lacci delcolonnello.

 — A me! — gridò Nana Sahib, chiamando tutta la banda chescendeva il sentiero.

 — Sì, a te! — rispose Goûmi.E più pronto del lampo, si gettò sul nababbo.

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Era sua intenzione, almeno se non fosse riuscito a ucciderlo al primo colpo, di lottare con lui, in modo da dare al colonnello Munroil tempo di giungere alla strada; ma la mano di ferro del nababboaveva fermato la sua, e il coltello gli era sfuggito di mano.

Furibondo di sentirsi disarmato, Goûmi afferrò allora il suoavversario alla cintola, e stringendolo contro il petto lo portò vianelle sue braccia robuste, deciso a precipitarsi con lui nel primoabisso che avesse incontrato.

Frattanto, Kâlagani e i suoi compagni, avvicinandosi, stavano pergiungere all'estremità inferiore del sentiero, ed allora non ci sarebbe più stata speranza di sfuggire loro!

 — Ancora uno sforzo! — ripeteva Goûmi. — Io terrò duro peralcuni minuti, facendomi scudo del loro nababbo! Fuggite, padrone,fuggite senza di me!

Ma tre minuti appena separavano ormai i fuggitivi da coloro che liinseguivano, e il nababbo chiamava Kâlagani con voce soffocata.

Ad un tratto, venti passi più avanti, si udirono delle grida. — Munro! Munro!Banks era là, sulla strada di Ripore, con il capitano Hod, Maucler,

il sergente Mac Neil, Fox, Parazard e a cento passi da loro, sullastrada principale, il Gigante d'Acciaio, lanciando turbini di fumo, liaspettava con Storr e Kâlouth.

Dopo la distruzione dell'ultima casa della Steam-House,l'ingegnere e i suoi compagni avevano soltanto una cosa da fare:utilizzare come veicolo l'elefante che la banda dei Dacoit non aveva potuto distruggere. Perciò, inerpicati sul Gigante d'Acciaio, avevanosubito lasciato il lago Puturia e risalito la via di Jubbulpore. Ma nel

momento in cui passavano davanti alla strada che conduceva allafortezza, una formidabile detonazione era echeggiata sopra le loroteste, e si erano fermati.

Un presentimento, un istinto, se si vuole, li aveva indotti aspingersi su quella via. Che cosa speravano? Non lo avrebbero potutodire. Fatto è che, pochi minuti dopo, il colonnello era davanti a loro,e gridava:

 — Salvate lady Munro! — E tenete fermo Nana Sahib, quello vero! — esclamò Goûmi.

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Egli aveva, con un ultimo sforzo furibondo, gettato a terra ilnababbo, semisoffocato, di cui il capitano Hod, Mac Neil e Foxs'impadronirono.

Poi, senza chiedere alcuna spiegazione, Banks e i suoi raggiunsero

il Gigante d'Acciaio sulla strada.Per ordine del colonnello, che voleva consegnarlo alla giustizia

inglese, Nana Sahib fu legato sul collo dell'elefante. Quanto a ladyMunro, fu deposta nella torretta, e suo marito le si mise al fianco.Tutto rivolto a sua moglie, che cominciava a riprendere i sensi,spiava in lei qualche bagliore di ragione.

L'ingegnere e i suoi compagni si erano inerpicati rapidamente suldorso del Gigante d'Acciaio.

 — A tutta velocità! — gridò Banks.Il giorno era spuntato. Un primo drappello di indù appariva già a

un centinaio di passi di distanza. Ad ogni costo, bisognava giungere, prima di loro, al posto avanzato dell'accantonamento militare diJubbulpore, che controlla l'ultima gola dei Vindhya.

Il Gigante d'Acciaio era abbondantemente fornito d'acqua e dicombustibile, tutto ciò che era necessario per mantenerlo sotto

 pressione e dargli il suo massimo di velocità. Ma non potevalanciarsi alla cieca su quella strada dalle svolte brusche.Le grida degli indù raddoppiavano, e tutta la banda gli si

avvicinava. — Bisognerà difendersi — disse il sergente Mac Neil. — Ci difenderemo! — rispose il capitano Hod.Rimanevano ancora una dozzina di colpi da sparare; dunque non

 bisognava perdere un solo proiettile, perché gli indù erano armati, ed

era necessario tenerli distanti.Il capitano Hod e Fox, con la carabina in mano, si appostarono

sulla groppa dell'elefante un po' dietro la torretta. Goûmi si mise suldavanti, col fucile spianato, in modo da tirare diagonalmente. Mac Neil, accanto a Nana Sahib, con una rivoltella in una mano e un pugnale nell'altra, era pronto a colpirlo, se mai gli indù fossero giuntifino a lui. Kâlouth e Parazard, davanti al forno, lo caricavano di

combustibile. Banks e Storr dirigevano la marcia del Giganted'Acciaio.

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L'inseguimento durava già da dieci minuti. Duecento passi almassimo separavano gli indù, Banks ed i suoi compagni. Se quelliandavano più presto, l'elefante artificiale poteva tener duro più alungo di loro. Tutta la tattica consisteva dunque nell'impedir loro di

 passare avanti.In quel momento, si udirono una dozzina di fucilate; le pallottole

 passarono fischiando sopra il Gigante d'Acciaio, tranne una che locolpì all'estremità della proboscide.

 — Non fate fuoco! Non bisogna sparare che a colpo sicuro! —gridò il capitano Hod. — Risparmiamo le pallottole. Sono ancoratroppo lontani!

Banks, vedendo allora davanti a sé un miglio di strada che sisvolgeva quasi in linea retta, azionò ampiamente l'acceleratore, e ilGigante d'Acciaio, aumentando la velocità, lasciò la banda moltecentinaia di passi indietro.

 — Hurrah! hurrah per il nostro Gigante! — esclamò il capitanoHod che non poteva trattenersi. — Ah! canaglie! non lo piglieranno!

Ma al termine di quel rettilineo, una specie di gola ripida esinuosa, ultimo rilievo del versante meridionale dei Vindhya, doveva

necessariamente ritardare la marcia di Banks e dei suoi compagni.Kâlagani e gli altri, sapendolo bene, non abbandonaronol'inseguimento.

Il Gigante d'Acciaio giunse rapidamente a quella strettoia dellavia, che si cacciava fra due alte scarpate rocciose.

Bisognò allora rallentare e avanzare con grandi precauzioni. Acausa di tale ritardo, gli indù riguadagnarono tutto il terreno cheavevano perduto: se non speravano più di salvare Nana Sahib, che

era alla mercé di una pugnalata, volevano almeno vendicarne lamorte.

Poco dopo, si udirono nuovi spari, senza danno però per coloroche il Gigante d'Acciaio portava su di sé.

 — La cosa si fa seria! — disse il capitano Hod spianando lacarabina. — Attenzione!

Goûmi e lui spararono simultaneamente; due degli indù più vicini

caddero al suolo colpiti al petto. — Due di meno! — disse Goûmi ricaricando la sua arma.

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 — Due per cento! — esclamò il capitano Hod. — Non basta, bisogna che paghino più caro.

E le carabine del capitano e di Goûmi, a cui si unì il fucile di Fox,colpirono mortalmente altri tre indù.

Ma, dovendo avanzare in quella stretta gola sinuosa, non sicamminava rapidamente. Mentre si restringeva, la strada, come si sa, presentava una salita molto ripida. Pure, un mezzo miglio ancora, poi, le ultime balze dei Vindhya sarebbero state superate, e il Giganted'Acciaio sarebbe sbucato a cento passi da un posto militare quasi invista della stazione di Jubbulpore!

Gli indù non erano gente da indietreggiare davanti alle fucilate delcapitano Hod e dei suoi compagni. La loro vita non contava più nullaquando si trattava di salvare o di vendicare Nana Sahib! Dieci, ventidi loro sarebbero caduti sotto i proiettili, ma ne sarebbero rimastiancora ottanta per gettarsi sul Gigante d'Acciaio e trionfare del piccolo drappello a cui esso serviva da cittadella ambulante! Perciòraddoppiarono gli sforzi per raggiungere i fuggitivi.

Kâlagani non ignorava, del resto, che il capitano Hod e i suoicompagni dovevano essere ridotti alle loro ultime cartucce, e che in

 breve fucili e carabine sarebbero stati armi inutili nelle loro mani.Infatti, i fuggitivi avevano esaurito la metà delle munizioni cherimanevano loro, e stavano per essere ridotti all'impossibilità didifendersi.

Pure, si udirono ancora quattro fucilate, e quattro indù caddero.Al capitano Hod e a Fox rimanevano solo due colpi da sparare.In quel momento, Kâlagani, che fino allora si era tenuto in

disparte, si spinse più avanti di quello che consigliava la prudenza.

 — Ah! ti tengo! — esclamò il capitano Hod prendendolo di miracon gran calma.

Il proiettile non lasciò la carabina del capitano Hod che per andara colpire il traditore in mezzo alla fronte. Le sue mani si agitarono unistante, egli girò su se stesso e cadde.

In quell'istante, apparve l'estremità sud della gola. Il Giganted'Acciaio fece uno sforzo supremo, la carabina di Fox si fece udire

un'ultima volta, e un ultimo indù rotolò a terra.

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Ma gli indù si avvidero quasi subito che il fuoco era cessato, e sislanciarono all'assalto dell'elefante, da cui non distavano più checinquanta passi.

 — A terra! a terra! — gridò Banks.

Sì, in quello stato di cose era meglio abbandonare il Giganted'Acciaio, e correre verso il posto che non era più lontano.

Il colonnello Munro, trasportando sua moglie fra le braccia, scesesulla via.

Il capitano Hod, Maucler, il sergente e gli altri erano saltatiimmediatamente a terra.

Soltanto Banks era rimasto nella torretta. — E questo delinquente! — esclamò il capitano Hod mostrando

 Nana Sahib legato sul collo dell'elefante. — Lasciami fare, capitano! — rispose Banks con uno strano tono.Poi, dopo aver azionato completamente l'acceleratore, scese a sua

volta.Tutti allora fuggirono, col pugnale in mano, pronti a vender cara

la vita.Frattanto, sotto la spinta del vapore, il Gigante d'Acciaio, benché

abbandonato a se stesso, continuava a risalire il pendio; ma, nonessendo più diretto, andò ad urtare contro la scarpata sinistra dellavia, come un ariete che vuol cozzare, ed arrestandosi bruscamentesbarrò quasi del tutto la strada.

Banks ed i suoi ne distavano già una trentina di passi, quando gliindù si gettarono in massa sul Gigante d'Acciaio, per liberare NanaSahib.

Improvvisamente, un rumore spaventoso, simile ai più violenti

scoppi di tuono, agitò gli strati d'aria con un'indescrivibile violenza.Banks, prima di lasciare la torretta, aveva caricato le valvole della

macchina. Il vapore raggiunse dunque una tremenda pressione, e,quando il Gigante d'Acciaio urtò contro la parete di roccia, non potendo più uscire dai cilindri, fece scoppiare la caldaia, i cui rottamisi dispersero in tutte le direzioni.

 — Povero Gigante! — esclamò il capitano Hod, — morto per

salvarci!

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C  APITOLO XIV

 LA CINQUANTESIMA TIGRE   DEL CAPITANO  HOD

IL COLONNELLO Munro, i suoi amici, i suoi compagni, nonavevano più nulla da temere, né dal nababbo né dagli indù che sierano attaccati alla sua sorte né da quei Dacoit, di cui egli avevaformato una temibile banda in quella parte del Bundelkund.

Al rumore prodotto dallo scoppio, i soldati del posto diJubbulpore erano usciti in numero imponente. I pochi compagni di Nana Sahib che ancora rimanevano, trovandosi senza capo, si eranodati alla fuga.

Il colonnello Munro si fece riconoscere, e mezz'ora dopo, tuttigiungevano alla stazione, dove trovarono abbondantemente ciò chemancava loro, e soprattutto i viveri, di cui avevano urgente bisogno.

Lady Munro fu alloggiata in un comodo albergo, nell'attesa del

momento di condurla a Bombay. Lì, sir Edward Munro sperava direndere la vita dell'anima a colei che viveva solo della vita del corpo,e che sarebbe sempre rimasta morta per lui, finché non avessericuperato la ragione!

Per dire la verità, nessuno dei suoi amici si rassegnava a disperaredella prossima guarigione di lady Munro. Tutti aspettavano fiduciosiun avvenimento che solo avrebbe potuto modificare l'esistenza del

colonnello.Venne stabilito che, fino dal giorno successivo, si sarebbe partiti per Bombay. Il primo treno avrebbe ricondotto tutti gli ospiti dellaSteam-House verso la capitale dell'India occidentale. Questa volta,sarebbe stata la volgare locomotiva a trasportarli a tutta velocità, enon più l'infaticabile Gigante d'Acciaio, di cui non rimanevano ormaiche rottami informi.

Ma né il capitano Hod, suo fanatico ammiratore, né Banks, suo

creatore ingegnoso, né nessuno dei membri della spedizione,avrebbero mai dimenticato quel «fedele animale», a cui avevano

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finito per attribuire una vera vita. Il rombo dell'esplosione che loaveva distrutto doveva echeggiare per un pezzo nella loro memoria.

Perciò nessuno si stupirà che, prima di lasciare Jubbulpore, Banks,il capitano Hod, Maucler, Fox, Goûmi, avessero voluto tornare sul

teatro della catastrofe. Non c'era evidentemente più nulla da temere dalla banda dei

Dacoit. Tuttavia, per eccesso di precauzione, quando l'ingegnere e isuoi compagni giunsero al posto dei Vindhya, un distaccamento disoldati si unì a loro, e, verso le undici, giungevano all'ingresso dellagola.

Dapprima, trovarono, sparsi al suolo, cinque o sei cadaverimutilati. Erano quelli degli assalitori che si erano gettati sul Giganted'Acciaio per liberare Nana Sahib.

Ma era tutto. Del resto della banda, non c'era più alcuna traccia.Invece di ritornare nel loro covo di Ripore, ora conosciuto, gli ultimifedeli di Nana Sahib avevano dovuto disperdersi nella valle del Nerbudda.

Quanto al Gigante d'Acciaio, era interamente distrutto in seguitoall'esplosione della caldaia. Una delle sue larghe zampe era stata

scagliata a gran distanza; una parte della proboscide, lanciata controla scarpata, vi si era incastrata e sporgeva come un bracciogigantesco. Dappertutto si vedevano lamiere curvate, dadi, bulloni,griglie, frammenti di cilindri, snodi di bielle. Al momentodell'esplosione, quando le valvole caricate non potevano più offrirgliuna uscita, il vapore doveva essere stato a una pressione formidabilee superare forse le venti atmosfere.

E ora, dell'elefante artificiale di cui gli ospiti della Steam-House si

mostravano così fieri, di quel colosso che provocava la superstiziosaammirazione degli indù, del capolavoro meccanico dell'ingegnerBanks, di quel sogno divenuto realtà del fantasioso rajah di Buthan,non rimaneva altro che una carcassa irriconoscibile e senza valore!

 — Povera bestia! — non poté trattenersi dall'esclamare il capitanoHod, davanti al cadavere del suo caro Gigante d'Acciaio.

 — Se ne potrà fabbricare un altro... un altro che sarà ancora più

 poderoso! — disse Banks.

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 — Senza dubbio, — rispose il capitano, lasciandosi sfuggire ungrosso sospiro, — ma non sarà più lui!

Mentre si abbandonavano a queste ricerche, l'ingegnere ed i suoicompagni ebbero l'idea di cercare se si trovasse qualche resto di

 Nana Sahib. In mancanza del viso del nababbo, facile da riconoscere,le sue mani a cui mancava un dito sarebbero loro bastate peraccertarne l'identità. Avrebbero voluto avere questa provaincontestabile della morte di colui che non si poteva più confonderecon suo fratello Balao Rao.

Ma nessuno dei resti insanguinati che ingombravano il suolosembrava essere appartenuto a colui che era stato Nana Sahib. I suoifanatici avevano dunque portato via perfino gli ultimi avanzi dellesue reliquie? Era più che probabile.

 Ne doveva però risultare che, non essendovi alcuna prova certadella morte di Nana Sahib, la leggenda avrebbe ripreso i suoi diritti, eche, nello spirito delle popolazioni dell'India centrale, l'inafferrabilenababbo sarebbe sempre stato creduto vivo, finché dell'antico capodei Cipay si sarebbe fatto un dio immortale.

Ma per Banks e per i suoi compagni non era ammissibile che

 Nana Sahib avesse potuto sopravvivere allo scoppio.Ritornarono alla stazione, non senza che il capitano Hod avesseraccolto un pezzo di una delle zanne del Gigante d'Acciaio, preziosareliquia che voleva conservare per ricordo.

Il giorno seguente, 4 ottobre, tutti lasciavano Jubbulpore in unvagone messo a disposizione del colonnello Munro e del suo seguito.Ventiquattro ore più tardi, superavano i Ghàti occidentali, quelleAnde indiane, che si stendono per una lunghezza di trecentosessanta

leghe, in mezzo a fitte foreste di baniani, di sicomori, di tek,mescolati a palme, palme da cocco, arek, alberi del pepe, sandali e bambù. Alcune ore dopo, la ferrovia li deponeva nell'isola diBombay, che, con le isole Salcette, Elefanta e altre, forma unamagnifica rada e porta alla sua estremità sud-est la capitale della presidenza.